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angelino alfano

Minestre riscaldate

Il centrodestra sta apparecchiando le sue esplosive candidature per le prossime elezioni a Roma e a Milano, le città che di solito sono considerate laboratori politici di ciò che poi accade a livello nazionale. Parlando di Roma e di Milano quindi inevitabilmente verrebbe da dire che le candidature dovrebbero essere il termometro per testare la salute della coalizione. Tenetevi forte: Gabriele Albertini e Guido Bertolaso. Il futuro del centrodestra italiano sta tirando la giacchetta a due giovani (entrambi classe 1950) a cui viene affidato il compito di disegnare il futuro della destra in Italia. Alla grande direi.

Con Albertini a Milano si punta forte sull’effetto nostalgia, quando il centrodestra aveva anche una certa credibilità in termini di governo e non solo come urlatori. Albertini l’umile, quello che di sé dice «io, come industriale, mi considero uno dei più grandi rivoluzionari della storia, perché chi ha cambiato l’uomo, chi ha rivoluzionato l’individuo, non è stata la rivoluzione marxista, è stata l’industrializzazione». Poiché quelli erano tempi di una Milano che ha lasciato sensazione di ricchezza e di serenità si punta al ricordo. Ci si dimentica (come è avvenuto per Letizia Moratti) che Albertini ha anche incassato sonore sconfitte (ma quelle si sa, si dimenticano in fretta): nel 2014 (era passato con Angelino Alfano, ma Salvini sembra esserselo dimenticato) non viene eletto alle europee. Candidato come capolista a Milano (nella sua Milano, eh) a sostegno di Parisi nel 2016 prende 1.376 preferenze (alla grande, eh) e non viene eletto. Ah, una curiosità: Giorgio Gori quando perse le elezioni regionali contro Fontana gli chiese di candidarsi nella sua lista. Per dire.

Bertolaso invece va bene in ogni occasione. L’uomo che nell’immaginario del centrodestra “risolve i problemi” è arrivato in Lombardia e ha avuto il gran ruolo di accorgersi che Fontana e i suoi non riuscivano a concludere un bel niente ma ovviamente Bertolaso questo non ce lo dice. Ora comunica che la sua missione è terminata (ma il problema l’ha risolto Poste italiane con la sua piattaforma che ha sostituito quella costosissima e inefficiente di Regione Lombardia) e in molti lo spingono su Roma. Ora fa il prezioso (eppure nel 2016 non voleva ritirarsi nemmeno di fronte alla candidatura di Giorgia Meloni). Anche per lui vale il condono del tempo: bastano una buona narrazione e un po’ di anni e tutto passa in cavalleria.

Veramente fresca e interessante questa nuova classe dirigente del centrodestra in Italia. Manca solo Berlusconi ma vedrete che prima o poi arriverà anche lui, sicuro.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

San Raffaele, visite Covid a pagamento? Peggio di come sembra

Ha fatto molto discutere ieri la notizia che il San Raffaele di Milano ha un vero e proprio servizio, a pagamento, per i pazienti positivi al Covid-19 in isolamento a casa. Il costo di una visita specialistica a domicilio è di 450 euro, mentre per un più semplice e immediato consulto video o telefonico da parte del medico il costo è di 90 euro. 90 euro per un consulto telefonico, avete letto bene.

Ha centrato il punto il consigliere regionale Matteo Piloni che dice: «Sei positivo al Covid e in isolamento? Le Usca non funzionano come dovrebbero? Tranquilli, ci pensa il privato. Se Ats o il vostro medico non vi chiamano o non rispondono, ci pensa il San Raffaele. Con un consulto video o telefonico a 90 euro e, se il medico lo riterrà, con 450 euro per un servizio di diagnostica a domicilio. Il pubblico arranca e il privato ingrassa».

Vale la pena rileggere anche quello che disse Alberto Zangrillo, primario guarda caso proprio al San Raffaele: «È indubbio che la diga del terrorismo ha ceduto e le persone sono disorientate e spaventate. Il malato va seguito a domicilio dall’esordio della prima sintomatologia». La frase, di per sé giusta, risulta un po’ risibile se detta da chi il Covid questa estate lo giudicava “clinicamente morto”, da quello del “sono tutti asintomatici” e dallo stesso che lavora nell’ospedale che lucra proprio sulla paura.

