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Salvare naufraghi non è reato, chiesta archiviazione per la Mare Jonio: “Legittimo non chiamare i libici”

Chissà che fegato amaro si faranno in questi giorni tutti quelli che hanno impunemente pensato di poter legiferare contro le leggi, quelli che per anni hanno sparso (e insistono ancora) fantasiose soluzioni prive di qualsiasi fondamento, quelli che davvero credono di poterci convincere che la Libia fosse un “porto sicuro” e che la cosiddetta Guardia costiera libica non sia semplicemente un manipolo di criminali finanziati con i nostri soldi. Sono passati solo pochi giorni dalla sentenza del Tribunale di Napoli che ha condannato il comandante della nave “Asso 28” per avere riconsegnato a Tripoli dei naufraghi raccolti in mare (ribadendo che no, che la Libia non è “un porto sicuro”) e ora la Procura di Agrigento (con il procuratore aggiunto Salvatore Vella e la pm Cecilia Baravelli) chiede l’archiviazione per la nave Mare Jonio dell’Ong Mediterranea accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina perché, secondo la Procura, la cosiddetta Guardia costiera libica in realtà non può soccorrere nessuno perché in realtà cattura e deporta.

Sotto la lente della magistratura era finito il comandante della Mare Jonio e il capomissione di Mediterranea Saving Humans per un soccorso effettuato il 9 maggio 2019, quando durante una missione di osservazione e monitoraggio nel Mediterraneo centrale, avevano individuato in acque internazionali in zona SAR di competenza attribuita alla Libia, a circa 35 miglia a nord di Zuara, un piccolo gommone sovraccarico di trenta persone, tra cui due donne incinte, una bambina di 2 anni – la piccola Alima – e diversi minori non accompagnati, che stava imbarcando acqua e aveva il motore in avaria. A bordo dell’imbarcazione improvvisata al limite dell’affondamento c’erano persone provenienti da Ciad, Bangladesh, Sudan, Camerun, Mali, Costa d’Avorio, Nigeria e Burkina Faso, prive di qualsiasi dispositivo di sicurezza, che agli inquirenti hanno poi raccontato di avere perso ogni speranza e di essere intenti a pregare.

Una volta soccorsi, la Mare Jonio aveva rifiutato qualsiasi contatto con le Autorità libiche, disobbedendo agli ordini provenienti dal Ministero dell’Interno italiano che voleva imporre di consegnare questi naufraghi alla cosiddetta Guardia costiera di Tripoli. La Mare Jonio aveva fatto rotta verso nord, sbarcando la mattina successiva tutte le 30 persone salvate nel porto sicuro di Lampedusa. Qui era scattata un’operazione di polizia della Guardia di Finanza, agli ordini del Viminale, con il sequestro della nave, durato fino all’agosto successivo, e l’apertura delle indagini a carico del capitano Massimiliano Napolitano e del coordinatore ed armatore Beppe Caccia, da due anni e mezzo indagati per reati quali il “favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina” e due violazioni del Codice della Navigazione.

Ora la Procura della Repubblica di Agrigento nella richiesta di archiviazione al Gip riconosce che quel comportamento fosse legittimo per aver “adempiuto al dovere di salvataggio di persone in pericolo di vita in mare” e al loro successivo sbarco in un porto sicuro. Non solo: secondo i pm proprio la situazione in Libia e i comportamenti criminali della cosiddetta Guardia costiera libica giustificherebbero il rifiuto da parte della nave Mare Jonio di comunicare con loro e soprattutto di sottoporsi al coordinamento delle autorità di Tripoli. La Procura riconosce anche come giusta e legittima la scelta di richiedere il porto sicuro di sbarco (“Place of Safety”) alle sole Autorità italiane e dirigersi senza esitazione a Lampedusa.

Anche per quanto riguarda le presunte violazioni del Codice della Navigazione per il mancato rispetto della Diffida della Direzione Marittima di Palermo ad “effettuare in modo stabile e organizzato operazioni di salvataggio in mare” senza aver ottenuto “le necessarie autorizzazioni e certificazioni” (una leva giuridica usata spesso per impantanare le navi delle ONG) la Procura di Agrigento afferma con chiarezza che «la Mare Jonio non era tenuta a dotarsi di alcuna certificazione SAR (…) poiché non esiste nell’ordinamento italiano alcuna preventiva certificazione diretta alle imbarcazioni civili per lo svolgimento di tale attività», così come non è ammissibile l’idea di stabilire «un numero massimo di naufraghi imbarcabili» durante un’operazione di soccorso, che rimane materia di esclusiva valutazione del Comandante della nave impegnata. La Procura tra l’altro racconta anche di avere richiesto il 20 giugno 2019 «all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr-Acnur) e, in particolare, all’Ufficio della Rappresentanza Regionale per il Sud Europa, se la Libia possa essere considerata un “Place of safety” (Pos)» ed avere ottenuto il successivo 3 ottobre la risposta con in allegato «un rapporto nel quale, dopo aver ripercorso i conflitti in corso in Libia nell’anno 2019, si esaminava la situazione di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in quei territori».

