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L’impolitica

La sola idea che basti il nome di Mario Draghi perché l’Italia torni a volare è il sintomo più lampante della decadenza di una classe politica che si è fatta implodere e di una classe culturale eternamente appesa al prossimo salvatore

C’è un’aria frizzante questa mattina tra politici e commentatori, quasi tutti felici per avere demolito l’esistente e tutti subito attaccati alle braghe del commissario, tutti con quella felicità della classe che ha appena scoperto che oggi ci sarà il supplente e quindi sicuramente non interroga, non controlla i compiti fatti a casa e forse se va bene non si fa nemmeno lezione.

La giornata di ieri del resto è stata una convulsa regressione verso il gnegneismo che si possa ricordare. Tutti in fila a dare il peggio di sé dentro una trattativa politica che è stata uno spettacolo indecente: i Cinquestelle con Vito Crimi (il pro tempore più duraturo nella storia delle reggenze politiche) issato a difendere perfino l’indifendibile, il Partito Democratico come spesso accade trascinato dalla corrente, Renzi e la sua ciurma a fare finta di trattare come a una recita di fine anno mentre alzava la posta in gioco ogni minuto che passava e divertendosi come un matto. Uno spettacolo indecoroso mentre là fuori morivano le solite 500 persone a cui ci siamo abituati come se fossero brina mattutina.

E così quelli che per settimane ci hanno sfrantumato dicendo che la politica si fa con le idee e non si fa con i nomi ieri sera sono andati a dormire tutti esultanti perché sono riusciti a demolire gli avversari e si sentono rassicurati dall’arrivo del nuovo logo Mario Draghi, come se bastasse un’etichetta per nobilitare un Parlamento farcito di capetti viziati e capricciosi che si sono litigati la merenda fino all’ultimo minuto dell’intervallo e che ora esultano per un probabile governo verde loden. La sola idea che basti il profumo di Draghi perché l’Italia torni a volare è il sintomo più lampante della decadenza di una classe politica che si è fatta implodere, di una classe culturale eternamente appesa al prossimo salvatore e di un giornalismo rassicurato dall’essere fedele al prossimo padrone.

Alla fine in mezzo ai bambini è arrivato il Presidente Mattarella che ormai appare l’unico adulto là dentro e che prova tutti i giorni a metterci una pezza a questa immatura inconcludenza. Ma è lo stesso Mattarella che ieri nel suo discorso ha parlato di un governo «che non debba identificarsi con alcuna formula politica» e vedere esultare la politica per un governo impolitico rende perfettamente l’idea della crisi di rappresentanza democratica che sforna soluzioni costituzionalmente legittime ma che sono tutt’altro che una vittoria. Mario Draghi inevitabilmente perseguirà, com’è nell’anima di ogni governo, interessi e valori che probabilmente riusciranno a cementare una certa idea di centro (tendente a destra) che tanto piacciono a Renzi, a Berlusconi, a Calenda e a tutta quella compagnia di giro ma forse in mezzo a tutta questa esaltazione varrebbe la pena ricordare che le scorie del governo Monti portarono all’esplosione del populismo e di certa destra salviniana. Esulterei un po’ meno, ecco tutto.

Se invece il gioco è quello di convincerci che peggio di com’eravamo messi non potrebbe andare e quindi bisogna esultare perché “un governo Draghi non può fare peggio di questo governo” allora si rientra nel campo del fideismo da tifoserie e nell’infantile speranza che riesce ad accendersi solo quando vede le macerie. E si torna al punto di partenza: un impolitico gioco di specchietti per le allodole. Manca la politica, appunto.

Buon mercoledì.

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Partoriranno il topolino

Rimarrà (a noi) il dubbio che per risolvere la crisi sarebbe bastato (a loro) parlarsi, di persona, senza spararsi palle incatenate sui giornali e in televisione

Se le cose andranno come sembra che potrebbero andare qualcuno dovrà rispondere dell’avere provocato una crisi politica che è solo un rimpasto travestito da duello finale tanto per aggiungere pathos e meritarsi un po’ di visibilità. Anche perché di pathos, quello vero, quello ruvido che sanguina e che strozza la gola, qui intorno ce n’è già parecchio e non avevamo proprio bisogno di aggiungerci una montagna che partorisce un topolino e che sta tenendo tutto sospeso e tutto bloccato per svolgere una trattativa politica che una politica seria, quella che tende più alla politica che allo spettacolo, avrebbe risolto come le risolvono le maggioranze responsabili.

