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Ora per Italia Viva il Mes “non è imprescindibile”: svelato l’inganno, Renzi voleva solo la testa di Conte

Ogni tanto conviene esercitare la memoria, anche quella più breve, anche in un momento di eccitazione politica, almeno per una questione di igiene intellettuale, perché ognuno possa giudicare senza farsi travolgere dalle mistificazioni.

Ieri Maria Elena Boschi, esponente di spicco dei renziani, ha dichiarato in scioltezza che Italia Viva non ha mai preteso il Mes: “Abbiamo sempre detto che non era per noi imprescindibile”, dice l’ex ministra. E tutti che fanno sì sì, senza nemmeno porre qualche domanda.

Badate bene: è la stessa Boschi che lo scorso 12 gennaio disse che Italia Viva aveva “chiesto al governo di prendere il Mes”. “Servono soldi per la sanità, non poltrone per noi”, diceva.

È lo stesso partito che il 13 gennaio, in piena crisi politica, disse per bocca del suo padrone Matteo Renzi: “Qual è il punto decisivo per la rottura? Tanti. Ma su tutti, il Mes. Noi chiedevamo più soldi per la sanità, attivando il Mes”.

Il 17 gennaio fu sempre Renzi, ospite di Lucia Annunziata, a dire: “Non voterò mai un governo che si ritiene il migliore del mondo e di fronte a 80mila morti non prende il Mes”.

E fu sempre Renzi che disse: “La mancata attivazione del Mes sarà pagata dai dottori, dai ricercatori, dai malati e dalle loro famiglie”.

E quindi? Quindi il punto centrale della rottura di Italia Viva con il Governo Conte nel giro di pochi giorni è diventato precipitosamente un’inezia su cui si può soprassedere senza nessun problema.

Per carità, non stupisce: in questa fase politica, sotto il nome della “responsabilità”, stiamo assistendo alle più inaspettate (e poco dignitose) acrobazie per giustificare inversioni delle proprie fedi politiche: i sovranisti sono diventati europeisti, i nemici delle banche si sono innamorati di un banchiere, gli appassionati dei programmi scritti hanno acceso una smisurata passione al buio, i cultori dei passaggi democratici si scocciano ad avere a che fare con questo Parlamento.

Ma una domanda, una, sorge spontanea: il Matteo Renzi che per settimane ci ha detto che non fosse un problema di nomi e di persone ma che tutto il suo agitarsi fosse figlio di un’irrefrenabile coerenza per i suoi contenuti politici cosa ci dice ora del Mes, di Arcuri che dovrebbe rimanere dov’è, del reddito di cittadinanza che probabilmente non verrà toccato e di un governo che nasce proprio su un nome, su una persona?

Perché altrimenti avrebbe potuto dire che il problema era Conte, solo Conte e la pazza idea di governare (ancora) con il centrodestra. La sincerità è una virtù. Lo diceva anche Confucio.

Leggi anche: La videolettera di Riccardo Bocca: Caro Draghi, lei è il medico del pronto soccorso ma è la politica che deve resuscitare

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Lo voglio! Lo voglio!

Il rito natalizio è l’esempio migliore. Lo voglio! Lo voglio! Gridano tutti quelli che sperano con bambinesca responsabilità di potere chiudere gli occhi e che tutto si cancelli. Il rito ancestrale di poter invitare chi si vuole nella propria abitazione per partecipare a un pantagruelico banchetto continua a ripetersi. Nessuno che parli di Natale per senso di responsabilità. Ma accade un po’ per tutto. Voglio andare al bar!, grida qualcuno, oppure voglio andare al cinema!, ma badate bene non è mai un discorso che questi fanno su base di dati, di numeri o di previsioni. Ieri qualcuno in commento a un mio pezzo scriveva: “non permetterò che mi stravolgono la vita questi al governo!”, come se il virus non esistesse, come se le decisioni consequenziali al virus fossero colpa di chi le prende, di chi stringe.

C’è in giro un’irresponsabilità che fa spavento e noi continuiamo a trattarla come se fosse davvero una posizione politica. Il presidente Fontana in Lombardia  chiede di passare in zona arancione perché i dati secondo lui dimostrano che in futuro potrebbe andare bene; ed è la stessa irresponsabilità del presidente del Piemonte Cirio che chiede più “libertà”, nonostante la sua regione abbia un indice di positività del 24,64% sui casi testati e un altissimo tasso di ospedalizzazione. Sono 5.150 i malati Covid ricoverati in ospedale in Piemonte, 384 quelli per cui è necessario ricorrere alla terapia intensiva. Secondo i dati di Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, in tutto il Piemonte i posti letto in rianimazione sono occupati al 61% da pazienti Covid, contro il 42% della media italiana. In area medica, invece, la percentuale sale al 92%, tra le più alte d’Italia.

L’intuizione di una certa parte politica (e di un folto gruppo di persone) è quella di recriminare come se il contesto non esistesse. Per questo molti negano il virus: facendo così possono almeno non apparire dei dissennati, se ci pensate. Non rendersi conto del contesto è un “liberi tutti” che torna comodo e utilissimo.