Per inciso l’Ospedale San Raffaele fa parte del Gruppo San Donato, sì sì proprio quello dove lavora Angelino Alfano e dove lavora Roberto Maroni. Incredibile, vero?

Per capire sempre del Gruppo San Donato conviene anche rileggersi una nota del consigliere regionale in Lombardia del M5S Fumagalli che l’8 agosto scrisse: «In data 5 agosto, la Giunta Regionale (con la delibera 3518 dall’anonimo oggetto: (‘Determinazioni in ordine alla gestione del servizio sanitario e sociosanitario per l’esercizio 2020-1°provvedimento’) stabilisce di farsi carico del 50% dei costi del rinnovo contrattuale della sanità privata con interventi relativi alle tariffe e ai budget nei limiti delle risorse disponibili. Questo significa (come già segnalato sul sito di Business Insider Italia) che, ad esempio, un ospedale come il San Donato che nel 2019 ha fatto un fatturato di 170 milioni di euro con un utile netto di quasi 34 milioni di euro, riceverà dei fondi extra per pagare i propri dipendenti. 5 milioni di euro solo per i mesi restanti del 2020. Se Regione Lombardia ha così a cuore i dipendenti degli Ospedali privati, perché non impone a questi imprenditori (il San Donato è guidato da Angelino Alfano) di applicare il Ccnl della sanità pubblica? Perché non impone di assumere i medici anziché tenerli a partita Iva? Il San Donato ha solo un medico assunto. Perché impegnarsi ad aumenti di tariffa e di budget nei confronti di chi fa già enormi utili per pagare i dipendenti? Non possono usare i margini che hanno per pagare i dipendenti e diminuire gli utili? Ma ai lavoratori delle cooperative che stanno nella sanità con uno sfruttamento enorme, i soldi dell’aumento di stipendio lo passa Regione Lombardia? No, perché in queste cooperative, non ci sono Alfano e Maroni a fare i presidenti».

Insomma, è molto peggio di come sembra.

Buon martedì.

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È che ci vuole il fisico, per sapere non fare la guerra

Angelino Alfano, ministro agli Esteri: «L’Italia comprende le ragioni di un’azione militare USA proporzionata nei tempi e nei modi, quale risposta a un inaccettabile senso di impunità nonché quale segnale di deterrenza verso i rischi di ulteriori impieghi di armi chimiche da parte di Assad, oltre a quelli già accertati dall’ONU».

Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio: «L’azione ordinata dal presidente Trump. È una risposta motivata a un crimine di guerra. L’uso di armi chimiche non può essere circondato da indifferenza e chi ne fa uso non può contare su attenuanti o mistificazioni».

Nicola La Torre, senatore del PD, presidente della Commissione Difesa al Senato: «L’azione USA è un’opportunità. Obama con Mosca sbagliava strategia. Ogni sforzo diplomatico era azzerato. L’attacco ha fermato la china criminale e può riaprire il negoziato».

Queste le dichiarazioni. E il commento, alla fine, non c’è nemmeno bisogno di scriverlo perché l’ha già detto come meglio non si poteva dire George Orwell nel 1938:

(continua su Left)

Indovina con chi va il Pd? Con Angelino Alfano. A Palermo, intanto

Nonostante sia un copione liso e scontato, provoca il sorriso la testardaggine con cui questi si ostinano a smentirla: a Palermo, in vista delle prossime elezioni amministrative, il Pd sosterrà l’attuale sindaco Leoluca Orlando (a cui, dicono, hanno fatto opposizione dura in questi ultimi cinque anni, per dire) insieme agli alsaziani (quel che ne resta) e ai rimasugli dell’Udc.

Ne esce una lista (dal nome appetitosissimo “Democratici e Popolari”) che richiama lontanamente i colori e le grafiche del Partito Democratico e di Alternativa Popolare (la neonata creatura di Angelino Alfano) senza però citarli; Leoluca Orlando, del resto, da mesi continua a spiegare un po’ dappertutto che Fassino ha perso proprio per “colpa” del partito. Quindi? Quindi tutti civici per finta con la pretesa di riuscire a darcela a bere. Democratici e popolari. Appunto.