Sono le stesse testimonianze di torture, di abusi, di stupri, di violenza sessuale e di traffico di essere umani anche da parte di funzionari dello Stato libico che da anni vengono raccontate da taluni media rimanendo inascoltate dalla politica, dall’Italia, dall’Europa e dalla comunità internazionale. In quella lettera Unhcr ricordava «ai comandanti, che si trovano ad assistere persone in situazioni di emergenza in mare, non può essere chiesto, ordinato, e gli stessi non possono sentirsi costretti, a sbarcare in Libia le persone soccorse, per paura di incorrere in sanzioni o ritardi nell’assegnazione di un porto sicuro». Valgono più di tutto le parole dei Pubblici Ministeri di Agrigento: «certamente non può essere criminalizzata in sé lo svolgimento dell’attività di salvataggio di vite umane in mare, che anzi costituisce un obbligo giuridico per ciascun uomo di mare».

Ora, in attesa della decisione del Gip, appaiono in bilico anche le altre inchieste contro navi delle Ong che sono finite indagate per gli stessi reati e perfino i numerosi fermi amministrativi che il nuovo corso della ministra Lamorgese utilizza per fare la guerra ai salvataggi in mare, fingendo di non farla a differenza del suo predecessore Salvini. Che il salvataggio non possa essere criminalizzato ma sia un obbligo era chiaro a chiunque avesse chiaro il principio di solidarietà e conoscesse un minimo le leggi dello Stato (e quelle internazionali). Che non sia chiaro al governo italiano e all’Europa (oltre a qualche importante esponente politico) rende perfettamente l’idea della sciatteria con cui l’immigrazione sia diventata una frusta da agitare per concimare consenso. Peccato che, mentre lentamente da noi i tribunali rimettono a posto ciò che è giusto, qualche migliaio di persone ogni giorno soffre indicibili sofferenze e muoia in nome dell’interessata indolenza della politica tutta intorno.

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Il dramma di Valerio, suicida in cella dove non doveva stare…

Per il suicidio del detenuto Valerio Guerrieri, suicidatosi nel carcere di Regina Coeli il 24 febbraio del 2017 all’età di 21 anni, si dovrà perseguire penalmente anche la direttrice del carcere in quel periodo, Silvana Sergi, e una dirigente del Dap. L’ha deciso il gip Claudio Carini che ha respinto per la seconda volta la richiesta di archiviazione del pm Attilio Pisani. Ora si valutano le accuse di omissione di atti d’ufficio e reato di morte come conseguenza di un altro delitto, oltre all’indebita limitazione di libertà personale. Valerio Guerrieri non doveva essere in carcere, c’era scritto a chiare lettere perfino nella sentenza con cui era stato condannato a quattro mesi di reclusione in cui il giudice indicava chiaramente di trasferirlo in una Rems, la residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza che accoglie chi ha gravi disturbi mentali. Insieme alla direttrice del carcere e alla dirigente del Dap, il procedimento va avanti anche per sette agenti della penitenziaria di Regina Coeli e un medico, tutti già imputati. Il medico è accusato di omicidio colposo per non aver controllato in cella il ragazzo sottoposto «alla misura della grande sorveglianza».

La vicenda di Valerio Guerrieri, ennesimo morto per malagiustizia, inizia alle dieci di sera di venerdì 2 settembre del 2016. Valerio è fermo con la sua moto ai bordi del Grande raccordo anulare di Roma, una pattuglia della Polizia lo nota e accosta ma il ragazzo non risponde e riparte immediatamente: un inseguimento che dura 30 chilometri e che coinvolge cinque volanti della Polizia e che si conclude con la caduta del motociclista. Trasportato d’urgenza all’ospedale Sant’Andrea viene arrestato per «resistenza, lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato». Il ragazzo dice di non ricordare nulla e di non avere la patente. Viene condannato agli arresti domiciliari.
Non è una vita facile quella di Valerio: già a cinque anni i genitori decidono di chiedere aiuto al centro di tutela salute mentale e riabilitazione in età evolutiva di Ostia perché le maestre dell’asilo osservano strani comportamenti.