Anche perché se si annusano gli ultimi venti di questa aria che tira intorno al governo che non c’è sembra che si assisterà all’ennesima trasformazione di una metamorfosi da cui ne escono tutti peggiori. Si è partiti con un presidente del Consiglio che teneva insieme il M5S (quelli che avevano spergiurato di non allearsi mai con nessuno) e Salvini e tutti a braccetto ci dicevano che erano fieri di essere populisti e di essere sovranisti. Quel primo Conte addirittura rivendicava la presenza del sovranismo all’interno della Costituzione e si prendeva scroscianti applausi. Dall’altra parte il Partito democratico ripeteva come un mantra che non si sarebbe mai alleato con il M5S, mai e poi mai, mentre il M5S diceva del Partito democratico che erano un partito di gaglioffi, di pedofili, che rapivano i bambini e che erano il peggio del peggio che si fosse mai visto. Fino a quando il Pd e il M5S (quello che aveva spergiurato di non allearsi mai con nessuno) non si sono presi a braccetto e hanno rinnovato il primo Conte che è diventato il secondo Conte trascinando con loro anche Matteo Renzi che ce l’aveva a morte con chi esce dal Pd per farsi il proprio partito e si è fatto il suo partito e ce l’aveva a morte con i «partitini che provocano la crisi» e ha provocato la crisi. Ora siamo agli stessi attori in campo (più qualche transfugo che avrebbero chiamato «traditore» e che invece ora è diventato «responsabile e costruttore») che vorrebbero fare un governo, loro, per arginare il populismo e il sovranismo.

Ieri hanno discusso di un programma scritto che però hanno deciso di non scrivere. Renzi ha alzato la posta (ma va?) chiedendo più soldi sulle infrastrutture e visto che ci sono hanno anche chiesto il ministero. Poi hanno parlato del Mes, non riescono a mettersi d’accordo sul Mes ma fanno filtrare che sono stati fatti “passi avanti”. Poi hanno parlato di legge elettorale. Eh sì, la legge elettorale: ricordate che avevano rassicurato tutti dopo il taglio dei parlamentari dicendo che era urgente pensare una buona legge elettorale che garantisse l’equilibrio di rappresentanza? Si erano scordati. Ieri al tavolo delle trattative gli è tornata in mente. Poi, siccome dovrebbero essere l’argine di Salvini e dei populisti che vorrebbero governare con l’emotività spicciola, Matteo Renzi ha pensato bene di sparare un tweet che dice così: «A quelli che dicono: “Ma che bisogno c’era di fare la crisi adesso?” Rispondete mostrando una foto dei vostri bambini che giocano in un asilo. Noi oggi stiamo decidendo il loro futuro, i loro debiti». A proposito di bambini e di emotività spicciola. Il più lucido alla fine è parso Tabacci (eh sì, il M5S è stato con Salvini, con Zingaretti, con Renzi e ora anche con Tabacci) che ha fatto notare che forse il programma si dovrebbe discutere con un presidente del Consiglio che per ora non c’è. Pensa te.

Potrebbe finire insomma che si spartiscano le poltrone. Ve lo ricordate quello che all’inizio di tutta questa crisi diceva che non sarebbe finita così? Ecco, sta finendo più o meno così. E se la soluzione sarà questa rimarrà il dubbio che sarebbe bastato parlarsi, di persona, senza spararsi palle incatenate sui giornali e in televisione. Ma vuoi mettere come si sono divertiti? Loro.

Buon martedì.

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Matteo risponde (male)

«Il regime saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico… è grazie a Riyadh che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi». Lo ha detto il leader di Italia Viva in una intervista in cui ha parlato del suo viaggio in Arabia Saudita. Dove c’è una costante violazione dei diritti umani

Ieri Matteo Renzi è stato intervistato da Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera. Chiamarla intervista in realtà è una parola grossa visto che l’ex premier, come spesso accade, ha potuto comiziare per iscritto praticamente intervistandosi da solo, come piace a lui. Poiché ormai la notizia del suo viaggio in Arabia Saudita è diventato un fatto non scavalcabile il senatore fiorentino è stato costretto a rispondere sul punto (senza rispondere, ovvio) e ha inanellato una serie di panzane che farebbe impallidire anche il più sfrontato dei bugiardi ma che Renzi invece ha sciorinato come se fosse un dogma.

«La accusano di avere fatto da testimonial del regime saudita», dice Maria Teresa Meli e l’ex presidente del Consiglio risponde: «Sono stato a fare una conferenza. Ne faccio tante, ogni anno, in tutto il mondo, dalla Cina agli Stati Uniti, dal Medio Oriente alla Corea del Sud. È un’attività che viene svolta da molti ex primi ministri, almeno da chi è giudicato degno di ascolto e attenzioni in significativi consessi internazionali». Renzi non è andato a fare una semplice conferenza ma siede nel board della fondazione Future investment initiative che fa capo direttamente al principe Bin Salman e per questo è pagato fino a 80mila euro all’anno. Non era lì in veste di conferenziere ma è uno dei testimonial dell’organizzazione di queste iniziative. La differenza è notevole, mi pare. Poi: Renzi dice che molti ex primi ministri svolgono questa stessa attività ma dimentica di essere un senatore attualmente in carica, l’artefice principale di questa crisi di governo, un membro della commissione Difesa nonché lo stesso che chiedeva di avere in mano la delega ai Servizi. Se non vedete qualche problema di conflitti di interessi allora davvero risulta difficile perfino discuterne.