 

(continua su Left)

A Palermo il PD si fonde con Angelino Alfano. Stupiti?

Ne scrive Giuseppe Pipitone:

Erano tutti o quasi d’accordo: con Angelino non andremo mai più, dicevano. E invece non solo il Pd torna ad allearsi con Alfano, ma addirittura è costretto a occultare il suo simbolo per fondersi con Alternativa Popolare, il neonato partito del ministro degli Esteri. Succede in Sicilia, infaticabile laboratorio politico nazionale, dove lunedì gli esponenti dem hanno presentato la loro lista in vista delle amministrative di Palermo. Dopo cinque anni all’opposizione del sindaco Leoluca Orlando, infatti, il partito del sottosegretario Davide Faraone – sconfitto alle primarie nel 2012 – ha ben pensato di riporre in archivio centinaia di dichiarazioni al vetriolo contro il primo cittadino palermitano per sostenerne la ricandidatura in mancanza di concorrenti più credibili.

Solo che Orlando – eletto sindaco per la prima volta nell’ormai lontanissimo 1985 – non è certo l’ultimo arrivato. “Piero Fassino a Torino ha perso non perché ha amministrato male, ma perché è diventatosimbolo dei partiti“, ha ripetuto fino allo sfinimento il professore ai suoi fedelissimi. Ed è proprio per evitare di fare la fine di Fassino – cioè essere battuto clamorosamente dal Movimento 5 Stelle – che Orlando ha dato il suo ultimatum al Pd: sì all’alleanza ma senza alcun simbolo di partito.

I dem – come ha raccontato ilfattoquotidiano.it – ci hanno riflettuto non poco: poteva il partito che governa a Roma con Paolo Gentiloni e in Sicilia con Rosario Crocetta rinunciare alla sua lista proprio nella principale città chiamata alle urne per le amministrative della prossima primavera? Poteva quella che è – o punta ad essere – la prima forza politica del Paese nascondere il proprio simbolo sotto il tappeto, manco si trattasse di un marchio di cui vergognarsi, a pochi mesi dalle elezioni politiche? In teoria no, non poteva. In pratica, però, Lorenzo Guerini, numero due del Nazareno, non ha potuto fare altro che piegarsi al diktat di Orlando, ordinando ai suoi di contenere ogni orgoglio di sorta. Per raccogliere qualche consigliere, e magari qualche assessore, a Palermo i dem saranno costretti a fare finta di non essere dem: negare se stessi in nome di qualche voto.

Ma non solo. Perché sulla rielezione del quattro volte sindaco di Palermo non punta le sue fiches solo il Pd. Al contrario anche le cosiddette forze moderate – e cioè gli alfaniani e quel che resta dell’Udc – sono ben consapevoli di non avere scelta: o con Orlando o fuori dal consiglio comunale del capoluogo siciliano. È per questo motivo che alla fine è nata Democratici e Popolari, la lista civica del Pd, degli alfaniani che hanno appena chiuso il Nuovo Centrodestra per convertirlo in Alternativa Popolare, e degli ex Udc che hanno seguito Giampiero D’Alia nella scissione a colpi di “cocainomani” e “mafiosi” dalla corrente di Lorenzo Cesa.