Diceva Marthin Luther King: «Nulla al mondo è più pericoloso che un’ignoranza sincera ed una stupidità coscienziosa».

Eppure il “Lo voglio! Lo voglio!” continua a proliferare. Intanto solo il 24% degli italiani, in un sondaggio Ipsos, dichiara di volersi vaccinare subito.

A posto così.

Buon giovedì.

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Lo smemorato del Sussidistan

Eccolo qui, ancora, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi che come un falco rotto si lancia sul sistema Italia impartendo la sua lezione di politica dall’alto della sua (modesta) esperienza imprenditoriale e con i suoi soliti toni di guerriglia contro il Paese sociale. La sua ultima impresa, il suo ultimo bullismo lessicale è tutto nella parola «Sussidistan» con cui ha bollato l’Italia colpevole, a suo dire, di occuparsi troppo dei poveri e troppo poco delle imprese. «Aderire allo spirito dell’Ue significa una visione diversa dai sussidi per sostenere i settori in difficoltà. Nel lockdown il governo ha assunto misure di sostegno alla liquidità delle imprese e di rifinanziamento al fondo Pmi, ma i sussidi non sono per sempre, né vogliamo diventare un Sussidistan», ha detto Bonomi all’assemblea annuale degli industriali, riprendendo tra l’altro il termine già usato dall’economista del partito di Italia viva e trasformando un discorso serissimo e fondamentale per il futuro del Paese in uno slogan da macchiette.

Però ci vuole davvero un bel coraggio e tanta miopia per sostenere che il denaro a pioggia sia distribuito solo nella «logica del dividendo elettorale» nell’Italia in cui gli industriali hanno dimostrato di sapere battere cassa come forse da nessun’altra parte, tanto che al ministero dello Sviluppo economico c’è addirittura un’intera task force (un’altra, l’ennesima) dedicata esclusivamente agli incentivi alle imprese.

Forse bisognerebbe ricordare a Bonomi che già nel Dopoguerra fu lo Stato, attraverso le banche pubbliche, la Mediobanca di Enrico Cuccia e l’Iri a iniettare denaro nell’industria nazionale. Qualcuno potrebbe ricordare cosa accadde negli anni Novanta quando tutti i cittadini pagavano mutui con interessi a doppia cifra e lo Stato firmava il famoso “tasso Fiat” al 7% per aiutare l’azienda automobilistica italiana, quella che non ha avuto molti scrupoli poi a chiudere i suoi impianti italiani e delocalizzare con tanta agilità spostando tutto l’asse verso gli Stati Uniti.

Oppure si potrebbe tornare sul cronico tasto dolente di Alitalia che è stata privatizzata ma non è mai stata realmente privata nella distribuzione delle sue perdite che sono ricadute e continuano a ricadere nelle tasche dei contribuenti. Oppure si potrebbe ricordare i miliardi di euro che ogni anno arrivano come contributi indiretti o come sgravi fiscali all’industria del cemento che formalmente vanno a favore dei cittadini sotto i fantasiosi nomi di sismabonus, ristrutturazioni, rifacimento terrazze e soprattutto come bonus facciate ma che di fatto servono ad alimentare un settore in crisi profonda anche di idee che senza aiuti di Stato sarebbe fermo al palo. Dice il segretario Cgil Maurizio Landini in un’intervista a La Stampa che «il Sussidistan è quello delle aziende che vivono di contributi pubblici. Tra il 2015 e il 2020 alle imprese sono andati sussidi per più di 50 miliardi. E più di un terzo dei 100 della manovra del 2020. Una cifra consistente, una parte è prevista anche nella manovra più recente. Sono sussidi per incentivare assunzioni, sgravi fiscali, aiuti di ogni genere. Noi chiediamo di uscire dalla logica degli aiuti a pioggia per una nuova politica industriale che incentivi a creare lavoro di qualità e non precario innanzitutto per giovani e donne».

Il tema vero di questa epoca politica è che è in corso un attacco sconsiderato ai poveri e alla povertà (non certo per sconfiggerla con redditi decenti), che si camuffa come critica politica al Reddito di cittadinanza e a Quota 100 ma che sostanzialmente punta a spostare i soldi del prossimo Recovery fund sulle imprese che non vogliono perdere la propria occasione di sedersi al tavolo e di dividersi una bella fetta della torta. L’avevamo già scritto qualche numero fa proprio su queste pagine (vedi Left del 26 giugno, La democrazia secondo Confindustria, ndr): Confindustria ha lanciato Bonomi nell’agone politico con l’evidente obiettivo di succhiare più soldi possibili dai (molti) soldi che arriveranno dall’Europa. Solo questo. Tutto qui. E il trucco di non distinguere i piani del rilancio industriale da quelli della lotta alle povertà è astutamente utilizzato per confondere le acque.

