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Il sottosegretario dei migliori

Fanpage in una sua inchiesta che (c’è da scommetterci) difficilmente passerà nei telegiornali nazionali racconta la transizione politica dell’attuale sottosegretario all’Economia Claudio Durigon, uno dei fedelissimi di Salvini (e infatti per niente amato dalla Lega vecchia maniera). Ve lo ricordate Matteo Salvini quando tutto fiero presentava i suoi uomini nel governo Draghi? «Questo è il governo dei migliori?» gli chiese una giornalista e lui rispose «certo questi sono gli uomini migliori della Lega».

Bene, eccolo il migliore: come racconta benissimo Fanpage, Durigon è uno che avrebbe gonfiato i dati degli iscritti del sindacato Ugl di cui era dirigente, riuscendo a dichiarare 1 milione e 900mila iscritti mentre erano (forse) 70mila. Sapete che significa? Che stiamo continuando a parlare di una rappresentatività dopata che non esiste nella realtà (questo anche a proposito del nostro Buongiorno di ieri sulla sparizione del salario minimo dal Pnrr, su cui torneremo). Durigon da sindacalista ha avuto piena gestione sulla cassa da cui potrebbero essere passati i movimenti che la Lega non era libera di fare per quella storia dei suoi 49 milioni di euro. Durigon ha fatto prostituire un sindacato (pompato) alla Lega per ottenere qualche candidatura. Poi ci sono le amicizie che sfiorano certa criminalità organizzata nel Lazio (ma i lettori più attenti lo sapevano da tempo che certi clan hanno fatto campagna elettorale nel Lazio per Lega e Fratelli d’Italia) e infine c’è quella registrazione vergognosa in cui Durigon tutto sornione confida di non avere nessuna preoccupazione sulle indagini sui soldi della Lega perché il generale della Guardia di Finanza che se ne occupa è un uomo che hanno “nominato” loro: «Quello che fa le indagini sulla Lega lo abbiamo messo noi»

Tutto grave, tutto gravissimo. Tra l’altro fa estremamente schifo anche questo atteggiamento di politici con il pelo sullo stomaco che ancora si atteggiano come i peggiori politici socialisti, i peggiori unti democristiani che sventolavano il potere come se fosse un mantello, per piacere e per piacersi. Fa schifo questa esibizione dello scambio di favori. Fa schifo tutto.

Fa schifo anche Salvini che ieri alla Camera ha risposto ai rappresentanti del M5s che sottolineavano l’inopportunità di un tizio del genere come sottosegretario mettendosi a parlare di Grillo. Il solito gioco da cretini di buttare la palla in tribuna. Il solito Salvini. Se posso permettermi è parecchio spiacevole anche il composto silenzio del Pd che vorrebbe rivendere il poco coraggio come diplomazia. Siamo alle solite.

C’è però anche un altro punto sostanziale: della vicinanza tra Durigon e uomini della criminalità organizzata durante la sua campagna elettorale ne avevano scritto un mese fa Giovanni Tizian e Nello Trocchia su Domani, degli intrecci mafiosi su Latina ne scrivono da anni dei bravi giornalisti chiamati con superficialità “locali” e che invece trattano temi di importanza nazionale. Sembra che non se ne sia mai accorto nessuno e questo la dice lunga sulla percezione che in questo Paese si continua ad avere della criminalità organizzata. Anche questo fa piuttosto schifo.

Buon venerdì.

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Mamma schiava, cucina e lava

A Matera il Consiglio comunale ha deciso di tagliare pesantemente le risorse destinate ai servizi di mensa scolastica ed asili nido: una scelta in netta controtendenza con quello che accade nel resto d’Italia e un po’ dappertutto in giro per il mondo. Ma l’aspetto più inquietante della vicenda sta nelle parole del consigliere comunale Michele Paterino, promotore dell’emendamento di bilancio che è stato osteggiato perfino dalla presidente della Commissione Bilancio, Adriana Violetto: «La gran parte delle madri che fruiscono del servizio sono casalinghe», ha detto Paterino e quindi, a suo dire, possono occuparsi dei figli.

Come fa giustamente notare la segretaria di Filcams Cgil Matera, Marcella Conese: «A parte le svariate riflessioni sulle motivazioni che hanno determinato l’assise comunale a prendere questa decisione e sulla idea inquietante di società che traspare dalle dichiarazioni del consigliere che ha presentato l’emendamento, in cui le donne devono stare a casa a curare bambini e mariti, sfugge un fatto inequivocabile ed oggettivo: la riduzione delle risorse determinerà una riduzione di posti di lavoro (occupati prevalentemente da donne) sia nella mensa scolastica che negli asili nido».