Un’occhiata al simbolo vale più di qualsiasi manuale di trasformismo politico: il Partito Democratico sacrifica la sua P, a beneficio di Alternativa Popolare che invece fa a meno della A. I colori, invece, ci sono tutti: il rosso e il verde dei dem, il blu degli alfaniani, persino quattro stellepescate chissà dove, che però di questi tempi vanno tanto di moda. In pratica un simbolo marmellatache raffigura in maniera efficace la fusione tra il partito di Matteo Renzi e quello di Angelino Alfano. “Questa è un’alleanza alla pari ci saranno 20 candidati indicati dal Pd e 20 dall’area popolare”, rivendica il deputato Dore Misuraca, leader degli alfaniani che sostengono Orlando, mentre Francesco Cascio, ex presidente dell’Assemblea regionale siciliana, punta ad appoggiare l’altro candidato Fabrizio Ferrandelli. “Daremo un contributo decisivo alla vittoria del centro sinistra e di Leoluca Orlando alle prossime elezioni amministrative. Il simbolo che abbiamo presentato tiene dentro le istanze dei nostri alleati, del sindaco ma soprattutto dei tanti iscritti e militanti del Pd che ci hanno spronato a tenere insieme unità e identità”, annuncia anche Antonio Rubino, responsabile dell’organizzazione del Pd in Sicilia.
E dire che fino a pochi giorni fa, una nuova alleanza con Alfano era vista come fumo negli occhi ai piani alti del Nazareno. “Siamo al governo insieme perché nel 2013 non abbiamo vinto le elezioni e per andare avanti ci siamo alleati con forze a noi alternative. Ma è abbastanza evidente che un partito che si chiama Nuovo centrodestra difficilmente si può alleare con un partito di sinistra”, diceva appena il 7 febbraio il presidente del partito Matteo Orfini, rispondendo dal palco del Lingotto a Giuliano Pisapia. “Un listone unico con il Pd e Alfano? Per me, e non solo per me, sarebbe un incubo“, aveva detto l’ex sindaco di Milano, mettendo in mostra – suo malgrado –  sorprendenti doti divinatorie.  Sono bastate poche settimane, infatti, per stimolare il repentino cambio di passo di Orfini e soci: contrordine compagni, con Angelino non solo bisogna allearsi ma occorre addirittura fondersi. La scomparsa di quell’ingombrante locuzione – “Nuovo Centrodestra” – e i sondaggi che danno il nuovo-vecchio partitino di Alfano addirittura al 3,4 percento hanno fatto il resto. In attesa di capire se l’incubo di Pisapia sia destinato a diventare realtà soltanto a Palermo.

(fonte)

Cara di Mineo: voti per NCD in cambio di assunzioni. Tra i rinviati a giudizio il sottosegretario Castiglione. Che ne dice Alfano?

Promesse di voti in cambio di assunzioni al centro per richiedenti asilo di Mineo. E poi turbativa d’asta nella gara da quasi cento milioni di euro per la gestione dello stesso Cara in provincia di Catania. Sono i reati contestati dalla procura etnea che oggi ha emesso diciassette richieste di rinvio a giudizio per altrettanti indagati coinvolti nell’inchiesta sul centro per richiedenti asilo più grande d’Europa. Tra loro c’è anche Giuseppe Castiglione, sottosegretario all’Agricoltura e leader del Nuovo Centrodestra.

Per i pm etnei la turbativa d’asta è stata commessa durante la concessione dell’appalto per i servizi del Cara tra il 2011 e il 2014. Nello stesso periodo le assunzioni al centro garantivano un discreto pacchetto di voti ai politici coinvolti nell’indagine. I magistrati però contestano anche alcuni reati amministrativi alla Sol. Calatino, il consorzio che gestiva il centro di Mineo, a sua volta destinatario di una richiesta di rinvio a giudizio. Oltre a Castiglione, tra le 17 persone per le quali la procura chiede il processo c’è Luca Odevaine, l’uomo che gestiva il business dell’accoglienza per Mafia capitale, il sindaco di Mineo (anche lei di Ncd), Anna Aloisi, ex presidente del consorzio dei Comuni “Calatino Terra d’Accoglienza“,  l’ex direttore del consorzio, Giovanni Ferrera e gli ex vertici dell’Associazione temporanea d’imprese che gestiva il centro. L’udienza preliminare – come racconta il quotidiano La Sicilia – è stata fissata per il 28 marzo prossimo, davanti al gup Santino Mirabella.

Nel provvedimento di 14 pagine firmato dai sostituti Raffaella Agata VinciguerraMarco Bisogni, e vistato dal procuratore Carmelo Zuccaro e dall’aggiunto Michelangelo Patanè, è stata stralciata la posizione di cinque indagati, su cui sono in corso ancora accertamenti e valutazioni. Secondo l’accusa, Castiglione, che entra nell’inchiesta non per l’attuale incarico da sottosegretario ma perché all’epoca dei fatti era presidente della provincia di Catania e quindi soggetto attuatore del Cara, avrebbe “predisposto il bando di gara con la finalità di affidamento all’Ati appositamente costituita”. Accusa contestata anche a Odevaine e Ferrera, rispettivamente presidente e componente la commissione aggiudicatrice.