Infine il prode Bonomi si lancia anche nella sconclusionata proposta di fare pagare l’Irpef direttamente ai dipendenti in nome di una “semplificazione” che non si capisce esattamente cosa porterebbe: in un Paese dove l’evasione fiscale costa 107 miliardi all’anno (metà del Recovery fund) e con la scandalosa statistica che ci dice che il 93% dell’Irpef è pagato dai lavoratori dipendenti e dai pensionati la proposta suona come un sottilissimo invito a investire in quelle stesse modalità che da anni azzoppano le casse pubbliche con l’enorme “fantasia fiscale” di una certa parte dell’imprenditoria italiana.

Un fatto però suona chiaro e cristallino: nel Paese dei capitalisti senza capitali che fanno imprenditoria con i soldi degli altri (o con i soldi pubblici) Carlo Bonomi si presenta con tutti i ghingheri che servono per apparire il perfetto protettore di un certo padronato che ha nel vocabolario del futuro solo una parola: soldi, soldi, soldi.

L’editoriale è tratto da Left del 9-15 ottobre 2020

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Sfruttati e trattati da untori: i moderni schiavi di Mondragone, vittime del razzismo italiano

Alla fine è arrivata alla disperazione. La miscela perfetta della pandemia: gli invisibili stranieri che lavorano nei campi di Mondragone (sfruttati da italianissimi sfruttatori), gli italiani che vivono nella povertà e che hanno bisogno di trovare il nemico di fianco al proprio pianerottolo per avere la soluzione facile senza rendersi conto che non è una soluzione, la politica che banchetta sul disagio come continua a fare da anni e perfino il presidente campano che ora si ritrova a affrontare un’emergenza vera, qualcosa di endemico, qualcosa che ha radici profonde nel tempo e nei modi e che è molto di più di una semplice emergenza sanitaria.

Mondragone era malata già prima del Coronavirus, Mondragone, come molte parti d’Italia, è una di quelle zone dove la politica è riuscita a instillare la guerra tra disperati, gente invisibile che lavora nei campi per qualche spicciolo e poi rientra in case che sono casermoni dormitori dove la socialità sta solo nello sprofondare nel letto farciti di fatica, con un futuro immaginabile che non è più lungo del giorno successivo in cui ci sarà da cavarsela ancora. Lo schema facile facile disegnato dallo zotico razzismo di chi è incapace di fare i conti con la complessità è semplice, ripetuto, sempre lo stesso: arrivano i bulgari a infettarci, arrivano i bulgari a non rispettare le ordinanze ed è colpa dei bulgari se noi perdiamo il lavoro. La parola bulgari la potete tranquillamente sostituire con una nazionalità qualsiasi, l’importante è che siano altro rispetto a noi e così il giochino fila liscio liscio.

Nessuno che riesce a ricordare gli arresti e le denunce di imprenditori casertani (e lì, dalle parti di Latina) che i bulgari li importano a chili, famiglie con anche figli minori che diventano forza lavoro, per pagarli 2 euro all’ora e per lucrare su persone che non sono persone ma sono solo le loro braccia e la fatica che riescono a spremere in una giornata di lavoro. Mondragone è il grido d’allarme degli invisibili che sono rimasti con il collo schiacciato sotto la scarpa della pandemia e di questo mondo del lavoro che è appeso a un filo, fottendosene delle leggi e delle regole, dove basta rinchiudersi in casa per qualche settimana per fare la fame, la fame vera, la fame che andrebbe trattata per tutta la vita e per tutte le vite che ha intorno e che invece la nostra bassa politica tratta come fenomeno passeggero, giusto il tempo per coltivare rabbia e sperare di raccogliere una manciata di voti. Ora è Mondragone, è solo l’inizio.

Leggi anche: 1. Mondragone dimostra che il problema non è il Covid, è fame. E lo Stato non ha soluzioni (di L. Telese) / 2. De Luca vi fa ridere? La sua violenza verbale fa male alla sinistra ed è un regalo a Salvini / 3. Un bracciante è stato picchiato per aver chiesto una mascherina. Questa è l’Italia del 2020 

L’articolo proviene da TPI.it qui

I lavoratori pagano, i manager incassano

Sotto la guida di Bonomi, Confindustria si è lanciata in uno scontro con il governo per ottenere un posto riservato agli industriali al banchetto dei miliardi che arriveranno dall’Europa per il coronavirus. È la stessa associazione che critica lo strumento della cassa integrazione e poi “mette” in cassa i giornalisti del Sole24ore

Arriveranno soldi, molti soldi, su questo non ci sono grandi dubbi: sono almeno 172 miliardi dall’Europa oltre i 36 miliardi del fondo salva Stati Mes che potranno essere usati per la sanità e che il governo italiano, nonostante le enormi fibrillazioni nella maggioranza, sembra intenzionato a richiedere. Ciò che sembra sfuggire a molti commentatori politici è che in Italia si vedranno cifre che sarebbe stato folle anche solo immaginare prima della pandemia e ogni volta che all’orizzonte si intravede il denaro le lobby, dalle più fameliche alle più ostinate, si preparano a aprire le fauci per ingerire la propria fetta.