Poi, tanto per leccare un po’ il suo narcisismo e il suo odio personale per Conte Renzi aggiunge: «Sono certo che anche il presidente Conte, quando lascerà Palazzo Chigi, avrà le stesse opportunità di portare il suo contributo di idee». Roba da bisticci tra bambini. E addirittura rilancia: «E grazie a questo pago centinaia di migliaia di euro di tasse in Italia». Capito? Dovremmo ringraziarlo che paga le tasse. Dai, su.

Ma il capolavoro dell’intervista renziana sta in queste due frasi: «Il regime saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico» e «Se vogliamo parlare di politica estera diciamolo: è grazie a Riyadh che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi». E in effetti il senatore di Rignano deve avere dimenticato che 15 su 19 degli attentatori dell’11 settembre fossero sauditi (incluso Osama bin Laden) ma soprattutto che l’Arabia Saudita finanzi l’estremismo con molta indulgenza e pratichi l’estremismo proprio come forma di governo. Come quelli che sono interrogati in storia e non l’hanno studiata Renzi fa la cosa che gli viene più semplice: la riscrive. Infine, tanto per chiudere in bellezza, promette in futuro di rispondere «puntigliosamente in tutte le sedi» ventilando querele. Perfetto. Ovviamente nessuna osservazione da parte della giornalista: in Italia la seconda domanda è un tabù che non si riesce a superare.

Sarebbe anche interessante sapere da Renzi cosa ne pensi del “costo del lavoro” in Arabia Saudita che ha detto di invidiare, se è informato del fatto che il 76% dei lavoratori sono stranieri sottopagati che vivono in baracche malsane e che sono, di fatto, proprietà privata dei loro padroni che fino a qualche tempo fa addirittura tenevano i passaporti dei loro dipendenti come arma di ricatto per rispedirli a casa e che la situazione delle donne è perfino peggiore con “sponsor” che si spingono fino agli abusi psicologici e sessuali sulle loro dipendenti facendosi forza sul Corano che nella teocrazia saudita detta le leggi. E chissà se Renzi ha avuto il tempo almeno di leggersi una paginetta su Wikipedia (senza chiedere troppo) che dice chiaramente: «L’Arabia Saudita è uno di quegli Stati in cui le corti continuano a imporre punizioni corporali, inclusa l’amputazione delle mani e dei piedi per i ladri e la fustigazione per alcuni crimini come la cattiva condotta sessuale (omosessualità) e l’ubriachezza, lo spaccio o il gioco d’azzardo. Il numero di frustate non è chiaramente previsto dalla legge e varia a discrezione del giudice, da alcune dozzine a parecchie migliaia, inflitte generalmente lungo un periodo di settimane o di mesi. L’Arabia Saudita è anche uno dei Paesi in cui si applica la pena di morte, incluse le esecuzioni pubbliche effettuate tramite decapitazione».

Non c’è che dire: è proprio aria di Rinascimento. Davvero. O forse semplicemente Renzi ha detto la verità: lui invidia un mercato del lavoro così, dove il Jobs Act è stato scritto proprio come lo sognano i ricchi padroni.

Buon lunedì.

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L’arabo fenice

Prostrato al regime saudita in Arabia, alla disperata ricerca di visibilità in Italia. Ci sono due Renzi diversi, entrambi inopportuni, che meritano di essere osservati per avere contezza dello stato attuale di crisi

Dunque ieri abbiamo avuto l’occasione di assistere in differita al doppio Matteo Renzi, quello in versione zerbino di fronte al principe saudita Bin Salman e quello che fa la voce grossa nella crisi politica che lui stesso ha provocato in piena pandemia. Sono due Mattei così lontani tra di loro, probabilmente anche molto inopportuni nei tempi, che meritano di essere osservati per avere contezza dello stato attuale di crisi che non è solo politica ma forse e soprattuto di credibilità.

Il Renzi prostrato ai sauditi (per la modica cifra di 80mila euro l’anno) è quello che da senatore della Repubblica, da membro della commissione Difesa, quello stesso che da mesi vorrebbe avere in mano la delega ai Servizi segreti, riesce a fare la velina per il principe Bin Salman con il suo inglese alla Alberto Sordi celebrando l’Arabia Saudita (terra di principesca violenza e di diritti negati) come “terra di un nuovo Rinascimento” insozzando un po’ della sua Firenze di cui si sente padrone, è lo stesso Renzi che riesce a dirgli «non mi parli del costo del lavoro a Ryad, come italiano io sono geloso» dimenticando che da quelle parti siano vietati i sindacati (e quindi i diritti) e le manifestazioni (chissà cosa ne pensa l’ex ministra Bellanova), quello che si fa chiamare ripetutamente “Primo ministro” per celebrare e per autocelebrarsi. Una scena imbarazzante nei modi e nei contenuti da cui i renziani si difendono nel modo più bambinesco e cretino ripetendo all’infinito “e allora gli altri?” come avviene tra bambini dell’asilo.