Gli  inquirenti ritengono inoltre che le coop interessate si “costituivano appositamente in Ati” dopo avere “ricevuto rassicurazioni sull’aggiudicazione degli appalti”, il cui “bando era concordato con lo stesso Castiglione, Odevaine e con Ferrera”. Ferrera e Odevaine sono indagati anche per falso ideologico per l’assunzione di quest’ultimo al Cara di Mineo come esperto di fondi Ue. Quell’appalto da 100 milioni di euro aveva focalizzato anche l’attenzione dall’Autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone che aveva definito la gara “illegittima” e lesiva dei principi di “concorrenza” e “trasparenza“.

A Castiglione, al sindaco di Mineo Aloisi e a Paolo Ragusa, presidente del consorzio Sol Calatino, è contestata anche la corruzione “per la promessa di votiper loro e i gruppi politici nei quali gli stessi militavano” in cambio di “assunzioni al Cara”. I gruppi politici verso i quali erano indirizzati i voti sono diversi e cambiano ad ogni elezione: alle politiche del 2013 era il Pdl, alle amministrative di Mineo era la lista Uniti per Mineo, mentre alle europee del 2014 le preferenze vengono indirizzata verso il Nuovo Centrodestra.

In pratica secondo la ricostruzione dell’accusa il sottosegretario Castiglione era riuscito a trasformare il centro richiedenti asilo in una sorta di massiccia macchina elettorale. E non è un caso che –  secondo quanto messo a verbale da Odevaine – ad ogni nuova assunzione al centro, “tutti i sindaci appartenenti al consorzio si sono riuniti con Paolo Ragusa per spartire il numero delle assunzioni da fare”. Del resto gli stessi dipendenti del Cara hanno raccontato ai magistrati che gli veniva chiesto di prendere la tessera del Ncd. È in questo modo che il partito di Angelino Alfano è diventato fortissimo nei comuni della zona.

Una prova di forza elettorale è arrivata nel maggio del 2014, poco prima che venisse bandita la gara d’appalto da 100 milioni per la gestione di Mineo: Giovanni La Via, ex assessore regionale all’Agricoltura di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, viene eletto europarlamentare con più di 56mila preferenze. Nel suo partito è il primo degli eletti a Bruxelles: prende addirittura diecimila voti in più rispetto a quelli raccolti da Maurizio Lupi, che all’epoca era ancora ministro. Si sarebbe dimesso alcuni mesi dopo, perché coinvolto – seppur da non indagato – nello scandalo sulle Grandi Opere.  Castiglione, invece, rimane ancora al suo posto.

“A due anni dall’avviso di garanzia provvisorio apprendo finalmente che il 28 marzo si terrà l’udienza preliminare davanti al gup di Catania sulla vicenda cara di Mineo. Ribadisco, come ho fatto costantemente ed energicamente in questi anni, la mia assoluta estraneità ai fatti che vengono contestati – commenta Castiglione –  Il 28 marzo, nell’unica sede a ciò proposta – aggiunge il sottosegretario – davanti al tribunale, affronterò ogni singola contestazione, dimostrando sia la piena legittimità delle procedure amministrative che le fantasticherie sul presunto, quanto inesistente, vantaggio elettorale di un partito che, tra l’altro, èstato costituito quasi tre anni dopo i fatti contestati”. Il Movimento 5 Stelle, invece, commentando la notizia della richiesta di rinvio a giudizio mette nel mirino il ministro Alfano.  “Quando era ministro degli Interni non si è accorto di quanto stava accadendo e che vede il suo partito coinvolto in tutti i maggiori scandali legati al business dell’accoglienza degli immigrati: Alfano deve dimettersi insieme al sottosegretario Castiglione”, dice Michela Montevecchi, capogruppo del M5S al Senato.

(fonte)

La dolce vita di Alfano jr: 200mila euro senza firmare un solo documento

(da Repubblica)

Quattro anni in Poste. E nessun documento firmato. È quanto emerge dal rapporto che la guardia di finanza ha consegnato nei giorni scorsi alla procura presso la Corte dei Conti. L’indagine riguarda l’assunzione e la carriera record di Alessandro Alfano, il fratello del potentissimo Angelino, ex ministro della Giustizia nel governo Berlusconi, ex ministro dell’Interno nei governi Letta Renzi, ora ministro degli Esteri nel governo Gentiloni, nonché ex segretario politico del Pdl e ora leader di Ncd.