All’odore dei soldi si è mossa subito la nuova Confindustria di Carlo Bonomi, quello che non ha nemmeno fatto raffreddare il festeggiamento per la sua elezione e si è già lanciato in uno scontro a muso duro con Giuseppe Conte e il suo governo per chiedere che Confindustria possa avere il suo lauto posto riservato per il prossimo banchetto.

Curiosa la storia del capo di Confindustria: colui che dovrebbe rappresentare tutti gli imprenditori d’Italia, e che quindi dovrebbe presumibilmente esserne un fulgido esempio, è a capo di una piccola azienda biomedica che fattura qualcosa come due milioni di euro all’anno, una miseria nel panorama imprenditoriale italiano che già di suo non eccede nelle dimensioni medie. Ma Bonomi è stato scelto per fare la parte del cattivo e lui ha preso molto sul serio il copione eccedendo perfino nella sua libertà lessicale: giusto qualche giorno fa ha dato lezioni di diritto costituzionale lanciando l’idea di una nuova democrazia che ha chiamato «negoziale» auspicando «una grande alleanza pubblico-privato» in cui «il decisore politico non ha delega insindacabile per mandato elettorale» ma dialoga «incessantemente attraverso le rappresentanze del mondo dell’impresa, del lavoro, delle professioni, del Terzo settore, della ricerca e della cultura».

Letta di primo acchito potrebbe anche sembrare avere un senso se non fosse che…

L’inchiesta prosegue su Left in edicola dal 26 giugno

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Schifoso è il brigare tra amici per banche piene di amici

Facciamo finta davvero che le risultanze della commissione parlamentare sulle banche non smentiscano in toto le parole di chi ci ha fatto credere per mesi di non avere mai “interferito” grazie al proprio ruolo politico nell’eventuale salvataggio della “banca di famiglia” (e invece è vero) e facciamo anche finta che non sia terribilmente patetico costruire una “difesa” che si fa forza sulle “cento sfumature di insistenza” come se un elemento di spicco del governo (e del partito di maggioranza nonché della cerchia amicale del proprietario di quel partito) possa avere sull’amministratore delegato di un istituto bancario la stessa presa di un metalmeccanico esodato e sia tutto riducibile al lessico usato e nient’altro.

Facciamo anche finta che non conti il goffo atteggiamento di una cerchia magica ormai sull’orlo del dirupo che si sforza di paventare elementi di prova che ormai non strappano più di qualche sorriso ai loro ex sodali (e peggio ancora ai vecchi nemici) come accade a quei bulletti ormai caduti in disgrazia che alzano la voce perché non si senta nulla, mica per farsi sentire.

Facciamo anche finta che non sia odioso questo provincialismo da scolaresca in gita per cui sono anni che i nomi e i cognomi sono sempre gli stessi, cresciuti insieme a una manciata di chilometri di distanza, come se l’essere amici sia il tratto distintivo e il prerequisito essenziale di una classe dirigente.

Facciamo anche finta che la commissione parlamentare che avrebbe dovuto e dovrebbe indicarci le cause, le falle e i mancati controlli di un sistema bancario che fa acqua da tutte le parti davvero stia riuscendo nella mirabolante impresa di parlare di tutt’altro come se una Boschi qualsiasi possa essere da sola la scintilla di una serie di crac che meriterebbe ben altro coraggio nel trovare risposte.

Ciò che è certo e indiscutibile è che questi che governavano fino a poco fa, questi che avrebbero dovuto portare l’Italia nel futuro, questi che promettevano un’Italia protagonista nello scacchiere europeo, questi che ci hanno promesso una scuola finalmente moderna e un lavoro finalmente in ripresa e un’economia davvero in risalita, questi in realtà hanno avuto un’irrefrenabile passione per una banca fino ad allora sconosciuta come se fosse il ganglio del benessere nazionale: un brigare tra amici per banche piene di amici, esattamente come quell’imprenditore tutto teso a salvare le sue aziende e i suoi processi. Deludente è che una banda di amici con la responsabilità di risollevare un Paese abbia avuto così tanto tempo e così tanti modi di scorrazzare su questioni attinenti al proprio cortile disconoscendo il principio di opportunità, trovando per Banca Etruria il tempo, la capacità di dialogo e la capacità di ascolto che è mancata sulle povertà, sui diritti dei lavoratori, sulla cura del territorio e molto altro. E il senso dell’opportunità, purtroppo, si deteriora in modo direttamente proporzionale alla crescita del proprio potere e lì dove ci dovrebbe essere cautela ancora oggi, ancora adesso, si sentono gli strepiti di un’adolescente sfrontatezza.

