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Dal bacio di Biancaneve a «è una vergogna signora mia…»

Era inevitabile ed è accaduto: a furia di moltiplicare iperboli per leccare anche l’ultimo clic indignato sul fondo della scatola perfino Enrico Mentana decide di dire la sua sulla “cancel culture” con due righe veloci, di passaggio, sui social paragonandola niente popò di meno che ai roghi dei libri del nazismo, con annessa foto di in bianco e nero di un rogo dell’epoca perché si sa, l’immagine aumenta a dismisura la potenza algoritmi del post.

Una polemica partita da un giornalino di San Francisco

La settimana delle “irreali realtà su cui pugnacemente dibattere” questa settimana in Italia parte dal bacio di Biancaneve cavalcato (in questo caso sì, con violenza amorale) da certa destra spasmodicamente in cerca di distrazioni e si conclude con gli editoriali intrisi di «è una vergogna, signora mia» di qualche bolso commentatore pagato per rimpiangere sempre il tempo passato. Fa niente che non ci sia mai stata nessuna polemica su quel bacio più o meno consenziente al di là di una riga di un paio di giornaliste su un quotidiano locale di San Francisco: certa intellighenzia Italiana si spreme da giorni sull’opinione di un articolo di un giornalino oltreoceano convinta di avere diagnosticato il male del secolo, con la stesa goffa sproporzione che ci sarebbe se domani un leader di partito dedicasse una conferenza stampa all’opinione di un avventore del vostro bar sotto casa. Un ballo intorno alle ceneri del senso di realtà per cui si son agghindati tutti a festa, soddisfatti di fare la morale a presunti moralisti di una morale distillata dall’eco dopata di una notizia locale.

Se la battaglia “progressista” si ispira a Trump

Chissà se i democraticissimi e presunti progressisti che si sono autoconvocati al fronte di questa battaglia sono consapevoli di avere come angelo ispiratore l’odiatissimo Donald Trump, il migliore in tempi recenti a utilizzare la strategia retorica del politicamente corretto per spostare il baricentro del dibattito dai problemi reali (disuguaglianze, diritti, povertà, discriminazioni) a un presunto problema utilissimo per polarizzare e distrarre. Nel 2015 Donald Trump, intervistato dalla giornalista di Fox Megyn Kelly su suoi insulti misogini via Twitter («You’ve called women you don’t like fat pigs, dogs, slobs and disgusting animals…») rispose secco: «I think the big problem this country has is being politically correct». Che un’arma di distrazione di massa venisse poi adottata dalle destre in Europa era facilmente immaginabile ma che si attaccassero a ruota anche disattenti commentatori e intellettuali (?) convinti di purificare il mondo era un malaugurio che nessuno avrebbe potuto prevedere. Così la convergenza di interessi diversi ha imbastito un fantasma che oggi dobbiamo sorbirci e forse vale la pena darsi la briga di provarne a smontarne pezzo per pezzo.

La banalizzazione delle lotte altrui è un modo per disinnescarle

C’è la politica, abbiamo detto, che utilizza la cancel culture per accusare gli avversari politici di essere ipocriti moralisti concentrati su inutili priorità: se io riesco a intossicare la richiesta di diritti di alcune minoranze con la loro presunta e feroce volontà di instaurare una presunta egemonia culturale posso facilmente trasformare gli afflitti in persecutori, la loro legittima difesa in un tentativo di sopraffazione e mettere sullo stesso piano il fastidio per un messaggio pubblicitario razzista con le pallottole che ammazzano i neri. La banalizzazione e la derisione delle lotte altrui è tutt’oggi il modo migliore per disinnescarle e il bacio di Biancaneve diventa la roncola con cui minimizzare le (giuste) lotte del femminismo come i cioccolatini sono stati utili per irridere i neri che si sono permessi di “esagerare” con il razzismo. Il politicamente corretto è l’arma con cui la destra (segnatevelo, perché sono le destre della Storia e del mondo) irride la rivendicazione di diritti.