La carriera record del fratello del Ministro. Alessandro, una laurea triennale in economia conseguita a 34 anni, ha bruciato le tappe nella carriera da dirigente in Postecom. Il suo stipendio è passato dal 2014 al 2016 da 160 a 200 mila euro. Ora però un’inchiesta della Corte dei Conti – affidata al nucleo valutario della guardia di finanza – cerca di capire se le promozioni di Alfano jr (a cominciare dall’assunzione), siano avvenute per meriti professionali. O per meriti di parentela causando, se dimostrata questa ultima ipotesi, un danno erariale. “Siamo di fronte a un ri-uso politico di scarti di inchiesta giudiziaria“, si era difeso il ministro Alfano.

I dubbi sull’assunzione. Ma le carte giudiziarie sembrano raccontare un’altra storia. Il consigliere d’amministrazione di Poste Italiane, “dottor Antonio Mondardo aveva manifestato la propria perplessità all’allora ad Massimo Sarmicirca le motivazioni che avevano portato all’assunzione di Alessandro Alfano, senza che il cda fosse portato a conoscenza dell’esigenza di dover ricoprire tale ruolo, e che per tale carica fosse prevista l’assunzione del citato dirigente”. Nel luglio del 2016, dopo essere stato sfiduciato dal direttivo regionaleAntonio Mondardo, 51 anni, tesoriere della Liga Veneta-Lega Nord, aveva tentato il suicidio.

L’ex ad Sarmi sbugiardato dal collaboratore. Ma c’è dell’altro, perché lo stesso Sarmi, sentito nel febbraio scorso a sommarie informazioni dai finanzieri, avrebbe mentito: “Sapeva che Alessandro Alfano era il fratello del ministro?”, gli chiede la finanza. “No, non mi sembra che all’epoca si era preso in considerazione questo legame”, risponde Sarmi. A sbugiardarlo ci pensa il suo stesso braccio destro in Poste, Claudio Picucci. “Lei aveva informato Sarmi che Alessandro era il fratello del ministro?”, domandano gli investigatori. “Sicuramente sì, anche perché il nome era altisonante”, afferma Picucci. “E chi aveva presentato il cv di Alessandro Alfano?”, incalzano gli inquirenti. “Ritengo (l’allora, ndr) l’ad di Poste, Sarmi”. “Di sua iniziativa – precisa Picucci- (Sarmi, ndr) mi inviò il curriculum non per soddisfare un’esigenza immediata, ma per tenerlo in considerazione nel caso in cui fossero emerse necessità”.

Le intercettazioni del faccendiere. Ci sono poi le intercettazioni della procura capitolina su un uomo vicino ad Angelino Alfano, il faccendiere Raffaele Pizza, arrestato il 6 luglio. In una delle conversazioni intercettate nel gennaio del 2015, Pizza si vantava con Davide Tedesco, storico collaboratore del ministro Alfano, di aver facilitato, grazie ai suoi rapporti con l’ex amministratore di Poste, Sarmi, l’assunzione del fratello del ministro in una società del Gruppo, Postecom. Pizza diceva: “Lui come massimo (di stipendio, ndr) poteva avere 170 mila euro e io gli ho fatto avere 160 mila. Tant’è che Sarmi stesso gliel’ha detto ad Angelino, ‘Io ho tolto 10 mila euro d’accordo con Lino’ (Pizza, ndr), per poi evitare. Adesso va dicendo che l’ho fottuto perché non gli ho fatto dare i 170 mila”.

Primo stipendio, 160mila euro. E così Alfano jr entra in Postecom nel 2013 con uno stipendio lordo da 160 mila euro l’anno. Diventano 180 quando Alessandro Alfano, nel gennaio del 2015, passa a un’altra società del gruppo, Poste Tributi. E infine l’ultima promozione per il fratello del ministro porta la data del maggio 2016, passaggio in Poste italiane e salario (lordo) da 200 mila euro.