Buon giovedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2017/12/21/schifoso-e-il-brigare-tra-amici-per-banche-piene-di-amici/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

Ma dove sono finiti i banchieri del crac? Vanno a cavallo e giocano a golf (e in pochi sono sotto processo)

(di Mario Gerevini, qui)

Oggi James passa il tempo giocando a bridge. Richard si è rimesso in affari nel mercato immobiliare e nel frattempo ha fatto causa al genero. Stanley passa il suo tempo tra la casa in Park Avenue a New York e la villa a Martha’s Vineyard. Giuseppe cavalca per le campagne toscane e da buon avvocato studia le carte dei suoi processi. Gianpiero fa il consulente, mentre la famiglia investe in ristoranti. Giovanni non molla la sua Genova dove una volta era uno dei potenti più riveriti, prima che lo pescassero a truffare la «sua» banca. Fred si è dato all’architettura. Gianni ha lasciato le vigne ai figli, giusto in tempo per affrontare (da quasi nullatenente) le richieste di risarcimento.

Fermiamoci qui. E diamo il cognome a ognuno di questi sciagurati rappresentanti della categoria dei banchieri. Ex banchieri, eternamente ex. Americani, inglesi e italiani. Che cosa fanno oggi dopo aver distrutto o contribuito a bruciare centinaia di miliardi? Nessuno è in galera. Alcuni di loro sono stati solo pessimi manager e non hanno commesso reati. Altri hanno fatto en plein.

James Cayne guidava Bear Stearns e Richard Fuld era il numero uno di Lehman Brothers, Stanley O’ Neal era al timone di Merrill Lynch, Giuseppe Mussari del Monte dei Paschi, Gianpiero Fiorani della Popolare Lodi, Giovanni Berneschi alla Carige,Fred Goodwinera il capo di Royal Bank of Scotland e Gianni Zonin il re della Popolare Vicenza.

La tempesta

Rimarranno nella storia la faccia da mastino del capo di Lehman Brothers e le immagini dei dipendenti che lasciano gli uffici con gli scatoloni di cartone. RichardFuld, detto «Il Gorilla» per il carattere scontroso, oggi 71 anni, è il simbolo perenne di quel fatidico 15 settembre 2008 che con il fallimento di Lehman, sepolta da 600 miliardi di debiti, scatenò l’inferno della crisi mondiale, già latente. In quei giorni e quei mesi di grandissima tensione, trattative febbrili, riunioni segrete e filo diretto con la Fed e il governo Usa, emersero due tipi di banchiere. Fuld, appunto, con i denti sulla scrivania fino all’ultimo e poi a ripetere: «Non è colpa mia, Lehman è stata lasciata fallire».

E James Cayne, il ceo nonché grande azionista di Bear Stearns che nei giorni cruciali del crac non si trovava: stava giocando a golf. La quinta banca d’investimento Usa è collassata per l’effetto subprime e quel che restava è stato poi acquisito da Jp Morgan. Oggi Cayne si dedica al bridge, da giocatore professionista, anche perché non si ha notizia di procedimenti giudiziari a suo carico. Il flemmatico ex banchiere avrebbe portato a casa da Bear Stearns 370 milioni di dollari. Forse gran parte li ha persi con il crollo del titolo ma non se la passa male: villa a Boca Raton in Florida, case nel New Jersey e in Park Avenue a New York e residenza, pare, al Plaza Hotel di New York.

Fuld invece non ha mollato la finanza. E dopo 14 anni in Lehman, 457 milioni tra bonus e stipendi dal 2000 (ma lui dice: in maggioranza azioni Lehman, diventate carta straccia) ora gestisce una società di consulenza finanziaria e immobiliare, Matrix Advisors, da lui fondata nel 2009. Disastro reputazionale, ma nessuna seria conseguenza giudiziaria. Due anni fa ha venduto per almeno 20 milioni di dollari la sua splendida residenza vacanziera nelle montagne di Sun Valley (Idaho). E ha confermato anche in famiglia la sua fama da «duro», facendo causa al marito della figlia: non gli avrebbe restituito i soldi del prestito per acquistare un appartamento da 10 milioni a Manhattan. Il quadro d’insieme rende più plausibile la mai confermata storia del dipendente Lehman che, abbandonando gli uffici, avrebbe sferrato un pugno a Fuld.

Bolle

Uno dei grandi «cavalieri» della bolla immobiliare, Stanley O’ Neal, 65 anni, banchiere afroamericano, ex amministratore delegato di Merrill Lynch, oggi siede nel consiglio di Alcoa, colosso dell’alluminio. Era stato accompagnato all’uscita della banca d’affari nel 2007, un anno prima di Fuld, quando s’accorsero che in pancia c’erano 41 miliardi di sofferenze, causa derivati. Merrill crollava e intanto lui, ormai isolato, faceva delle gran partite a golf. Come Cayne di Bear Stearns. E come Cayne anche O’Neal ha casa in Park Avenue a New York ma sverna a Martha’s Vineyard nel Massachusets, la Capri dell’Atlantico, paradiso delle aragoste. Lì è sepolto l’attore comico John Belushi e lì è stato girato il film «Lo Squalo». L’impressione è che di entrambi, Belushi e lo squalo, si ritrovino alcune caratteristiche nei banchieri di questa piccola rassegna.