Il consigliere Paterino è l’esempio perfetto di politici (più o meno importanti) che continuano a non rendersi conto (o che non vogliono rendersi conto) che occorre rendere universali servizi che troppo spesso vengono intesi come individuali e che si intrecciano con la condizione femminile: sono moltissime le donne costrette a rinunciare al lavoro proprio perché non esistono servizi di sostegno all’infanzia o perché sono troppo costosi. Poi, volendo, si potrebbe anche discutere del fatto che siano le donne a doversi occupare di questo per una gran parte del pensiero generale. Ma su questo c’è ancora molto da lavorare.

Poi c’è un trucco che viene spesso usato e che vale la pena notare: i servizi vengono rivenduti come “privilegi” concessi dalla politica, con la continua pretesa che i cittadini siano addirittura “grati” per ciò che invece gli spetta. Anzi: la politica è lì proprio per quello. Ed è un gioco sottile che trasforma i diritti in privilegi ed è pericolosissimo. Per questo va combattuto con forza.

Qualcuno dica al consigliere Paterino che è riuscito nella mirabile impresa di essere la sintesi di tutto quello che non ci piace. Bravissimo, complimenti.

Buon venerdì.

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L’Egitto, Regeni e le bugie di Guerini

«In seguito all’omicidio di Regeni la Difesa, in completa sintonia e raccordo con le altre amministrazioni dello Stato, in primis con il ministero per gli Affari esteri e la cooperazione internazionale, ha prontamente diradato il complesso delle relazioni bilaterali con l’omologo comparto egiziano»: sono le parole del ministro alla Difesa Lorenzo Guerini alla commissione d’inchiesta parlamentare sulla morte di Giulio Regeni, pronunciate lo scorso 28 luglio. In fondo, se ci pensate bene, è la posizione di tutti i governi che provano a fare passare l’idea di un raffreddamento dei rapporti con al-Sisi (che sarebbe il minimo, visto quello che è accaduto).

Peccato che sia falso. Il bravissimo giornalista Antonio Mazzeo mette in fila tutto ciò che è accaduto tra Italia e Egitto dopo la morte di Regeni ed è un elenco che fa spavento e che grida vendetta. Una vergogna.

Nel 2016, l’anno della morte di Regeni, la Polizia italiana ha addestrato in diversi centri i poliziotti di al-Sisi oltre a spedire in Egitto un migliaio di computer e di apparecchi.

Nel gennaio 2018 l’Italia spediva in Egitto 4 elicotteri AugustaWestland già in uso alla Polizia di Stato e il ministero dell’Interno cofinanziava al Cairo un progetto di “formazione nel settore del controllo delle frontiere e della gestione dei flussi migratori”.

Dal 13 al 16 novembre 2017, una delegazione del Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto ha fatto visita ufficiale per incontrare la Guardia costiera egiziana.

Il Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto si è recato nuovamente in visita ad Alessandria d’Egitto dal 25 al 27 giugno 2018. Alcuni giorni dopo la conclusione della visita ufficiale in Egitto, l’allora ministra della Difesa, Elisabetta Trenta (M5s), s’incontrava a Roma con l’Ambasciatore della Repubblica araba d’Egitto, Hisham Mohamed Moustafa Badr. «L’Italia reputa l’Egitto un partner ineludibile nel Mediterraneo, affinché quest’area raggiunga un assetto stabile, pacifico e libero dalla presenza terroristica», dichiarava la ministra.

Il 13 agosto 2018 era la nuova fregata multimissione (Fremm) “Carlo Margottini” della Marina militare a recarsi ad Alessandria d’Egitto per svolgere con la Marina egiziana “un breve ma intenso addestramento, che ha permesso al personale delle due fregate di misurarsi in un contesto multinazionale”.

La prima delle due fregata multimissione ordinate dall’Egitto è stata consegnata a fine dicembre 2020 dopo due mesi di intense attività addestrative dei militari egiziani a La Spezia, condotte dal personale della Marina italiana e Fincantieri.

Il 22 novembre 2018 una delegazione della Forza aerea egiziana, accompagnata da rappresentanti del gruppo militare-industriale Leonardo S.p.a., si recava in visita al 61° Stormo e alla Scuola internazionale di volo con sede nell’aeroporto di Galatina (Lecce).