Quel neo che è Alfano (e il suo partito)

“…no, loro lo fanno, però devono passare i 4 anni, perché sennò non ci posso tornare, no? Io se potevo rimanere lì me ne fottevo di venire a fare il deputato a perdere tempo qua….che c. me ne sfottevo….stavo tanto bene là, il potere là è immenso, là è potere pieno, non so se rendo l’idea…ci sono interessi….sono legati grossi interessi…grossi interessi non avete proprio idea…“.

Queste sono le parole di Antonio Marotta. Antonio Marotta ha 69 anni, è un avvocato e sta in quel partito che è una crosta e si chiama NCD. Antonio Marotta però non è semplicemente un parlamentare. Figurarsi. In questo Paese degli illustri sconosciuti come lui finiscono addirittura al CSM, il Consiglio Superiore della Magistratura. L’orfano, per intendersi, che nella storia d’Italia ha messo i bastoni tra le ruote a Falcone, Caselli e oggi a Di Matteo. Gente che dovrebbe essere al di sopra di ogni sospetto e invece troppo spesso è al di sotto di qualsiasi livello di potabilità. Ma funziona così, qui da noi: la politica occupa posizioni dirigenziali affidandole troppo spesso ai più bravi servi. Mica ai più bravi.

In tutto questo Angelino Alfano, che per questo assurdo gioco di equilibrismi che se ne fottono della meritocrazia si trova a brigare da Ministro dell’Interno, dichiara, da Ministro del’Interno di essere “sicuro che si farà chiarezza”. Angelino Alfano, tra l’altro, è anche il segretario di partito di Roberto Formigoni (sì, quel Formigoni, lì, che ora è senatore ed è uno dei maggiorenti del partito, per dire) nonché il più longevo segretario del partito fondato da Marcello Dell’Utri, dopo Berlusconi ovviamente.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Un paio di considerazioni (cattive) sulle minacce ad Alfano

angelino-alfanoÈ inevitabile che le minacce ad Angelino Alfano creino un’onda di vicinanza così trasversale: in questa Italia del grande partito della nazione con tutti dentro sia da destra che da sinistra ormai anche le reazioni hanno un senso unico maggioritario. Ed è un’ottima notizia l’arresto di alcuni componenti di Cosa Nostra, per di più nella significativa Corleone e con vicino l’ologramma di Totò Riina che certamente conferiscono alla notizia tutta quella bella potabilità internazionale per meritarsi qualche riga anche sui media stranieri.

Andiamo con ordine: l’operazione dei Carabinieri “Grande Passo 3” ha portato all’arresto di 6 persone a Corleone, ritenuti gli “eredi” dello storico boss Totò Riina e “guidati” da Rosario Lo Bue, fratello de più fidato fiancheggiatore di Bernardo Provenzano. Come scrive più ampiamente qui Biagio Chiarello, gli arrestati avrebbero avuto in mente un piano che prevedeva l’eliminazione fisica del Ministro dell’Interno Angelino Alfano da attuarsi duranti uno dei suoi viaggi elettorali in Sicilia.

Fin qui tutto bene. Ma, dicono le carte della Procura, Angelino Alfano doveva essere ammazzato sì perché ha inasprito le condizioni di detenzione al 41 bis, ma anche perché, dice Pietro Masaracchia “chi minchia glielo ha portato allora qua con i voti di tutti… degli amici… è andato a finire là… insieme a Berlusconi ed ora si sono dimenticati di tutti…”. Non bisogna ordire complicate interpretazioni per capire che gli uomini di Cosa Nostra si sentano più traditi che perseguitati. Insomma, in un Paese normale, oltre che la normale vicinanza e solidarietà si assisterebbe per lo meno a qualche balzello simulato dei componenti di Governo leggendo che i presunti (e poco credibili) capi di Cosa Nostra esigerebbero un credito dall’attuale Ministro dell’Interno della repubblica Italiana. Non è forse questa la notizia che stordisce più di tutto il resto? Delle due l’una: o i picciotti cortonesi sono dei mitomani millantatori (e questo è un bene per la sicurezza del Ministro) oppure sono credibili in tutte le parti dei loro discorsi (e questo è un male per il Paese). Tertium non datur.

(continua qui)