Correttori del politicamente corretto a caccia di clic

Poi c’è una certa fetta di artisti e di intellettuali, quelli che hanno sguazzato per una vita nella confortevole bolla dei salottini frequentati solo dai loro “pari”, abituati a un applauso di fondo permanente e a confrontarsi con l’approvazione dei propri simili: hanno lavorato per anni a proiettare un’immagine di se stessi confezionata in atmosfera modificata e ora si ritrovano in un tempo che consente a chiunque di criticarli, confutarli e esprimere la propria disapprovazione. Questi trovano terribilmente volgare dover avere a che fare con il dissenso e rimpiangono i bei tempi andati, quando il loro editore o il loro direttore di rete erano gli unici a cui dover rendere conto. Benvenuti in questo tempo, lorsignori. Poi ci sono i giornalisti, quelli che passano tutto il giorno a leggere certi giornali americani traducendoli male con Google e il cui mestiere è riprendere qualche articolo di spalla per rivenderlo come il nuovo ultimo scandalo planetario: i politicamente correttori del politicamente corretto è un filone che garantisce interazioni e clic come tutti gli argomenti che scatenano tifo e ogni presunta polemica locale diventa una pepita per la pubblicità quotidiana. A questo aggiungeteci che c’è anche la possibilità di dare fiato a qualche trombone in naftalina e capirete che l’occasione è ghiottissima. Infine ci sono gli stolti fieri, quelli che da anni rivendicano il diritto di essere cretini e temono un mondo in cui scrivere una sciocchezza venga additato come sciocchezza. Questi sono banalissimi e sono sempre esistiti: poveri di argomenti e di pensiero utilizzano la provocazione come unico sistema per farsi notare e come bussola vanno semplicemente “contro”. Chiamano la stupidità “libertà” e pretendono addirittura di essere alfieri di un pensiero nuovo. Invece è così banale il disturbatore seriale. Tanti piccoli opportunismi che hanno trovato nobiltà nel finto dibattito della finta cancel culture.

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Draghi, Lega, ddl Zan: il male non è fare politica al Primo Maggio ma i partiti che controllano la Rai

Le domande giuste e le domande sbagliate, a prima vista, sembrano sempre più o meno la stessa cosa. La differenza è che le domande sbagliate di solito vengono poste per non ottenere risposte, ma per aumentare la polvere e la schiuma e inevitabilmente per ottenere più coinvolgimento. Più dibattito confuso, più viralità, più clic, più introiti pubblicitari e più popolarità.

Le domande sbagliate sono quelle che oggi si attorciglieranno su Fedez, come in una guerra tra galli in cui si chiede di parteggiare per il cantante o per Salvini, con Fedez o con la Rai, e infatti già scivolano le battute sulla Lamborghini, sui soldi, perfino sulla pubblicità visibile del marchio del suo cappellino.


Le domande giuste, invece, sarebbero da porre alla politica tutta, a destra e a sinistra, su un sistema che ottunde, ammortizza, diluisce tutto quello che deve passare in televisione, sulla televisione pubblica italiana, non tanto per censura ma più per una sorta di autocensura che tiene in piedi il carrozzone dell’informazione italiana in cui il primo obiettivo è quello di non incrinare relazioni che valgono molto più delle competenze per la propria carriera in Rai.

Qualcuno fa notare che non c’è stata censura poiché Fedez ha potuto comunque parlare [qui il testo integrale del suo discorso] ma si dimentica di osservare la cappa che sta sulla testa di quelli che, senza i mezzi e senza la potenza di fuoco, invece, non arrivano nemmeno allo scontro e si allineano.

Uscendo dalla diatriba tra Fedez e gli altri, allora, rimangono due punti fondamentali. Primo: che la televisione pubblica e la politica si siano adagiati su questa abitudine vigliacca di credere che i diritti vadano celebrati senza essere esercitati è la fotografia perfetta di un Paese senza coraggio.


Il Primo Maggio è la festa dei diritti ed è doveroso, ognuno secondo le proprie idee, esercitare e reclamare diritti. Altrimenti chiamatelo concerto e non ammantatelo di altri significati.

Secondo: che la politica ogni volta, ciclicamente, faccia finti di stupirsi di quel mostro che è la Rai, che la politica stessa ha creato, è un’ipocrisia intollerabile. Quello che accade a Fedez accade ai conduttori, ai giornalisti, ai collaboratori (ancora di più).