Il Renzi italiano invece è quello che dopo il colloquio con Mattarella si ferma per un’ora davanti ai giornalisti scambiando come al solito una conferenza stampa per un comizio e raccontando ancora una volta un’impressionante serie di balle infilate una dopo l’altra, riducendo ancora tutta la crisi di governo alla difesa del suo partitino politico (indignato perché c’è qualcuno che non vuole più trattare con lui) e spiegando ai giornalisti di non avere posto veti su Conte al Presidente della Repubblica per poi smentirsi pochi minuti dopo con un suo stesso comunicato che invece chiede che l’incarico venga dato a un’altra personalità. «Oggi non si tratta di allargare la maggioranza ma di verificare se c’è una maggioranza: se vi fosse stata una maggioranza, non saremmo stati qui ma al Senato per votare la fiducia a Bonafede», ha detto ieri Renzi nel tentativo di fermare il tempo in questa fase che gli regala un po’ di visibilità e temendo tremendamente lo spettro delle elezioni che lo farebbero scomparire. Poi, sempre in nome della sua coerenza, è riuscito a stigmatizzare la nascita di un nuovo gruppo in Parlamento dimenticandosi che la sua stessa Italia viva sia frutto dello stesso trucco parlamentare. Ma si sa: per Renzi le stesse identiche azioni hanno dignità differente se è lui a compierle o se sono gli altri.

E così tra liti e tentativi di riconciliazioni si trascina una crisi politica che diventa ogni giorno di più una barzelletta, sfiancante per i toni e la bassezza dei protagonisti, sfiancante perché avviene in un momento di piena pandemia.

E viene voglia di dirsi che finisca tutto presto, il prima possibile.

Buon venerdì.

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Renzi d’Arabia

Nel mezzo della crisi di governo, il leader di Italia viva è volato a Riad per una conferenza del Fii institute controllato dalla famiglia reale. Pagato da un regime che viola i diritti umani

Dunque il curioso giornalista del quotidiano Domani, Emiliano Fittipaldi, ha scoperto che il prode Matteo Renzi, colui che ha provocato questa crisi di governo in piena pandemia, ha dovuto fare in fretta le valigie per tornare in Italia mentre se ne stava pasciuto in Arabia Saudita, a Riad, per il Fii events, organizzato dall’omonimo istituto voluto dalla famiglia reale, guidata dal re Salman e dal principe ereditario Mohammed bin Salman (detto MbS), leader incontrastato del Paese.

Renzi non era un semplice ospite e nemmeno un banale conferenziere come gli altri 150: il leader di Italia viva (che frequenta i sauditi dal 2017) siede nell’advisory board dell’Fii institute che si occupa di intelligenza artificiale, robotica e cybersicurezza per dare consigli «su come usare la cultura nelle città, che è un possibile driver del cambiamento del Paese mediorentale».

All’uscita della notizia gli scherani di Matteo sono subito accorsi per spiegarci come non ci sia nulla di male se un leader di un partito nazionale, senatore pagato con i soldi degli italiani, nel giorno della crisi che lui stesso ha scatenato (anche se ostinatamente insiste a negarlo come un Fontana qualsiasi), colui che ha accusato Conte di essere “un pericolo per la democrazia” sia pagato (si dice circa 80mila euro all’anno) da un regime che applica la Sharia nella sua forma più rigida, ossia dai governanti di un luogo dove le donne vengono discriminate più che in ogni altro posto al mondo, quella stessa Arabia Saudita che da anni sta devastando lo Yemen uccidendo civili (bambini inclusi) e bombardando ospedali, quella stessa Arabia Saudita che arresta e condanna giornalisti e attivisti e intellettuali per avere espresso delle libere opinioni, quella stessa Arabia Saudita che arbitrariamente ha arrestato i difensori dei diritti delle donne, quella stessa Arabia Saudita che ogni anno emette condanne a morte (anche tramite decapitazioni), quella stessa Arabia Saudita in cui Raif Badawi è stato condannato a 1.000 frustate e 10 anni di carcere semplicemente per aver scritto un blog, quella stessa Arabia Saudita in cui la tortura viene utilizzata come legittimo strumento punitivo, quella stessa Arabia Saudita in cui la discriminazione religiosa della minoranza sciita avviene alla luce del sole, quella stessa Arabia Saudita in cui è stato fatto pezzi il giornalista del Washington post Jamal Khashoggi.