«Italia ed Egitto hanno completato nel 2019 un programma congiunto per l’individuazione degli effetti dell’esposizione alle radiazioni in caso di un’emergenza nucleare e delle contro-misure e dei trattamenti che possono essere predisposti», rivela un recentissimo dossier dello Science for peace and security programme della Nato.

A Roma dal 25 al 27 maggio 2016 si è tenuto un meeting in ambito nucleare-chimico-batteriologico tra Italia e Egitto tenuto segreto e rivelato da un dossier della Nato.

Questi sono gli incontri ufficiali, poi ci sono i soldi di cui abbiamo scritto. E poi volendo c’è anche il giochetto squallido sull’ambasciatore italiano: si minaccia di ritirarlo, poi sì, poi no.

Ora, vedendo tutti questi episodi (e sono quelli conosciuti) messi uno dopo l’altro davvero vi pare che siano rapporti “freddi”? Davvero nessuno ha un dito da alzare sulle parole di Guerini?

Buon venerdì.

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Eccoli “i migliori”

Cosa hanno fatto e detto in passato alcuni ministri del nuovo esecutivo guidato da Mario Draghi, il cosiddetto governo dei migliori

Renato Brunetta in un Paese normale, in un Paese capace di esercitare il muscolo della memoria almeno per qualche anno, sarebbe considerato un politico “finito”, uno di quelli che incassa con dignità le sue sconfitte e silenziosamente si ritira a fare altro. In Forza Italia, nella Forza Italia che si è sgretolata in questi ultimi anni, lui ha mantenuto invece la qualità politica che più conta da quelle parti, la fedeltà al capo e ad esserne lo scherano e così ce lo ritroviamo estratto dal cilindro. Brunetta fu già ministro nel terzo governo Berlusconi, proprio alla Pubblica amministrazione, ve lo ricordate? Fu quello che si presentò additando come «fannulloni» i dipendenti pubblici (e se ci fate caso quel vento sta tornando di moda, bravissimo Draghi a fiutarlo, chapeau) e pensò bene di installare dei tornelli negli uffici (voleva metterli anche nei tribunali) per risolvere il problema dell’assenteismo. Capite vero? Il governo dei migliori che dovrebbe farci dimenticare i banchi con le rotelle ha ripescato dal cassetto dei giocattoli rotti il ministro dei tornelli. Fu il Brunetta che si scagliava contro i magistrati che «lavorano due e tre giorni alla settimana» (ma per difendere Berlusconi bisogna per forza odiare i magistrati) e che aveva definito alcuni poliziotti dei «panzoni passacarte». La sua riforma che avrebbe dovuto rivoluzionare la pubblica amministrazione non ha cambiato nulla, nulla. In compenso Brunetta fu quello che accusava le donne di usare «gli ammortizzatori sociali per fare la spesa» e che, tanto per farsi un’idea dello spessore culturale, disse: «Esiste in Italia un culturame parassitario vissuto di risorse pubbliche che sputa sentenze contro il proprio Pae­se ed è quello che si vede in que­sti giorni alla Mostra del Cine­ma di Venezia». Un migliore, senza dubbio.

Mariastella Gelmini fu la ministra all’Istruzione che per quelli della nostra generazione ha lasciato come ricordo le macchie di un incubo. Tanto per stare sui numeri: un taglio in tre anni di 81.120 cattedre e 44.500 Ata (il personale non docente). È la sforbiciata complessiva di 125.620 posti dal 2009 al 2011 che avrebbe dovuto far risparmiare all’Erario poco più di otto miliardi di euro. Otto miliardi e 13 milioni, per la precisione, stima il Tesoro nel «Def 2011». Parte di queste risorse, il 30%, servivano a recuperare gli scatti stipendiali bloccati nel luglio 2010 da Giulio Tremonti. Da buona efficiantista non sognava una scuola migliore ma ambiva a tagliare “gli sprechi”. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di fronte ai tagli alla ricerca, era però dovuto intervenire a gamba tesa nel 2009 invitando la ministra a «rivedere alcuni tagli indiscriminati». Delle donne disse che sono delle «privilegiate» se scelgono di assentarsi dal lavoro dopo la gravidanza. Nel 2009 pensò anche a un tetto del 30%, per ridurre il numero degli stranieri in classe. Una migliore, applausi.