Un’azienda che ha dirigenti il cui merito è sempre quello di essere “diligenti” più che capaci è ovvio che vada a finire così e la responsabilità è tutta politica, è tutta della politica. Questa scena dei piromani che si disperano per l’incendio ce la potreste anche risparmiare, almeno per il gusto della verità e della dignità.

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Libreria Ubik IBLA recensisce Nuovissimo Testamento

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l nuovo libro di Giulio Cavalli ci riporta a DF, il paese protagonista di “Carnaio”, il suo romanzo precedente che abbiamo avuto il piacere di presentare in libreria. Ora DF è diventato uno Stato, una nazione dove il virus più temuto sono le emozioni, dove un governo dispotico e autoritario userà tutti i metodi possibili per sopprimerle e non avere un popolo empatico difficilmente governabile.

Tutto inizia con un gesto, un cerchio sulla sabbia che Fausto Albini disegna senza accorgersene, forse un ricordo, una sensazione dentro di sé che non riesce a controllare, proprio lui a cui da bambino avevano insegnato a essere vuoto, a non sedersi ad ascoltare sé stesso né tanto meno gli altri, proprio lui che aveva cresciuto in un mondo dove i colori, la musica, i libri, l’arte, i sentimenti, tutto quanto era stato cancellato. Finisce così in ospedale, nel reparto dedicato a quelli che soffrono di disturbi della rotondità sentimentale, la stessa rotondità sentimentale su cui è fondata tutta la serenità del paese.

Fausto Albini allora scopre di non essere l’unica persona affetta da questi disturbi, e che non sono tutti rinchiusi a ricevere cure esperimentali utili a farli ritornare vuoti e ubbidienti come prima; ma che alcuni vivono le loro emozioni di nascosto. Capisce così di non volere più essere manipolato, e prova a far risvegliare l’empatia e l’amore in tutti i cittadini di DF. I suoi simili saranno però pronti e contenti di voler abbandonare questo annebbiamento emotivo?.

Giulio Cavalli ritorna a raccontarci nel suo nuovo libro la nostra contemporaneità portata all’estremo, perché DF mette insieme pezzi di mondi che ci sono già stati e che potrebbero tornare. Una critica verso una classe politica che cerca l’ottundimento delle persone, una riflessione sulla paura verso tutto quello che ci fa pensare e riflettere come la bellezza dell’arte e la cultura, un’analisi sulla distanza che intercorre tra il voler cambiare e il non avere sufficiente coraggio per farlo davvero: “[…] ed è facile, disse Fausto Albini, educare la gente al brutto, basta lasciarla cadere e poi farla strisciare e rassicurarla che è normale, educare alla bellezza significa aprire il cuore e farci entrare tutto dentro, come la bocca di una balena in fondo all’oceano, entra il bello certo, e ci entrano certi pezzi di vetro ed entra l’aria ispida ed entra tutto e non ci possono essere filtri nelle branchie di un popolo che ha disimparato a respirare”.

In un periodo in cui i nostri sentimenti sono stati e sono ancora limitati,  vi consigliamo di leggere questo libro e di praticare un po’ di fisioterapia sentimentale con la letteratura, come ci ha ricordato di fare l’autore negli ultimi giorni.

Buona lettura!

Libraia Susan

La libreria Colapesce su Disperanza

Giulio Cavalli (1977) è un attore, drammaturgo, scrittore e politico italiano milanese. Schieratosi apertamente contro le mafie, attraverso i suoi spettacoli, dal 2009 dopo numerose minacce e infine la confessione di un pentito vive sotto scorta. Disperanza è un romanzo crudele, figlio dei nostri tempi, che come una poraloid restituisce l’istantanea nitida di uno stato d’animo collettivo. Cos’è la Disperanza? Etimologicamente indica lo stato di chi è privo di speranza ma non ancora disperato. È una parola che ha in sé la sottrazione, la perdita e l’affievolimento graduale, la rinuncia. La disperanza può avvenire in seguito ad una malattia, alla perdita di una persona cara alla perdita di un amore o in seguito ad una delusione politica ma il motivo principale per cui la disperanza si materializza è il lavoro o la mancanza di esso. La nostra società ha creato un modello sovraccarico dove il lavoro prevarica la vita con una precarietà sempre più insidiosa. L’impossibilità di guadagnare abbastanza porta all’ accumulo di più mestieri, dunque allo sfiancamento e conseguentemente alla perdita di ogni entusiasmo, spesso alla depressione. Da quando la Pandemia ha travolto le nostre esistenze tutti questi aspetti si sono rafforzati aumentando il senso di incertezza, la transitorietà e l’impossibilità di progettare il futuro.L’autore raccoglie, tramite twitter, le storie di moltissimi utenti che raccontano il processo che li ha condotti alla disperanza: spesso la tranquillità si collega alla stabilità o alla temporaneità lavorativa.