Caliamoci in Italia. L’avvocato Giuseppe Mussari, 54 anni, ha una passione per i cavalli cui dedica parecchio tempo da quando nel 2012 ha lasciato Mps, tra l’approvazione generale. Più pascoli (e meno Paschi) per Mussari, verrebbe da dire. Ma qualcuno doveva pensarci una decina di anni fa, quando pilotò l’acquisto di Antonveneta per l’astronomica cifra di 9 miliardi che era come dar da mangiare un cinghiale a un bambino. E poi pretendere che lo digerisse a forza di Alka Seltzer. Infatti il bambino senese dopo anni di ricovero e aumenti di capitale ha alzato bandiera bianca ed è stato salvato dallo Stato. Mussari e altri manager del gruppo sono accusati di ostacolo alle funzioni di vigilanza (condanna in primo grado a tre anni e sei mesi a Siena), falso in bilancio e aggiotaggio. Male che vada (dal punto di vista economico) l’avvocato ha una moglie che sa gestire molto bene, e far guadagnare, i suoi hotel senesi. E paga puntualmente le rate dei prestiti erogati da Mps.

Su al Nord

La batosta giudiziaria più pesante ha colpito il self made banker Giovanni Berneschi (79), l’impiegato della Carige diventato amministratore delegato e poi presidente. L’hanno beccato con le mani nel sacco, cioè a truffare la sua banca e ha conosciuto anche il carcere. Da anni si sapeva delle manovre spericolate e illecite sulle compagnie di assicurazioni che hanno zavorrato il gruppo. MaBerneschi ha tenuto sotto controllo interi consigli di amministrazione, salendo al vertice dell’Abi, come vicepresidente. E adesso? L’assemblea di Banca Carige ha appena approvato l’azione di responsabilità anche contro di lui. E lo scorso 22 febbraio Berneschi è stato condannato a 8 anni di reclusione con la confisca di beni per 26 milioni. Ha una ricca pensione (200 mila euro solo di Inps, più il fondo integrativo della banca) e conta sull’appello, anche perché non è tipo da golf o bridge.

Chi ormai sembra essersi smarcato da un passato (2005) fatto di spericolate scalate (Antonveneta), soldi in nero a Singapore e baci in fronte al governatore della Banca d’Italia, è Gianpiero Fiorani (57) ex numero uno della Popolare Lodi. Un eclettico. Passato dagli austeri uffici di Antonio Fazio alle goderecce ville sarde di Lele Mora. Da banchiere si è arricchito illecitamente ai danni della banca, ha commesso reati, ha confessato molto, ha fatto mesi di carcere e di servizi sociali, ha patteggiato, risarcito la banca con 34 milioni. E oggi affianca l’imprenditore ligure Gabriele Volpi, padrone dello Spezia Calcio e della Pro Recco di pallanuoto, nella riorganizzazione delle attività di logistica petrolifera in Nigeria. La sua famiglia ha investito in immobili, nelle energie rinnovabili (con alterne fortune) in un ristorante a Bologna in via D’Azeglio e in un grande negozio a Lodi di specialità alimentari di lusso («E.Vent, la vida y el gusto»).

Siamo in tema, parliamo di vino: Zonin Gianni (79). Se si fosse occupato per 35 anni esclusivamente delle sue vigne, di vendemmie e barrique, invece che dedicarsi a fare anche il banchiere, avrebbe fatto un favore ai 120 mila soci «azzerati» della Banca Popolare di Vicenza. L’inchiesta della procura di Vicenza per aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza avanza alla velocità di un bradipo zoppo, ma ciononostante ha procurato a Zonin la seccatura di un interrogatorio di 5 ore in due anni. La banca intanto ha chiesto 2 miliardi di risarcimento all’ex presidente e agli ex consiglieri. Ma molti di loro, compreso Zonin, hanno già svuotato il portafoglio delle proprietà. Se mai un giorno l’ufficiale giudiziario gli presenterà il conto, qualche euro di moneta forse lo troverà.

Mutui tossici

Alla fine resta il vecchio Fred. Il Goodwin che nonostante il promettente cognome tra il 2001 e il 2009 affossò la Royal Bank of Scotland (perdite per decine di miliardi di sterline) speculando sui mutui e trascinandola in un’assurda politica di acquisizioni. Il simpatico «Fred the Shred», tagliatore di posti di lavoro altrui. Finché non gli hanno tagliato il titolo di Sir e dimezzato la pensione annua di 703 mila sterline. Resta sempre un bel vivere per coltivare il suo costoso hobby: restaurare auto d’epoca. Dopo il licenziamento ha lavorato in un grande studio di architettura di Edimburgo. Per dire come gira la ruota: ieri (2002) Forbes lo indicava come «Businessman of the year» e un anno dopo si fregiò del titolo di «European banker of the year». Oggi molti lo ritengono il peggior banchiere della storia. Domani chissà, tutto è in mano agli architetti di Edimburgo.