Erika Stefani è ministra alle disabilità. Già il fatto che per le disabilità venga messo in piedi un ministero senza sapere e senza capire che il tema attraversi tutte le competenze ha la forma di un’elemosina, lo ha spiegato benissimo Iacopo Melio in questo articolo per Repubblica, ma uno si aspetterebbe che in quel ministero lì ci sia una persona empatica, inclusiva, con testa e cuore larghi. Erika Stefani è stata ministra con il primo governo Conte ma se la ricorda solo Wikipedia. Fino a qualche giorno fa aveva come copertina della sua pagina Facebook la sua foto in Parlamento mentre strillava con un cartello “No ius soli”. Era una di quelli che proponevano le gabbie salariali ovvero «alzare gli stipendi al Nord e abbassarli al centro-Sud». Una migliore, complimenti.

Poi c’è Giorgetti, sempre della Lega, come Stefani. Giorgetti è in Parlamento dal 1996 e ha il grande “pregio” di aver sempre seguito i potenti, passando indenne da Bossi a Maroni fino a Salvini. Parla poco perché quando parla dice cose che rimangono impresse a fuoco come quella volta che disse che i medici di famiglia non servono più. Infatti nella sua Lombardia i medici di famiglia sono stati disarticolati e la Covid ha preso piede con grande libertà. Un capolavoro. Giorgetti è uno di quelli stimati perché non parlano mai e rischiano di sembrare intelligenti, come Guerini nel Pd, sempre pronti ad attaccarsi alle braghe del potente giusto per risultare pontieri mentre invece sono solo camerieri. Giorgetti era uno di quelli che ci spiegò che i mercati europei attaccavano la Lega perché «i mercati sono popolati da affamati fondi speculativi che scelgono le loro prede e agiscono», disse proprio così. Ora è europeista. Che migliore, davvero.

Questo è solo un assaggio. Nei prossimi giorni li raccontiamo per bene tutti. Evviva i migliori. Evviva.

Buon lunedì.

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Avanzi di Gallera

La Lombardia in zona rossa sulla base di dati sbagliati inviati all’Istituto superiore di sanità dalla Regione stessa. Fontana e Moratti scaricano le colpe sul governo. Dopo l’addio dell’ex assessore al Welfare, bisogna fare i conti con ciò che ha lasciato: il suo presidente, la sua sostituta e un Ente ormai completamente allo sbando

In Lombardia non bisogna mai correre il rischio di pensare che peggio di così non potrebbe andare perché ci si imbatte sempre in una delusione cocente, in quella terribile sensazione per cui gli uomini al governo della Lombardia (quelli che Salvini e compagnia cantante ci porgono tutti i giorni come alti esempi di ottima amministrazione) riescono sempre a toccare il fondo, poi scavare, poi scavare e poi scavare ancora.

Facciamo un salto indietro: il 17 gennaio la Lombardia è una delle poche regioni che viene indicata come “zona rossa”, ovvero una regione ad alto rischio di contagio dove devono essere prese misure molto stringenti che impattano enormemente sulla vita dei suoi cittadini e delle sue attività economiche. Badate bene: la decisione del governo viene presa sulla base dei dati che Fontana, Letizia Moratti e i tecnici regionali mandano regolarmente al ministero. I dati dalla regione sono stati consegnati il 13 gennaio e infatti non è un caso che se sfogliate i giornali di quei giorni potrete incrociare un Fontana contritissimo che avvisa tutti che si finirà in zona rossa e che bisogna stare attenti. Poi, per il solito gioco della propaganda e del rimpiattino con il governo, accade che Fontana si dica costernato e stupito della decisione del governo. In sostanza si è stupito di quello che egli stesso pensava fino a poche ore prima. E già fin qui la vicenda rasenta una tragica irresponsabilità. Fontana fa ricorso al Tar. Letizia Moratti si lancia a dire: «La Lombardia non merita la zona rossa. Indubbiamente il rischio per la regione è di fermarsi, di fermare il lavoro, le attività e la vita sociale. Per questo con il presidente Fontana abbiamo ritenuto di voler presentare un ricorso, per uscire dalla zona rossa».