Da leggere perché Disperanza non ci lascia mai oltrepassare il punto di non ritorno verso la disperazione ma è un invito a credere in se stessi, nelle piccole cose e nell’imprevedibile: di recuperare appunto la speranza.

(fonte)

Strage in mare: 130 naufragi in difficoltà da giorni, ma con le Ong lontane gli Stati hanno fatto finta di niente…

Il fatto è che ormai questi morti non pesano più, sono battute, qualche centinaio di battute che finiscono sulle pagine dei giornali, quando va bene in una notizia che è poco di più una semplice “breve”, oppure farciscono un lancio di agenzia. Perfino quelli che (giustamente) ogni giorno provano a sottolineare i quintali di carne morta per Covid non riescono ad avere la stessa attenzione per i morti nel Canale di Sicilia. Lì abbiamo deciso che “devono” morire, che “possono” morire, come se davvero nel 2021 potesse esistere una parte di mondo che preveda ineluttabile l’annegamento, va così, ci si dà di gomito, ci si intristisce di quel lutto passeggero che si dedica alle notizie di cronaca nera e quelli non esistono più, non erano nemmeno vivi prima di essere morti, quelli che attraversano il Mediterraneo esistono perfino di più quando sono cadaveri che galleggiano nel mare.

130 migranti morti, 3 barconi messi in mare dai trafficanti libici e tre navi commerciali (lì dove ci dovrebbero essere le autorità coordinate dall’Europa) a deviare dalle loro rotte per provare ad evitare il disastro che non è stato evitabile. “Gli Stati si sono opposti e si sono rifiutati di agire per salvare la vita di oltre 100 persone. Hanno supplicato e inviato richieste di soccorso per due giorni prima di annegare nel cimitero del Mediterraneo. È questa l’eredità dell’Europa?”, dice la portavoce dell’iim, l’organizzazione dell’Onu per i migranti, Safa Mshli ma anche le parole dell’Onu ormai pesano niente, sono una litania che si ripete regolarmente e che non scalfisce quest’Europa che riesce a passarla sempre liscia. Anche dal punto di vista giudiziario sorge qualche dubbio, pensateci bene: le Procure che rinviano a giudizio Salvini non si accorgono (o non si vogliono accorgere?) Delle responsabilità dell’Europa?

Perché questi non rimangono nemmeno sequestrati, questi muoiono, annegano, galleggiano sul mare e vengono recuperati senza nemmeno uno straccio di qualche fotografia di cronaca. Sopra a quei tre gommoni di gente viva che poi è morta sono perfino transitati perfino velivoli di Frontex eppure non è scappato nemmeno un messaggio di allerta alla cosiddetta Guardia costiera libica che ha pensato bene di non inviare nemmeno una delle motovedette (che le abbiamo regalato noi). Troppa fatica. Quando i morti cominciano a non valere più niente allora ci si può permettere di lasciare morire e forse un giorno ci interrogheremo sulla differenza tra lasciare morire e uccidere, forse un giorno decideremo, avremo il coraggio di riconoscere, che questa strage ha dei precisi mandanti e dei precisi esecutori.

“Quando sarà abbastanza? Povere persone. Quante speranze, quante paure. Destinate a schiantarsi contro tanta indifferenza”, dice Carlotta Sami, portavoce dell’alto commissariato per i rifugiati e il dubbio è che ormai non sarà più abbastanza perché quando si diventa impermeabili ai morti allora quelli aumenteranno, continueranno a morire ancora di più, continueranno a cadere e intorno non se ne accorgerà nessuno. Centotrenta persone annegate. Le autorità dell’Ue e Frontex sapevano della situazione di emergenza, ma hanno negato il soccorso. La Ocean Viking è arrivata sul posto solo per trovare dieci cadaveri: è un’epigrafe che fa spavento ma che non smuove niente.