Incroci

Divagazione finale. Chi c’era a fianco di Gnutti e Colaninno nella scalata ostile a Telecom del 1999? Lehman Brothers. E chi entrò nelle holding della cordata? Mps e Popolare Lodi oltre a Stefano Ricucci. Fu Fiorani con gli amici bresciani, carichi di soldi per la vendita di Telecom a Pirelli, a tentare la scalata di Banca Antonveneta. Con l’appoggio ufficiale della Carige di Berneschi che finanziava Ricucci. Intervenne la Procura di Milano e la scalata fallì. Ma chi conquistò alla fine la banca padovana? Gli olandesi di Abn Amro. E chi poi comprò Abn Amro? Una grossa fetta finì alla Royal Bank of Scotland di Fred Goodwin mentre Antonveneta passava al Santander. Finché un giorno Emilio Botin non trovò i polli di Siena guidati da Mussari cui rivenderla per 9 miliardi. Non ci sarà una logica, ma una scia di jella forse sì.

Siria chimica: Erode si è fermato Idlib

«È stato Assad!» gridano tutti. Come se il mondo (e ancora di più la Siria) potesse essere il tavolo banale su cui giocano i buoni contro i cattivi, come se poi non ci fossero anche i morti di Mosul, come se lo Yemen invece fosse solo la cloaca dei morti di serie b oppure come se la fabbricazione di armi non sia un ricco banchetto tutto occidentale.

Nell’ordine di qualche ora la colpa dei bambini gasati è stata affibiata a Assad, ai ribelli, a Obama (da Trump), all’ONU, a Putin, più qualche manciata di scenari apocalittici dei complottisti rossobruni più affilati. Tutti alla ricerca di un nemico unico che sia riconoscibile, facile e banalmente tranquillizzante.

Molti con le risposte, pochi con le domande. Francesco Vignarca, ad esempio, scrive: «La parte preponderante di colpa per i terribili attacchi chimici avvenuti in Siria è in chi ha lanciato tali ordigni. Ma non è secondaria nemmeno la colpa di chi ha fabbricato, trasportato, autorizzato tali armi. E vale per qualsiasi armamento, in ogni guerra. Troppo facile pensare che i “cattivi” siano solo quelli dell’ultimo pezzettino del viaggio tra l’ideatore di un’arma e la vittima finale…». Già, chi ha ” fabbricato, trasportato, autorizzato tali armi”? Tornando indietro nel tempo, chi ha appoggiato festante le “primavere arabe”?

 

(continua su Left)

L’inettitudine, del resto, agita la paura

(da il manifesto, 29 novembre 2016)

Siamo alle ultime cartucce della lunghissima campagna elettorale referendaria. Considerati i suoi scarsi argomenti di merito, lo schieramento del Sì fa affidamento su un terrorismo psicologico sulla paura del dopo, in particolare per le sorti economiche del paese. La strategia renziana, ispirata dai suoi consulenti americani – per la verità fin qui assai poco efficaci – punta a fare leva sulle tasche di quei cittadini che non le hanno del tutto vuote. Il suo target è quella che Renzi ha definito la «maggioranza silenziosa».

Del resto che il referendum si vinca a destra è sempre stata una sua convinzione. E non solo sua, visto la generosa mano d’aiuto che riceve da vari endorsement – last but non the least, quello dell’Ocse – e da molteplici e ben mirate campagne giornalistiche internazionali.

Il Financial Times è tornato a gamba tesa sull’argomento, profetizzando il fallimento di ben otto banche in caso di sconfitta del Sì. The Daily Telegraph insiste sul ridicolo argomento di un pericolo dell’uscita dell’Italia dall’euro. Sulla stessa linea si posiziona The Sunday Times Business. FigarEconomie racconta dell’inquietudine dei mercati finanziari, comparando la Brexit alla possibile vittoria del No. Nei pastoni economici nostrani si aggiunge anche il temuto fallimento dell’imminente vertice di Vienna sui tagli alla produzione petrolifera. Non c’entra ma fa gioco.

In realtà nulla di tutto ciò ha un qualche fondamento reale.

Certamente i mercati finanziari non resteranno immobili come statue di sale a fronte degli esiti del voto italiano. Ma non è certo quest’ultimo a determinare grandi sommovimenti. Lo aveva già detto la stessa Standard&Poor’s, lo ribadiscono gli analisti di Goldman Sachs affermando che, come sanno tutti gli operatori del settore, il «rischio» referendum è già stato introiettato, cioè «prezzato», per evitare scossoni nei prossimi giorni. È altrove che bisogna guardare per comprendere cosa accade veramente nei mercati finanziari.

La vittoria di Donald Trump, ad esempio, ha scatenato uno dei più grandi trasferimenti tra attività finanziarie della storia, con lo spostamento di circa 500 miliardi didollari in 48 ore dalle obbligazioni verso il comparto azionario mandando i paradiso Wall Street.

E buona parte di quei capitali sono stati disinvestiti dall’Europa – a cominciare dai paesi meno promettenti come il nostro – per raggiungere le sponde d’oltreatlantico.