Tutto bene, insomma. Anzi qualcuno ci dice che non essendoci nulla di illegale non se ne dovrebbe nemmeno parlare. Del resto la questione morale, dalle nostre parti, sembra contare ormai molto poco. Quando un anno fa Corrado Formigli gli chiese (dopo che un altro pezzo del Financial Times aveva segnalato la sua partecipazione a un meeting in Arabia) se da «senatore italiano» si ponesse «il problema etico quando tiene conferenze in Paesi che violano i diritti umani come l’Arabia Saudita», Renzi rispose sereno che non c’era alcun conflitto di interesse e che sarebbe sorto solo se lui avesse «fatto parte del governo come ministro o premier». Bei tempi quando in Italia si chiedeva la decadenza della cittadinanza italiana a Sandro Gozi in quanto consulente di Macron.

Intanto qui c’è una crisi di governo da sistemare. Che impiccio, per mister Renzi.

Buon mercoledì.

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Grazie, Biden: dopo un anno orribile, in un solo giorno ci hai restituito la speranza nel futuro

Sono tempi magri per la politica questi, tempi in cui tocca esultare per essersi liberati di qualcuno rimanendo ancorati alla convinzione che non possa andare peggio di così e che per forza prima o poi, dopo avere toccato il fondo, si possa risalire. Però negli USA che finalmente si liberano di Trump, al di là dei lustrini per l’insediamento di Biden come nuovo presidente, arrivano anche 17 ordini esecutivi firmati nel primo giorno di presidenza Biden che già ci dicono qualcosa dello scenario futuro e che inducono all’ottimismo.

Per fronteggiare la pandemia, smettendola finalmente di lisciare complottisti e negazionisti vari, Biden ha creato il ruolo di Coordinatore della risposta alla Covid-19 che è stato affidato a Jeffrey D. Zients. È stato anche bloccato il ritiro degli USA dall’Organizzazione mondiale della sanità che Trump aveva accusato, ovviamente senza prove, di “cattiva gestione e insabbiamento della diffusione del coronavirus”.

È iniziato anche il percorso di reintegro degli USA negli accordi sul clima di Parigi, il più importante trattato ambientale degli ultimi anni, con l’impegno di contrastare il riscaldamento globale. Fermati invece i lavori dell’oleodotto Keystone XL, contestato dagli ambientalisti americani e che già Obama aveva bloccato durante la sua presidenza.

Smontati in poche ore anche tutti i provvedimenti razzisti di Trump che avevano fatto inorridire il mondo: è stato rafforzato il DACA (che serve per proteggere i bambini dalle espulsioni) e soprattutto cancellato il “travel ban” con cui si limitavano le concessioni dei visti per l’ingresso ai cittadini di alcuni Paesi africani a maggioranza musulmana. L’amministrazione Biden sta anche studiando delle forme di risarcimento per i cittadini che sono stati discriminati.

Ve lo ricordate la dispendiosissima (e inutile) costruzione del muro al confine con il Messico? Ecco, finalmente Biden ha messo la parola fine a quella farsa. Biden ha anche cancellato l’ordine di Trump che limitava (con l’intento di cancellarli) i corsi sulla diversità e sull’inclusione chiedendo invece la costituzione di un nuovo organo che si occupi di combattere la discriminazione all’interno delle organizzazioni federali.

A proposito di quelli che lavoreranno con lui, Biden ha stabilito anche alcune regole etiche con l’intento di “riguadagnare e conservare la fiducia nel governo”. Insomma, siamo solo all’inizio, ma molto di Trump si è già dissolto nelle prime 24 ore della nuova era americana. E questa è già una buona notizia: perché questi sono fatti, mica parole.

Leggi anche: 1. Biden è presidente, la buona America è tornata (di G. Gramaglia) / 2. Il primo discorso del presidente Biden: “Oggi è il giorno della democrazia” / 3. Il discorso d’addio di Trump: “Continuerò a combattere per voi, torneremo in un modo o nell’altro”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Ritorno a scuola, è caos totale: il governo litiga e ogni regione fa come gli pare…

Ora almeno ci sono anche dei numeri, pochi, pochini e perfino poco chiari. Dopo mesi in cui tutti chiedevano aggiornamenti l’altro ieri l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato il suo rapporto per il periodo dal 31 agosto al 27 dicembre sui contagi a scuola mettendo nero su bianco che si tratta di 3.173 focolai di coronavirus pari al 2% del totale. Si tratta di bambini e ragazzi in età scolare (dai 3 ai 18 anni): la maggior parte dei casi, ben il 40%, si è verificata negli adolescenti dai 14 ai 18 anni. Si potrebbe partire da qui ad aprire un serio dibattito sul futuro, sul presente e sul passato recente delle scuole italiane in tempo di pandemia se non fosse che l’Iss non sa dire nulla sul fatto che il contagio avvenga in classe oppure nei (troppo pochi) trasporti prima e dopo le ore di lezione. Il nodo dei mezzi pubblici rimane un grosso punto interrogativo. Stesso discorso sulla reale efficacia della chiusura delle scuole per frenare la diffusione del Covid: «Tuttavia, l’impatto della chiusura e della riapertura delle scuole sulle dinamiche epidemiche rimane ancora poco chiaro», si legge nel rapporto.