Sono passate due settimane da quando il presidente del Consiglio Mario Draghi ha ringraziato la guardia costiera per i “salvataggi” e quando qualcuno si è permesso di ricordare che in Libia e in quel tratto di mare mancano completamente tutti i diritti fondamentali i sostenitori del governo si sono perfino risentiti. E la storia di questo annegamento, badate bene, non è nemmeno un incidente: comincia mercoledì alle ore 14.11 con il primo allarme e si è conclusa il giorno successivo alle 17.08 con una mail di Ocean Viking che comunicava di avere trovato “i resti di un naufragio e diversi corsi, senza alcun segno di sopravvissuti”. Nessuna motovedetta libica all’orizzonte. Lì sono annegati loro ma in fondo continuiamo ad annegare anche noi e la cosa mostruosa è che ci siamo abituati.

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Una metafora calcistica

Immaginate un mondo dove inevitabilmente ci si sfida. Ci si sfida perché è parte del gioco, in fondo si gioca soprattutto e vincere o perdere dipende dalla forma, da ciò che si ha a disposizione, dalla fortuna e inevitabilmente dal talento ma soprattutto dai soldi. Però ci sono regole chiare e le regole stabiliscono che chi ha bravura ma anche chi ha fantasia possa raggiungere traguardi che non erano preventivati, nemmeno immaginati e alla fine accade che anche gli sfavoriti vincano. A volte vincono una partita, a volte vincono addirittura il campionato.

Quelli invece che dovrebbero vincere per censo si arrabbiano tantissimo, strillano, se la prendono con i giudici e parlano di ingiustizia. Loro, quelli che di solito sono proprio i detentori delle redini della giustizia sociale. Però in fondo ci si affeziona mica solo per le vittorie e così si rimane fedeli alla propria idea, ci si mette dentro a una roba semplice perfino un po’ di valori. E in fondo tutte le volte che si sente un po’ di profumo di poesia è proprio quando Davide batte Golia.

Immaginate poi che in un mondo così, improvvisamente i ricchi vogliano diventare ancora più ricchi, non ci stiano a dividere con quegli altri nemmeno gli spiccioli e allora provano a pensare a un nuovo mondo in cui si entri per il merito di essere ricchi e di essere buoni amici nei circoli dei ricchi che contano, ciò che conta è essere nella cerchia giusta, nel giro giusto. Immaginate anche che la propria credibilità non venga valutata dal proprio spessore ma dalla propria popolarità. La popolarità come fine, addirittura prima della vittoria. E quella popolarità non è qualcosa che ha a che fare con il cuore, ovviamente, ma viene misurata con i soldi. Il nuovo mondo di quelli che non vogliono spartire niente con gli altri tra l’altro è un mondo magico in cui l’autopreservazione è garantita per censo, mica per risultati.

Di solito quando i ricchi vogliono stringere i cordoni della borsa per ingrassare il proprio circolino la chiamano “inevitabile modernità”, dicono che è il progresso e si inventano che il mondo è cambiato, che non ci sono più i palloni cuciti a mano o che non ci sono più i telefoni a gettoni. Quindi se l’idea non ti piace è colpa tua che sei incapace di stare al passo con i tempi o perfino invidioso.

Sei squadre di calcio inglesi (Manchester United, Manchester City, Arsenal, Chelsea, Liverpool, Tottenham), tre spagnole (Real Madrid, Barcellona, Atletico Madrid) e tre italiane (Juventus, Inter e Milan) hanno annunciato l’intenzione di farsi il loro campionato. Tutti ne discutono.

Eppure è una metafora così potente che andrebbe letta con attenzione, mica solo per il calcio. Alcuni lo chiamavano capitalismo ma poi il pensiero comune ha detto che è una parola così stantia, capitalismo.

Buon martedì.