Attenzione al capolavoro. Il 20 gennaio la Regione Lombardia invia nuovi dati e sono molto diversi rispetto ai dati precedenti. In sostanza si smentiscono. E si scopre che la Lombardia sulla base dei nuovi numeri avrebbe dovuto essere zona arancione. Il ministero della Salute spiega molto chiaramente che a falsare il calcolo dell’Rt sono stati numeri parziali inviati dalla Regione. In base all’aggiornamento del 20 gennaio, i casi sintomatici che hanno sviluppato dei sintomi – cioè un dato fondamentale per calcolare l’Rt – fra il 15 e  il 30 dicembre non erano più 14.180 come segnalato il 13 gennaio, bensì 4.918, quasi tre volte di meno. In Lombardia, dopo avere fatto la figura di quelli che non sanno nemmeno fare da conto, si scatenano. Fontana dice: «A Roma devono smetterla di calunniare la Lombardia per coprire le proprie mancanze», Moratti rincalza dicendo: «Nessuna rettifica, a seguito di un approfondimento relativo all’algoritmo dell’Iss, abbiamo inviato la rivalorizzazione dei dati». Rivalorizzare un numero significa averlo sbagliato, l’elegante Moratti però lo dice con una perifrasi che vorrebbe nascondere l’errore.

All’Istituto Superiore della Sanità rispondono chiaramente: «L’algoritmo è corretto, da aprile non è mai cambiato ed è uguale per tutte le Regioni che lo hanno utilizzato finora senza alcun problema – scrive l’Iss -. Questo algoritmo e le modalità di calcolo dell’Rt sono state spiegate in dettaglio a tutti i referenti regionali perché lo potessero calcolare e potessero verificare da soli le stime che noi produciamo, ed è perciò accessibile a tutti». In sostanza: siete voi che non sapete fare i calcoli. È anzi l’Iss a sottolineare come l’anomalia sia stata fatta notare più volte a Regione Lombardia.

Salvini chiede le dimissioni dei responsabili. In sostanza sta chiedendo le dimissioni del suo presidente Fontana, quindi. Roba da teatro dell’assurdo. Secondo alcune stime il danno per i circa 10mila negozianti costretti a chiudere domenica 17 gennaio sono stati di circa 485 milioni di euro solo a Milano tra abbigliamento e pubblici esercizi secondo Confcommercio. Immaginate i totali di tutta la regione. E in più ci sono le scuole, le persone. Roba gravissima.

Ecco, se pensavate che l’addio di Gallera fosse una buona notizia non avete fatto i conti con gli avanzi che Gallera ha lasciato: il suo presidente, la sua sostituta e una Regione ormai completamente allo sbando. In sostanza questi hanno ricorso al Tar contro se stessi. E ora fanno i pesci in barile scaricando le colpe sul governo. Ah, a proposito: come ultima dichiarazione ieri Fontana ha detto che «forse non è colpa di nessuno».

Bravi, bene, bis.

Buon lunedì.

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Dora

Ricoverata per un’operazione all’anca. Contagiata all’interno della clinica. Dimessa per errore come negativa al Covid. Morta e abbandonata in un deposito del cimitero in mezzo ai sacchi della spazzatura. È accaduto a Monopoli. Ora la famiglia di Teodora Scarafino chiede giustizia

«Io quest’anno non ho voglia di festeggiare niente, l’idea di passare le feste senza mia mamma è lacerante. Ho dovuto a malincuore preparare l’albero per mia figlia ma voglio solo che quest’anno passi il più velocemente possibile, il più silenziosamente possibile». Non trattiene la commozione Roberto Leoci mentre racconta a Left la drammatica storia di sua mamma Teodora Scarafino, per tutti Dora, che è uno delle migliaia di lutti che attraversano il Paese in quest’epoca di pandemia ma che assume i contorni di un enorme schiaffo in pieno viso per come si sono svolti i fatti.

Dora era il perno della famiglia, sempre attiva, sempre dedicata alle cure di suo marito, dei suoi figli e dei suoi nipoti. La sua cucina era sempre in movimento per ospitare qualcuno a pranzo o a cena, lei che la domenica andava in campagna per raccogliere ciliegie e i capperi e gli asparagi e preparare quelle cene di famiglia che tenevano insieme quattordici persone.