E quindi? E quindi sulla scuola si continua con l’indecente balletto di favorevoli e contrari, di opposte tifoserie che si scontrano per opposte fazioni spesso dimenticando di proporre soluzioni. In mezzo un governo che sulla questione continua a balbettare e appare piuttosto disunito: la ministra alla scuola Lucia Azzolina pretenderebbe un rapidissimo rientro in presenza mentre altri membri del governo, Dario Franceschini in testa, propendono per la linea della cautela a oltranza. La sintesi non c’è. Meglio: la sintesi è una sbiadita mediazione che per ora dal Consiglio dei Ministri dà il via libera in presenza al 50% per le scuole secondarie di secondo grado dal prossimo lunedì 11 gennaio mentre per le scuole primarie e secondarie di primo grado fissa la ripresa dal 7 gennaio in presenza. Peccato che intanto le Regioni vadano ognuna per conto suo con la Liguria che annuncia che non aprirà, la Sardegna che posticipa al 15 gennaio, il Veneto che rimanda al 31 come Calabria, Friuli Venezia Giulia e Marche, tutte in ordine sparso. La sensazione diffusa è che il molto probabile aumento dei contagi nei prossimi giorni cambierà di nuovo le carte in tavola.

«Le Regioni riflettano bene sulle conseguenze per studenti e famiglie», avverte Azzolina ma che il peso della ministra sia debole all’interno dell’esecutivo è molto più di una sensazione.
Poi ci sarebbe anche il pensiero degli studenti, raccolto da un’indagine Ipsos per Save The Children tra ragazzi dai 14 a 18 anni che racconta di come il 42% di loro ritenga ingiusto che agli adulti sia permesso di andare al lavoro mentre loro non possono frequentare la scuola. Il 46% considera quello trascorso finora “un anno sprecato”. Save the Children stima che almeno 34mila studenti delle superiori, a causa delle assenze prolungate, potrebbero trovarsi a rischio di abbandono scolastico. Il 28% degli studenti dichiara che almeno un loro compagno di classe ha smesso di frequentare le lezioni. Ad oggi, più di uno studente su tre (35%) si sente meno preparato di quando andava a scuola in presenza.

Poi si potrebbe parlare dei trasporti che ancora mancano, del tracciamento e dei presidi sanitari e dei tamponi che avrebbero garantito sicurezza e soprattutto di un sistema di ventilazione nelle aule che avrebbe potuto garantire più sicurezza. Ma di visoni strutturate e lunghe sulla scuola non se ne vede l’ombra. Intanto il personale scolastico si arrabatta e resiste, in attesa della prossima decisione poche ore prima di aprire i cancelli.

L’articolo Ritorno a scuola, è caos totale: il governo litiga e ogni regione fa come gli pare… proviene da Il Riformista.

Fonte

Il piano piano vaccinale di Gallera

La Lombardia è in fondo alla classifica nella vaccinazione anti Covid: è stato usato solo il 3% dei vaccini a disposizione. E l’assessore alla Sanità della regione più martoriata dalla pandemia spiega che gli operatori sanitari sono in ferie e annuncia 10mila vaccini al giorno. Ma gli abitanti sono 10 milioni

Io un giorno, per qualche ora soltanto, vorrei affittare un angolo della testa di Gallera, sedermi in disparte in qualche angolo e ascoltare quello che ci ronza dentro, sentire quel turbinio di pensieri che spinge l’assessore alla Sanità della regione più martoriata dalla pandemia a rilasciare interviste che sembrano elaborati copioni di un teatro dell’assurdo, frasi che abbatterebbero in un attimo la carriera politica di chiunque e invece lui, Gallera sempre in piedi, continua impunemente a sfoderare assurdità una dopo l’altra e non si muove una foglia, non viene mai messo in discussione.