 

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Lillatrailibri recensisce Nuovissimo testamento

(fonte)

Si chiama empatia la capacità di sentire le emozioni degli altri, come se fossero proprie; la capacità  di vedere nell’altro se stessi, superando i limiti del narcisismo infantile e dell’individualismo egoista che ci allontana dai nostri simili. Donne e uomini empatici possono essere una minaccia per chi governa attento a conservare il potere con strumenti camuffati dai  colori della democrazia, ma di fatto dispotici e illiberali.

 È quanto accade nel paese di DF dove ai cittadini, appena nati, viene inoculato un vaccino che cancella la capacità di provare emozioni e sentimenti, sia  positivi che negativi. Donne e uomini  sono così condannati a diventare adulti incapaci di provare sentimenti, affetti,  ambizioni professionali;  senza  mai conoscere la bellezza  dell’arte, nelle sue molteplici espressioni, dalla pittura alla letteratura alla musica. Donne e uomini nel paese di DF sono automi incapaci di provare desiderio e volontà; sono monadi che vivono  immersi in un mondo grigio, colore declinato nelle diverse sfumature, costruito per soddisfare tutti i bisogni individuati attraverso algoritmi pensati per tutti gli aspetti dell’esistenza: dalla famiglia (matrimoni di durata quinquennale con partner imposti allo scopo di procreare altri automi sottratti alla nascita) al lavoro (assegnato sulla base di capacità manifestati fin dall’infanzia), allo sport (tristemente vissuto in palestre casalinghe organizzate dal potere).

“… La cucina dei classe cinque aveva i comuni elettrodomestici, frigorifero, forno, piano cottura cappa e anche un forno a microonde e una piastra per panini, tutti in formica grigia quattrocentoventidue tranne i profili che erano neri settecentoventisette, una stanza per l’esercizio fisico con una cyclette e un  tapis roulant e attrezzi e pesi verdi trecentosedici, la stanza per l’esercizio fisico era considerata una priorità dal governo di DF, l’esercizio fisico era fondamentale per garantire una perfetta rotondità affettiva che non cedesse alle sbavature di emozioni viatico di pazzia”.

È questo il mondo immaginato da Giulio Cavalli nel suo ultimo romanzo  (meritatamente segnalato  per concorrere al Premio Strega, ma, purtroppo, escluso dalla dozzina dei finalisti) che si legge d’un fiato, grazie anche ad una scrittura scorrevolissima, fondata su una sintassi che, spesso libera dalla punteggiatura, ci porta ad immergerci nella vita dei personaggi e a sentirne (empaticamente) il dolore e la delusione, la sofferenza e la scoperta, fino a svelarsi come metafora minacciosa del rapporto che lega governanti e governati, capaci di consegnare la loro libertà, volontariamente, per pigrizia o per vigliaccheria, al potere.

Un mondo indubbiamente distopico la cui costruzione richiama a “Fahrenheit 451” di Bradbury e “1984” di Orwell, ma che ci spinge a guardarci intorno, a riconsiderare il mondo in cui viviamo per non finire, al pari dei cittadini di DF, col consegnare la nostra libertà in nome di una sicurezza che, di fatto, si chiamerebbe schiavitù.

Salvini contro i vaccini ai detenuti in Campania e Lazio, ma dimentica che va così anche nelle Regioni leghiste

Ogni giorno Matteo Salvini si sveglia e, dopo essersi fatto una bella foto moscia con Nutella o cibarie varie da spiattellare sui social, decide di sputare contro qualcuno. Capitan Vigliacco ha una predilezione per i deboli, per gli invisibili, per quelli che viene facile mettere nel sacchetto dell’umido delle priorità: lui è fatto così, debole con i forti ma fortissimo con i debolissimi, come nella migliore tradizione di quelli che simulano il pugno di ferro ma poi sono pronti a stringere mani piuttosto losche, se torna utile per il loro tornaconto personale.

Nel mattino di oggi, lunedì 12 aprile 2021, Salvini ha deciso di usare i detenuti come roncola per attaccare Nicola Zingaretti e Vincenzo De Luca (e quindi di sponda il Pd, con cui tra l’altro sta governando) e si è tuffato con la bava alla bocca a twittare: “Lazio e Campania vogliono vaccinare i detenuti prima di anziani e persone disabili. Roba da matti”.