«Non era una presenza: era la presenza», dice il figlio. E proprio per essere in forma in occasione delle feste che arrivavano Dora aveva deciso di farsi operare all’anca, «avremmo anche potuto ritardare» dice Roberto. E invece il 7 settembre la signora Scarafino viene ricoverata nella clinica Mater Dei di Bari per un’operazione che avrebbe dovuto essere di routine. «Effettua il tampone in ingresso, negativo, – racconta il figlio – va tutto bene e dopo tre giorni viene trasferita nel reparto di riabilitazione motoria per iniziare il suo percorso di recupero». Anche in questo caso tutto procede nella norma, arriviamo ai primi di ottobre: «Era il 2 o 3 ottobre e ci sentiamo telefonicamente poiché le visite erano proibite dalle norme anti Covid. Mia madre mi racconta, un po’ preoccupata, che la sua vicina di letto, in stanza con lei, lamenta tosse, febbre e dolori vari».

I quattro figli di Dora si preoccupano, durante la prima ondata del virus a marzo l’hanno tutelata con molta attenzione. «Comincia a fare dei ragionamenti non suoi, sragionava, ad esempio mi chiedeva se mio padre fosse rientrato dal lavoro eppure mio padre è in pensione da anni». I figli chiedono informazioni a medici e infermieri ma non ottengono risposte, vengono sommariamente rassicurati, gli dicono che non c’è nessun problema e che la febbre della compagna di stanza è una semplice influenza, probabilmente dovuta a un colpo di freddo.

Il 5 ottobre la signora Dora comunica ai figli che alla vicina di letto è stato fatto il tampone, una risonanza e i raggi ai polmoni. «Aumenta ovviamente la preoccupazione – racconta il figlio al nostro settimanale – ma dalla clinica la risposta è sempre la stessa: state tranquilli. La signora continua a rimanere in camera con mia madre. Addirittura il giorno successivo, il 6 ottobre, me la passa al telefono e quella mi saluta, “tranquillo tranquillo” mi dice mia mamma»·

Quello stesso giorno, nel pomeriggio, tutto precipita: «Nostra madre ci chiamava e ci dice che l’hanno spostata in un’altra camera, con tutte le sue cose, il suo letto, il suo armadietto, i suoi vestiti, che non le permettono nemmeno di affacciarsi sul corridoio dell’ospedale, che si sente reclusa. Io e mio fratello partiamo subito, cerchiamo di parlare con vari medici, non ci fanno entrare e riusciamo solo a metterci in contatto con una dottoressa che ci dice che l’ex compagna di stanza di nostra madre non è positiva al tampone e di stare tranquilli. Addirittura prende nostra mamma dalla stanza dov’era e la fa affacciare dalla finestra. Mia madre continua a sragionare, in quell’occasione disse a me e a mio fratello di “fare i bravi con i medici” perché la stavano trattando bene».

I due fratelli tornano a casa, a Monopoli, in attesa del risultato del tampone. Quella sera stessa leggono alcune notizie di un focolaio di Covid proprio nella clinica Mater Dei di Bari. La mattina dopo si rimettono in macchina e ripartono, riescono a parlare con il direttore sanitario della struttura che li rassicura, ancora, conferma che ci sono casi di positivi nel reparto ma dice di non preoccuparsi. Alle 15 arriva l’esito del tampone: negativo. «Diciamo a mia mamma di firmare le dimissioni, anche perché erano cinque giorni che non faceva più riabilitazione e non aveva senso rischiare. Arriviamo in ospedale e in tre minuti fanno uscire nostra madre al freddo, in pigiama, con la sua valigia. In auto non stava bene: tossiva, aveva dolori e difficoltà respiratorie». Ma era negativa, nessuno si preoccupa. Due ore dopo la clinica richiama e dice che c’è stato un errore: avevano scambiato il tampone di ingresso con quello di uscita, la signora Dora è positiva. I figli non possono credere di ritrovarsi in una situazione del genere: chiamano il 113, scrivono all’Asl, alla Regione Puglia, decine di mail, nessuna risposta. Solo il medico di base prescrive una cura.

Il 14 ottobre la donna viene portata via in ambulanza. Tutta la famiglia si mette in isolamento, una figlia viene ricoverata per Covid. Dora viene portata in terapia intensiva dove il suo ultimo calvario finisce con la morte: «Un percorso in ospedale di tre settimane che l’ha portata alla morte – racconta il figlio – ma l’ultimo schiaffo doveva ancora arrivare. Il giorno 9 novembre ci restituiscono il corpo e la bara viene trasportata in un ufficio del cimitero di Monopoli adibito a deposito. La bara di mia madre la ritroviamo in mezzo a sacchi della spazzatura, ossari, lettighe per le tumulazioni. Veniamo addirittura minacciati da chi avrebbe dovuto prendersi cura di quel luogo. Noi siamo andati completamente fuori di testa, ho scoperto lati di me che non conoscevo, vedere il corpo di mia madre in quelle condizioni mi ha ferito perfino di più di quella clinica che l’ha uccisa». Ora la famiglia di Dora sta preparando le denunce mentre i responsabili del cimitero si sono sommariamente scusati con un articolo su un giornale locale e il direttore della clinica Mater Dei ha parlato di un “errore fatto in buona fede”.