Partiamo dall’inizio: arriva il virus e la Lombardia esplode. Eravamo all’inizio dell’anno scorso e Gallera ci spiega che la Lombardia ha numeri così alti perché è stata la regione “più colpita”. La giustificazione, per quanto fosse superficiale, poteva anche starci: peccato che a livello di contagiati (con il 22% dei casi nazionali) e di deceduti (ben il 33%) la Lombardia abbia continuato e continui a svettare. Insomma, l’effetto “sorpresa” ormai non regge più come scusa. Poi ci sono stati i pessimi risultati della medicina generale e delle Rsa, storie piene di dolore e di lutti che hanno attraversato tutti i quotidiani per mesi. Poi c’è stato il fallimento del tracciamento e dei tamponi, con lombardi che si sono ammalati e dopo mesi non hanno nemmeno un tampone che lo certifica. Poi ci sono i numeri disastrosi della campagna vaccinale antinfluenzale: al momento attuale siamo a 1 milione e 135mila vaccini su una popolazione di 2.302.527 persone, con una percentuale del 49,32 per cento ben lontana dall’obiettivo prefissato e addirittura inferiore a quella dello scorso anno quando venne vaccinato il 49,8 per cento della popolazione over 65. Peggio ancora per i bambini dai 2 ai 6 anni: l’obiettivo era vaccinarne il 50% e siamo al 16,72 per cento del totale, con picchi verso il basso dell’8,23 per cento nella zona di Pavia e del 9,58 per cento a Brescia.

Ora ci sono i numeri sconfortanti della campagna vaccinale anti Covid: la Lombardia svetta, come al solito, in fondo alla classifica con un vergognoso 3% sui vaccini consegnati. E qui Gallera si erge a livelli impensabili. Ci spiega che i suoi operatori sanitari sono in ferie (come se il piano ferie in Lombardia fosse diverso, chissà perché, da quello delle altre regioni), ci dice che non vuole bloccare “interi reparti per eventuali reazioni allergiche” (buttando lì a caso un po’ di allarmismo di cui non si sa niente e non si hanno evidenze), poi rantola su un’eventuale mancanza di siringhe (ma come? E le altre regioni?) e infine si supera affermando: «Agghiacciante una simile classifica. Per non parlare di quelle regioni che hanno fatto la corsa per dimostrare di essere più brave di chissà chi. Noi siamo una regione seria. Partiamo domani con 6000 vaccinazioni al giorno nei 65 hub regionali. I conti facciamoli tra 15 o 20 giorni».

In sostanza nella testa di Gallera il Veneto, Lazio e tutte le altre regioni che stanno facendo meglio si sarebbero messe d’accordo bisbigliando e dandosi di gomito solo per fargli fare una brutta figura. Infine, convinto di calare l’asso, ci dice che la Lombardia a pieno regime riuscirà a fare 10mila vaccinazioni al giorno. Campa cavallo: con 10 milioni di abitanti il calcolo viene semplice semplice, tenendo conto che di vaccini per ogni persona ne vengono fatti due, basterebbero 2mila giorni. In Israele, 9 milioni di abitanti, solo per fare un esempio, sono a 150mila vaccini al giorno.

Sarebbe una tragicommedia se non ci fossero di mezzo però tutti questi morti, questi contagi che ora tendono a risalire, questo futuro che appare ancora nero. Ma davvero, sul serio, lo dico anche ai leghisti che sostengono questo governo in Lombardia, cosa altro serve? Cosa, ancora?

Buon lunedì.

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La prima nata a Genova dimostra che non c’è solo il Covid da combattere nel 2021, ma anche (e ancora) il razzismo

Il 32 dicembre in molti speravano che fosse il primo gennaio, che l’anno nuovo si fosse portato via mica solo il Covid-19 da combattere ora con un vaccino finalmente disponibile ma anche le croste di quelle brutture che hanno insozzato un anno già difficile, pesante, inquinato da un cattivismo (in tutte le sue forme: razzismo, disprezzo per i poveri, bastoni sui disperati) che ha reso l’aria ancora più tossica e pestifera.

Il 32 dicembre il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti ha pubblicato sul proprio profilo Facebook la foto di una mamma che tiene in braccio la figlia appena nata. La bambina si chiama Graeter ed è la prima nata a Genova. Graeter è figlia di Joy, una donna nata in Nigeria, come il papà della bimba. “Siete la nostra speranza, il nostro futuro, la forza per non mollare in questo nuovo anno che è appena iniziato. Benvenuti al mondo piccoli e auguri alle vostre famiglie a nome mio e di tutta la Liguria”, scrive Toti.

E il 32 dicembre inizia lì dov’era finito, con una tormenta di commenti a sfondo razzista: “Dopo il vaccino obbligatorio, lo ius soli? Renzi La aspetta a braccia aperte!”, “Nata in Liguria, ma somala o africana a prescindere…”, “Questo non è vero. Come non è vero che chi nasce in Italia è italiano. Cosa hanno di ligure questi signori? Ma cosa sta dicendo?”, “Stupido e iprocrita pietismo”, “Imbarazzanti lo siete voi…se io fossi nata al polo sud di certo non ero per diritto di nascita un pinguino!”. E così via.

Ovviamente a rimestare nella melma si butta anche la Lega che con il deputato Edoardo Riki si butta a capofitto a chiarire che “quella bambina non è ligure” e che addirittura si spreca in moralismo spiccio: “Niente contro di lei, ma devo dire che poi non apprezzo il fatto che si mettano in mezzo bambini appena nati e si utilizzino per commenti politici”. Alla fine perfino Toti, sconsolato da tanta bassa bruttezza, è costretto a intervenire sulla sua bacheca cercando di abbassare i toni.