Non perdete troppo tempo a cercare un qualsiasi spessore politico in questa critica, che sembra una frase sputazzata di spritz al bar. “Roba da matti”, “buon senso” o “padre di famiglia” sono i concetti elementari su cui Salvini si basa per esprimere qualsiasi concetto, la banalità è il suo marchio di fabbrica e ogni sua osservazione non punta a niente di più nobile degli sfinteri.

Però, nelle poche miserabili parole di quel tweet, c’è tutto il salvinismo nel suo splendore.

Il ritenere “gli altri” (come sono i carcerati oppure i neri oppure i gay oppure qualsiasi altro tipo che non rientri nel prototipo dell’omaccione italico medio) una categoria che non si deve mai permettere di avere nessuna esigenza, nessuna.

Lo scambiare l’autorevolezza per il tintinnare di manette che Salvini continua a fare annusare ai suoi sostenitori, nonostante diventi poi una pecora se a compiere i reati è qualche colletto bianco.

Il ritenere le carceri il percolato della società in cui rinchiudere tutti i problemi illudendosi (e illudendo) di risolverli.

In più, il prode Salvini, riesce anche a rimediare una delle sue proverbiali figure di palta che costellano la sua misera traiettoria politica, poiché in Lombardia e Veneto (Regioni che stanno al guinzaglio del leader leghista) le vaccinazioni in carcere sono già iniziate da un bel po’, con la differenza che in Lombardia intanto si dimenticano gli anziani.

E, a proposito di condannati (che lui chiamerebbe “criminali”), sarebbe da chiedere a Salvini allora cosa ne pensi del suo quasi suocero Denis Verdini, che proprio per un focolaio di Covid a Rebibbia a gennaio (90 contagi in pochi giorni tra i detenuti) è stato (giustamente) scarcerato. Ma non dirà niente, vedrete, niente.

Leggi anche: Diceva “prima gli italiani” ma ha preferito “prima la famiglia”: sindaco arrestato per migliaia di mascherine sottratte alle Rsa (di Giulio Cavalli)

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Silenzio, sto leggendo recensisce Nuovissimo Testamento

(fonte)


“Nuovissimo Testamento” di Giulio Cavalli (Fandango): un romanzo dalla trama semplicemente geniale che apre a tantissimi spiragli di riflessioni, il più delle volte dal sapore agrodolce.
TRAMA – Un giorno qualsiasi Fausto Albini è sulla spiaggia, con un bastone disegna un cerchio, forse ha un ricordo e si sente male. Portato d’urgenza al Pronto Soccorso, viene ricoverato nel reparto dei Disturbi affettivi, quello per i cittadini di DF con problemi di rotondità sentimentale. Insieme a lui, Manlio Cuzzocrea che ha pianto per giorni senza un motivo, Andrea Razzone scoperto a leggere e Angelo Siani che sogna ossessivamente la madre che non ha mai conosciuto. Evidentemente, il sistema di DF – che prevede bambini tolti ai genitori, mogli a rotazione, nessuna aspirazione e nessuna libertà di scelta – non funziona più come un tempo. Di fronte all’aumento dei focolai di empatia incontrollata, il governo del presidente Bussoli nel chiuso della sua impenetrabile cittadella fortificata si dice preoccupato: è impossibile governare un popolo che prova paura e desideri, i casi di disturbi affettivi in aumento rappresentano un pericolo. Intanto a confermare a Fausto Albini l’esistenza delle emozioni sarà l’incontro con la dottoressa Anna Cordio che ha in carico il suo caso e per la quale sentirà un sentimento indicibile e proibito: l’amore. Quando Fausto e i suoi compagni si renderanno conto che dietro la mancanza di empatia potrebbe esserci un disegno politico, dall’ospedale partirà il primo nucleo della resistenza, il cui scopo è solo uno: liberare le emozioni, riportare nel mondo l’empatia, dare voce a un “nuovissimo testamento”, anche a costo di rimetterci la vita.