L’ala protettrice del prolungamento del quantitative easing di Draghi avrà il suo da fare.

Lo stesso Wolfgang Munchau riaggiusta il tiro rispetto a qualche giorno fa e invita i governanti europei (lo sguardo è rivolto ai prossimi appuntamenti elettorali in Austria, in Francia, in Olanda e in Germania) a risolvere i problemi di un sistema finanziario fuori controllo, anziché «insultare gli elettori».

Il Financial Times fa il nome delle otto banche italiane a rischio, e ovviamente si tratta di quelle già notoriamente in grave difficoltà. Rispetto alle quali tanto gli organismi di vigilanza, quanto il governo hanno più che pesanti responsabilità. Sintomatica la vicenda del Monte dei Paschi di Siena, ove emerge l’avventurismo spregiudicato di Renzi. Il suo mancato salvataggio potrebbe, questo sì, provocare contagi nell’intero sistema europeo. Ma per paura di reazioni da parte dei risparmiatori sul modello di quelle viste in occasione dell’intervento su Banca Etruria e le altre tre sorelle di sventura, il Presidente del Consiglio ha preferito la soluzione privata. Consigliato – rivelano fonti bene informate – da Vittorio Grilli, ex ministro di Monti e ora dirigente europeo di JP Morgan, sulla base di assicurazioni ricevute in prima persona da Jamie Dimon, Ceo del colosso bancario Usa, nonché possibile segretario al Tesoro con Trump. Da lì è nata la macchinosa operazione in tandem fra JP Morgan e Mediobanca.

Eppure Soros glielo aveva detto: per vincere il referendum devi prima risolvere il problema bancario, ma Renzi ha capito il contrario. E ora sono dolori. Ma la colpa non è del No.

Le mafie e le responsabilità delle banche

Mi capita di parlarne spesso. La lettera del magistrato Marco Patarnello mi pare che centri perfettamente il punto:

«Caro direttore,

l’opinione pubblica sembra stanca di interventi in favore delle banche e ci chiediamo perché. La deflagrazione che il fallimento di una banca, magari dell’importanza di Mps, creerebbe nel tessuto economico costringe lo Stato ad un intervento. Ma quale? Faccio il magistrato al Tribunale di Roma e ho dedicato gli ultimi tre anni della mia vita professionale alle misure di prevenzione patrimoniali: sequestro e confisca di patrimoni mafiosi o costruiti illecitamente, un’attività svolta mettendo sotto la lente di ingrandimento gli ultimi venti o trent’anni di vita imprenditoriale, economica, lecita e illecita di malavitosi, corrotti e criminali. Patrimoni di decine o centinaia di milioni di euro accumulati illecitamente.

In ognuno di questi processi abbiamo sempre trovato un grosso mutuo, un finanziamento o un prestito concesso da istituti bancari. Prestiti spesso concessi in evidente malafede, senza le garanzie minime, in situazioni in cui nessun cittadino “normale” avrebbe avuto accesso al credito. Con la conseguenza che spesso il Tribunale esclude tali crediti delle banche dal novero di quelli che devono essere soddisfatti con il denaro confiscato ai malavitosi. Una mole di attività bancaria svolta chiaramente facendo affari spregiudicati, prestando denaro a chi non dava nessuna garanzia, se non quella di entrate illecite. Negando, invece, i prestiti a chi non aveva garanzie fantasmagoriche, come ha potuto constatare chiunque, da persona comune, abbia chiesto un finanziamento o un mutuo in questi anni. E, si badi, questo non da parte delle sole banche di serie B o di provincia.

Non sono in condizione di fare un’analisi statistica o completa, ma poche banche mi sono parse estranee a questo modo spregiudicato e rischioso di fare impresa. Ora che la situazione economica è più difficile si scopre che i crediti di molte banche sono in sofferenza, non sono garantiti e si prende in considerazione di risolvere il grave pericolo insito nel fallimento di queste imprese mettendo denaro pubblico. Quando si guadagna ci si ricorda di essere un’impresa, quando si perde si socializzano le perdite. Non può funzionare così. Il fallimento di una banca è senza dubbio un rischio grosso per l’economia di un territorio o anche dell’intero paese, se la banca è grande. È ragionevole impedire che ciò accada. Ma non a qualsiasi costo e non regalando, sostanzialmente, il denaro ad un’impresa, anche se si trattasse di denaro dell’Europa o parzialmente dello stesso sistema bancario. Perché il patto sociale regga, investire denaro pubblico non può essere un regalo. Se una banca non ce la fa con le sue forze si nazionalizza, si risana e si rivende. Questo ha un senso per la collettività. E non è una bestemmia anticapitalista e antimoderna più di quanto non lo sia regalare denaro pubblico ad un imprenditore, che per di più ha dimostrato di farne cattivo uso.»

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*In magistratura dal 1989, è stato vicesegretario del Csm. Ora si occupa al Tribunale di Roma di misure di prevenzione antimafia, sequestro e confisca di patrimoni illeciti.