«L’ultima volta che l’ho sentita – racconta Roberto – prima che entrasse in terapia intensiva le ho detto che qui tutti, i suoi figli e i suoi nipoti, le volevamo un gran bene e lei senza rendersi conto che era un addio mi ha detto “sono vostra madre, è normale che mi vogliate bene”». Ora i figli di Dora chiedono di ottenere, dopo il dolore, un po’ di giustizia.

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Toh, hanno scoperto la Libia

Da destra accusano Conte di aver fatto troppo poco per i pescatori trattenuti in Libia, dove vengono violati i diritti umani. Ma come, a loro avviso il Paese non era un “porto sicuro”?

«Subito dopo sono stato picchiato dai militari libici, che mi hanno dato schiaffi, calci, ginocchiate. E mi minacciavano di tagliarmi la gola. E le gambe. È stato terribile. Ho avuto paura di non rivedere più la mia famiglia. È stato un incubo durato più di tre mesi». Sono le parole di Bernardo Salvo, uno dei 18 pescatori sequestrati e liberati in Libia. Anche la famiglia di Salvo ha capito guardando le prime fotografie giunte in Italia dopo il sequestro: «Fino ad oggi non abbiamo detto nulla – spiega il cognato Vito – il momento era delicato, ma in quelle immagini si vedono chiaramente il viso gonfio e un braccio nero. Ora vogliamo sapere cos’è successo».

«Abbiamo visto dei detenuti picchiati selvaggiamente», ha dichiarato Jemmali Farhat, uno dei due pescatori tunisini a bordo dei mezzi sequestrati.

«Ci hanno trattati malissimo, non ci picchiavano ma minacciavano di farlo – ha confermato nel suo racconto uno dei due pescatori senegalesi sequestrati -. Gridavano, ci facevano mettere con la faccia al muro. É stato un incubo. Ci facevano fare pipì in una bottiglia».

In tutte le celle che hanno ospitato i marinai non c’era un materasso o un cuscino. I 18 pescatori reclusi, è emerso tra le altre cose nei vari racconti, hanno dormito per terra sul pavimento: «Ho visto film di guerra sul Vietnam, ma quello che ho visto in Libia è stato incredibile – ha aggiunto il tunisino Jemmali Farhat – gli agenti erano peggiori degli animali, sono loro i terroristi, altro che i detenuti».

Cominciano a uscire informazioni su cosa sia la Libia, su come siano valutati lì i diritti umani e una certa stampa e una certa politica grida allo scandalo accusando Conte di non avere difeso i pescatori. Peccato che siano gli stessi che per anni ci hanno detto che la Libia sia un porto sicuro.

E quindi? Come la mettiamo? Hanno scoperto cos’è la Libia. Anzi, peggio, hanno invertito la narrazione perché gli torna comodo. Bravi, tutti.

Buon martedì.

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Coprifuoco, Conte scarica la responsabilità sui sindaci, poi ci ripensa: chi decide la chiusura delle piazze?

Partiamo da un punto fermo: la situazione è difficile, mancano spesso i mezzi e gli uomini e ha fallito un po’ dappertutto la programmazione. Il gioco delle responsabilità è piuttosto complesso: le Regioni spesso non hanno mantenuto le promesse e si sono sottrate alle loro responsabilità, una certa leggerezza è stata pericolosamente sventolata da illustri medici e da opinionisti oltre che da leader dell’opposizione e la mediazione per qualsiasi provvedimento è sempre più difficile, ognuno con le sue priorità e tutto è in bilico tra il salvare i redditi e l’economia e preservare la salute.

Il governo Conte non si ritrova sicuramente in una situazione facile e i cittadini non sono più disposti, come accadeva a marzo, ad ascoltare buoni buoni le raccomandazioni del presidente del Consiglio come si ascolta un buon padre di famiglia. Pretendono risposte, chiarimenti, dati, numeri, analisi. Se si decide di bloccare un’attività rispetto a un’altra forse sarebbe il caso di sapere (e spiegare) il reale impatto che ha nella diffusione del virus, altrimenti resta la sensazione che tutto sia affidato a un esperimento continuo, come se questi mesi non ci avessero insegnato niente.