DF è una nazione calmierata da un vaccino infantile che permette “di eliminare l’empatia come elemento disturbante della democrazia”. Già perché “nel governo di DF avevano studiato a lungo il fatto che la mancanza di empatia fosse la garanzia più solida e importante per il mantenimento del potere e del governo”.
A DF sono stati eliminati tutti gli stimoli. Si usa il grigio, dopo aver abolito tutte le gradazioni di colore, ma sono stati vietati anche l’arte, i libri, i film, la danza, la musica; non esiste il gusto, i cibi vengono solo “ingoiati” seguendo una rotazione prestabilita, l’alcol viene somministrato in “comode compresse”; non c’è traccia di amicizia o di socialità, con mogli e mariti si procede “per turnazione” solo per riprodursi (i neonati poi venivano assegnati a un istituto genitoriale e inseriti in un rigido programma del governo; mentre gli anziani in strutture per il riposo dopo aver svolto il loro ciclo produttivo).
“Niente famiglia, ovviamente, la famiglia era nemica del governo di DF, la famiglia era il covo delle sensazioni e delle esperienze incontrollate. Non esistevano figli di, non esistevano padri di, non esistevano madri di, non esisteva nulla”.
È questo il Paese che ha immaginato Giulio Cavalli nel suo “Nuovissimo Testamento“. Un luogo descritto nei minimi dettagli, senza lasciare nulla al caso, e che spiazza continuamente il lettore per la sua logica irrazionalità.
Perché è assurdo come le considerazioni del presidente di DF possano sembrare ragionevoli e magari anche condivisibili, per poi rendersi conto che no, aspetta un momento, non è proprio questa la democrazia. Un concetto che ritorna, distorto eppure così familiare, anche nel finale.
DF funziona come un meccanismo perfettamente oliato, ma qualche stimolo riesce a scappare al controllo. “Maledetti tramonti diceva spesso il presidente Andrea Bussoli”.
È in una stanza del reparto dei Disturbi affettivi che si incontrano i protagonisti della storia e sarà un libro, introdotto illegamente, a far capire ad Andrea, Manlio e Fausto che c’è tanto altro oltre quello che vivono quotidianamente, che quell’empatia che “a DF era un delitto, in realtà sembrava il sale di una vita che fosse degna di essere vissuta, niente di immorale come invece gli avevano inculcato”.
Ovviamente all’inizio sarà una consapevolezza devastante, (“ogni parola immaginava una vita che smontava tutta quella che aveva vissuto fin lì, ingoiare un tubetto di colla che ti ferma tutti gli organi interni, uno squarcio di immaginazione che era troppa, era dolore”), così come sarà disastroso il loro primo tentativo di “fare aprire gli occhi” alle persone con l’aiuto di Bernadetta e dell’uomo “con la giacca di velluto”.
Ma questo gruppo di ribelli non si fermerà. Il finale, devo ammettervi, mi ha spiazzato. Non so cosa mi aspettassi, sicuramente non un banale “e vissero tutti felici e contenti”, ma speravo di non dover chiudere il romanzo con l’amaro in bocca come invece è successo. Non vi dico più nulla per evitare di anticiparvi troppo della trama.
Entrando nella struttura della narrazione, so che molti non riescono a trovarsi bene con uno stile come quello di Cavalli, in cui non c’è interruzione tra pensiero e dialogo, le pagine sono un continuo fiume di parole, fitte e serrate, ma credo che l’originalità e lo spessore di “Nuovissimo Testamento” debbano far crollare questa resistenza.
Magari all’inizio si avrà un po’ di difficoltà a entrare nel ritmo, ma una volta ingranato si avrà voglia di sapere cosa succederà ai protagonisti della storia e di continuare a ragionare insieme all’autore su concetti così importanti.
Giulio Cavalli ci parla di “vaccini” e di “empatia” probabilmente nel momento storico perfetto, in un periodo in cui abbiamo abusato di questi termini senza interrogarci più di tanto. La sua è una visione estrema che spaventa, ma che allo stesso tempo mette tutto nella giusta prospettiva. Senza edulcorare nulla, senza tratteggiare supereroi, solo esseri umani, nelle loro imperfezioni e nelle loro sfaccettature.
https://www.silenziostoleggendo.com/2021/04/09/recensione-nuovissimo-testamento-di-giulio-cavalli/