E così il 32 dicembre del 2020 che molti hanno scambiato per il primo giorno del 2021 l’Italia fa ancora i conti con quello che è: una livorosa accozzaglia di diritti ostinatamente da negare e di una realtà ostinatamente taciuta e nascosta. Ne ha fatto le spese Graeter ma in fondo è stato il risveglio anche per noi: l’anno nuovo inizia quando iniziano nuovi comportamenti, quando si evolvono i pensieri e i modi, quando la realtà riesce a fare risultare “passato” quello che era. E invece niente di tutto questo. È un anno lunghissimo questo decennio.

Leggi anche: Liguria, Toti pubblica la foto della prima nata a Genova: insulti razzisti e scontro con la Lega

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Leghismo in briciole, a Lodi

Il regolamento del Comune a guida leghista discriminatorio nei confronti dei bambini stranieri, impedendo loro l’accesso a servizi essenziali come la mensa scolastica e lo scuolabus. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Milano. Che ha anche condannato il Comune a pagare le spese legali sostenute da un comitato di cittadini

Il Canto di Natale quest’anno è stato scritto a Lodi, città incastrata nelle campagne lombarde e che ci porta un dono di fine anno significativo perché rimette i sensi a posto, restituisce alle parole il suo significato e perché racconta una vicenda che è un vocabolario politico per comprendere come il leghismo ma più in generale il cattivismo, la voglia di disgregazione e l’arroccamento ignorante franino di fronte alla realtà degli eventi e delle leggi.

Qui a Lodi nel 2017 la sindaca Sara Casanova aveva pensato di ritagliarsi un po’ di notorietà con un nuovo regolamento comunale che discriminava l’accesso dei bambini stranieri ad alcuni servizi essenziali come la mensa scolastica e lo scuolabus. Aveva pensato, quel gran geniaccio di sindaca, di imporre delle regole apposite per i genitori degli alunni stranieri prevedendo l’accesso alle tariffe agevolate (che in Italia vengono stabilite in base al reddito) richiedendo dei documenti aggiuntivi che certificassero chissà quali ricchezze nascoste nei loro Paesi di origine. Del resto era un ottimo modo per inoculare il dubbio che gli stranieri scappino dalla guerra lasciando enormi ricchezze. Una persona normale ci riderebbe su, i sovranisti invece, poverini, ci scrivono golosi teoremi e profondi editoriali.

La vicenda era odiosa perché metteva di mezzo gli stranieri ma soprattutto perché se la prendeva con i bambini. Del resto è tipico dei leghisti fare i forti con i deboli, loro ci riescono solo così. E si sentono perfino dei condottieri, poveretti, quando sono solo gli scherani di una poraccitudine che affila i denti sulle prede indifese. Era andata a finire che molti genitori avevano chiesto di condividere i pasti dei propri figli con i bambini stranieri. Del resto dividersi il pane dovrebbe essere l’atto politico più alto e nobile. Dovrebbe.

Nel 2018 l’Asgi, associazione degli studi giuridici sull’Immigrazione, e il Naga, associazione volontaria di assistenza sociosanitaria e per i diritti di cittadini stranieri, rom e sinti, presentò un ricorso contro il regolamento del Comune di Lodi. Il 13 dicembre 2018, un’ordinanza del tribunale di Milano stabilì che il regolamento era discriminatorio e chiese il ripristino dei precedenti criteri di accesso alle agevolazioni per le mense e il trasporto scolastico.

La sindaca Casanova insiste, presenta ricorso. Ora la Corte d’appello di Milano ha respinto il ricorso. Nella sentenza si legge: “La differenziazione introdotta dal regolamento del Comune di Lodi introdotto con Dgc 28/2017 in punto di documentazione su redditi/beni posseduti (o non posseduti ) all’estero costituisce una discriminazione diretta nei confronti dei cittadini di Stati extra Ue per ragioni di nazionalità perché di fatto, attraverso i gravosi oneri documentali aggiuntivi richiesti, rende loro difficoltoso concorrere all’accesso alle prestazioni sociali agevolate, così precludendo ai predetti il pieno sviluppo della loro persona e l’integrazione nella comunità di accoglienza; ne consegue il respingimento dell’appello presentato dallo stesso Comune”. Il Comune di Lodi è stato anche condannato a pagare le spese legali sostenute dal Comitato Uguali Doveri, una rete di cittadini che in quei giorni si è costituita per difendere il diritto di essere uguali.

Sconfitti e costosi: eccoli i sindaci leghisti. E quei giorni orrendi sono diventati un manifesto d’umanità.

Buon giovedì.

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