Nel 2009 era stato ricoverato al reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico di Roma dove gli viene diagnosticata «una personalità borderline con lievi tratti psicomaniacali». A quattordici anni comincia a prendere psicofarmaci, viene mandato alla comunità terapeutica Casetta Rossa di Roma e segue un percorso terapeutico che dovrebbe aiutarlo. Poi nel 2010 viene trasferito alla comunità Lilium, in provincia di Chieti, nel 2011 è a Villa Letizia, un centro romano che si occupa di problemi psichiatrici. La sua è una vita passata tra farmaci e le evidenti difficoltà famigliari. Il 1 maggio del 2012 lo arrestano mentre cerca di rubare una Vespa e viene portato al carcere minorile di Casal Del Marmo e poi ai domiciliari a Villa Letizia. Secondo il racconto della madre sarebbe proprio lì che il figlio conosce uno dei capi della banda della Magliana che gli insegna a rapinare i supermercati. La sua vita continua tra ricoveri, arresti e Tso affidato ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), fughe e nuovi arresti.

Nel 2015 gli tocca l’ospedale psichiatrico giudiziario, il manicomio criminale, a Secondigliano. Esce il 1° dicembre del 2015 perché tutti gli Opg in Italia devono chiudere per legge. Finisce in una comunità aperta a Rocca Canterano, nei pressi di Subiaco, ma scappa di nuovo. In quel periodo prende 9 psicofarmaci al giorno. Valerio interrompe le cure, di nuovo, e di nuovo è Tso. È una storia piena di dolore. In un’intervista rilasciata a Internazionale l’anno scorso la madre raccontava che Valerio «passava le giornate ciondolando per casa, pareva uno zombie». Arriviamo alle battute finali di questa storia: dopo l’arresto del settembre 2016, nonostante le disposizioni del giudice, Valerio viene spedito a Regina Coeli, 946 carcerati in quel periodo, il doppio di quelli per cui c’è spazio.

Il 16 febbraio scrive una lettera al fratello: «Ciao frate’ ti scrivo adesso 9.40 del mattino ti scrivo soltanto per dirti che mi dispiace x tutto io qui sto impazzendo non ce la faccio più ma vabbè me la so cercata (…) veramente ora son stanco di mangiare di fare qualunque cosa di scappare basta se io me ne vado x sempre penso che voi non sentirete la mia mancanza voglio andarmene per sempre quindi ora ti lascio con la penna ma non con il cuore ciao fratellone mio ci rincontreremo stai ar ciocco addio!?!?». Otto giorni dopo si uccide impiccandosi in bagno.

I compagni di cella raccontano che aveva preparato il cappio nel giorno precedente. Nella richiesta di rinvio a giudizio a carico di due medici e sette agenti di polizia penitenziaria il pm Pisani chiede la condanna per omicidio colposo per non aver sorvegliato e controllato il ragazzo come bisognava fare, e cioè ogni 15 minuti e con visite psichiatriche quotidiane. Contemporaneamente, Pisani ha provato ad archiviare le indagini sulla direzione del carcere e del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap): secondo il magistrato avrebbero agito con negligenza ma non con dolo ma ora arriva la decisione del gip. Una cosa è certa: il suicidio di Valerio Guerrieri è l’ennesima storia di uno Stato che usa il carcere come discarica sociale, un luogo dove rinchiudere qualsiasi forma di devianza, dai poveri ai tossicodipendenti fino ai malati psichiatrici. E così le carceri scoppiano e si moltiplicano i casi di suicidi di persone che avevano bisogno di cure, prima che di detenzione, e invece sono state lasciate sole. Come racconta la storia di Valerio.

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Scandalo molestie, respinta archiviazione per Tavecchio: “Una piccola vittoria”


Niente archiviazione per Carlo Tavecchio a seguito della denuncia dell’ex presidente della Lazio femminile per molestie sessuali. Il GIP di Roma oggi ha ordinato “l’effettuazione delle indagini indicate nell’opposizione di archiviazione”. «È una piccola vittoria – dice Elisabetta Cortani – ma soprattutto è uno spiraglio per un processo che stabilisca le reali responsabilità».
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Vi ricordate l’icona antimafia?

Don Luigi Merola, prete sotto scorta che improvvisamente sembrò un calunniatore intento a coprire un rapporto poco limpido con una donna? Beh, è stato archiviato. Lo potete ascoltare qui sotto. Parole da appuntare.