Però ieri Conte nella sua conferenza stampa ha compiuto un errore che è sintomatico del clima di incertezza, parlando chiaramente di “responsabilità dei sindaci” nel chiudere vie o piazze che potrebbero essere occasione di assembramento. Il proposito in sé ha le sue ragioni, sentiamo da anni ripetere che gli amministratori locali sono tutti bravi, efficienti, conoscono il territorio e chi meglio di loro potrebbe avere contezza di ciò che accade nelle loro città. Ma se decidi di responsabilizzare i sindaci e gli chiedi di farlo senza dare i mezzi diventa tutto molto complicato.

Solo per fare un esempio: per chiudere una piazza con cinque vie d’accesso (lo faceva notare ieri anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori) servono almeno dieci agenti. 10 agenti per una piazza. Chi li ha? Dice Conte che bisogna concedere l’accesso ai residenti e ai clienti degli esercizi commerciali: chi controlla? A Palazzo Chigi si sono accorti dell’errore e il riferimento ai sindaci sparisce dal Dpcm. Bene, sorge quindi subito l’altra domanda? Chi se ne deve occupare? Il Prefetto? Le Regioni? Chi? E poi si torna al punto di partenza: chiunque sia a doversene occupare con quali uomini e con quali mezzi? Il “federalismo delle responsabilità” che apre questo Decreto rischia di aumentare la confusione, ancora di più. E “decidere di lasciare decidere” alimenta ancora di più il caos.

Leggi anche: 1. Nuovo Dpcm, tutte le misure: cosa si può fare e cosa no da oggi / 2. La svolta del premier Conte: “Non voglio sentir parlare di lockdown” / 3. Crisanti: “Lockdown prima di Natale. Ero stato troppo ottimista”

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L’articolo proviene da TPI.it qui

«Essere antifascisti oggi significa essere contro il razzismo»

Se n’è andata Carla Nespolo, la presidente dell’Anpi e donna coraggiosa e forte. Ma Carla Nespolo ci ha lasciato una lezione che va tenuta bene a mente, va mantenuta in tasca ogni mattina a quando ci si sveglia e ci si alza per andare in giro per il mondo: essere antifascisti oggi è molto di più del fare memoria, significa esercitare memoria e adattarla ai tempi che sono e allargarla ai nuovi pericoli che avanzano.

«Essere antifascisti oggi significa essere contro il razzismo, contro chi approfitta anche della crisi sociale per far regredire politicamente, culturalmente, moralmente il nostro Paese», disse Carla Nespolo e qui dentro c’è tutta la battaglia che non bisogna avere paura di combattere. C’è in atto da tempo un vile giochetto, appoggiato anche da sedicenti liberali di un sedicente centrosinistra, di incasellare i vizi del fascismo e i suoi orrori in tempi storici che vengono considerati passati. C’è qualcuno anche dalle parti del presunto centrosinistra che insiste nel negare che essere antifascisti oggi significhi combattere i nuovi razzismi che hanno assunto nuove forme.

A proposito di lezioni. C’è un’altro punto da tenere bene in mente che Carla ci ha lasciato: in tutti i suoi interventi la presidente dell’Anpi ribadiva con forza che la Costituzione italiana non sia “afascista ma antifascista” e che quindi sia un obbligo costituzionale essere contro i fascismi, alla faccia dei tanti che non “sono né di destra né di sinistra” (che alla fine sono sempre di destra) e che vorrebbero elevarsi culturalmente facendo gli equidistanti.

Un ultimo punto: Carla Nespolo notava spesso, lo faceva in pubblico e in privato, quanto i sovranismi di matrice fascista fossero stati bravi a crearsi una rete internazionale e a essere in collegamento tra loro e quanto invece gli antifascisti fossero molto più distratti nel percepire e nel mettere in rete le esperienze degli altri. Un’internazionale antifascista, anche a livello europeo, è un progetto politico che urge da anni e di cui si parla pochissimo.

Insomma Carla ci ha insegnato che la memoria si esercita, mica ci si può ridurre a commemorarla. Se quelli che in questi ore mandano messaggi di affettato cordoglio vogliono rimboccarsi le maniche c’è parecchio da fare: il suo manifesto è chiaro.

Buon martedì.

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