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Lamorgese peggio di Salvini, il Pd scelga: Travaglio o accoglienza?

Tenetevi forte perché manca poco al ritorno dello spettro dei migranti clandestini, degli sbarchi sconsiderati e di tutta quell’orrenda narrazione contro le Ong nel Mediterraneo lasciato sguarnito in modo criminale dall’Europa. E preparatevi perché se è vero che conosciamo già perfettamente alcuni personaggi in commedia, a partire da quel Salvini che già da qualche giorno è tornato sull’argomento per provare a frenare lo scontento tra quei suoi elettori affamati di cattivismo e ancora di più incattiviti dalla pandemia, e a ruota ovviamente Giorgia Meloni per occupare quello spazio politico, soprattutto tornerà alle origini quel Movimento 5 Stelle che si è ammantato di solidarietà per incastrarsi nel secondo governo Conte ma che ora è pronto al ritorno delle sue radici peggiori.

La tromba della carica l’ha suonata ovviamente Marco Travaglio in uno dei suoi editoriali che sostituiscono da soli le assemblee di partito e che ha usato tutto l’armamentario del razzismo con il colletto bianco per puntare il dito contro le Ong, per irridere le “anime belle” (che per Travaglio sono la categoria di tutti quelli che non la pensano come lui ma che non possono essere manganellati con qualche indagine trovata in giro) e mischiando come al solito le accuse con le sentenze, gli indagati con i colpevoli, le ipotesi dei magistrati come “fatti” e gli stantii pregiudizi come acute analisi. Così la chiusura delle indagini della procura di Trapani per un presunto reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel caso Iuventa basta al suggeritore dei grillini per richiamare tutti alle armi: picchiamo sui migranti, bastoniamo le Ong e chissà che non si riesca spremere qualche voto anche da qui.

E fa niente che sia dimostrato dai dati (e da anni) che “gli angeli delle Ong” (come li chiama Travaglio per mungere un po’ dalla vecchia accusa di “buonismo”) non “attirano e incoraggiano il traffico di esseri umani”: Travaglio trova terribilmente sospetto che delle organizzazioni dedite al soccorso in uno spicchio di mare conoscano perfettamente quel mare e i luoghi dei naufragi. La competenza del resto da quelle parti è vista con diffidente apprensione. Ma agli osservatori più attenti, quelli che semplicemente non si sono fatti infinocchiare dallo storytelling del Conte bis, forse non sarà sfuggito che Di Maio sia proprio quel Di Maio che discettava allegramente delle Ong come “taxi del mare” quando c’era da accarezzare l’alleato Salvini e Giuseppe Conte sia proprio quel Giuseppe Conte, nessuna omonimia, che partecipava allegramente alla televendita dei Decreti Sicurezza che andarono alla grande durante la stagione della Paura.

Ovviamente nessuna parola sull’omesso soccorso in violazione del Diritto internazionale del Mare che è un crimine di cui il governo italiano e l’Europa si macchiano almeno dal lontano 2014 quando il governo Renzi decise di stoppare l’operazione Mare Nostrum della nostra Marina militare e niente di niente su quella Libia (e qui invece ci sono tutte le prove e tutte le condanne per farci una decina di numeri di giornale) che è un enorme campo di concentramento a forma di Stato, così amico del governo italiano. Ma la domanda vera è chissà cosa ne pensa il Pd, questo Pd che ci promette tutti i giorni che domattina si risveglierà più umano e attento ai diritti e che è sempre pronto (giustamente) per opporsi sul tema a Salvini ma che è stato così terribilmente distratto con i tanti Salvini travestiti che ci sono qui intorno.

Il Pd che ci ha indicato come “punto di riferimento riformista” il presidente del Consiglio che fece di Salvini il più splendente Salvini, il Pd che ancora fatica a riconoscere le responsabilità del “suo” ministro Minniti, il Pd che con il precedente governo prometteva “un cambio di passo” sui diritti dei migranti fermandosi solo alla sua declamazione, mentre la ministra dell’Interno del Conte bis, lo racconta il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, bloccava contemporaneamente ben sette barche delle Ong tra il 9 ottobre e il 21 dicembre 2020 riuscendo a fare meglio perfino di Salvini, rispettando in tutto e per tutto la linea d’azione del leader leghista stando con la semplice differenza di non rivendicarla sui social insieme a pranzi e gattini.

Se il nuovo Pd di Letta vuole recuperare credibilità forse è il caso che ci dica parole chiare su questa irrefrenabile inclinazione dei suoi irrinunciabili alleati perché alla fine Salvini rischia di risultare onestamente feroce in mezzo a tutti questi feroci malamente travestiti.

L’articolo Lamorgese peggio di Salvini, il Pd scelga: Travaglio o accoglienza? proviene da Il Riformista.

Fonte

Perquisita la solidarietà

La storia di Lorena e Gian Andrea va raccontata, contiene un monito che interessa tutti. A Trieste hanno un’associazione che aiuta i profughi della rotta balcanica. La polizia ha fatto irruzione nella loro casa alla ricerca di prove per un’imputazione di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina

A Trieste il 24 ottobre scorso l’estrema destra è scesa in piazza in diverse fazioni, piazza Libertà, si sono anche menati perché come si sa i fascisti hanno solo quel modo di comunicare e di esprimere idee politiche. Va così. Quando ha cominciato a circolare la notizia di perquisizioni in città ieri qualcuno avrà immaginato che finalmente si fosse deciso di prendere posizione contro l’apologia di fascismo, che finalmente si muovesse qualcosa, ma niente.

L’irruzione all’alba, nel perfetto stile con cui si stanano i latitanti più pericolosi, è avvenuta nell’abitazione di Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir. Lorena ha 68 anni, è psicoterapeuta e vive con il marito Gian Andrea che di anni ne ha 84 ed è un professore di filosofia in pensione. Nel 2015 hanno attivato un piccolo presidio medico appena fuori dalla stazione per offrire un primo aiuto ai ragazzi che passavano il confine con la Croazia e che hanno piedi malconci e corpi segnati dalle torture. I due coniugi viaggiano anche spesso verso la Bosnia con scarpe, coperte, vestiti e medicinali per provare a lenire il terrore e il dolore. Per questo insieme ad altri hanno costituito l’associazione Linea d’Ombra ODV.

La loro nota racconta l’accaduto: «Questa mattina all’alba la polizia ha fatto irruzione nell’abitazione privata di Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, nonché sede dell’associazione Linea d’Ombra ODV. Sono stati sequestrati i telefoni personali, oltre ai libri contabili dell’associazione e diversi altri materiali, alla ricerca di prove per un’imputazione di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina che noi contestiamo, perché utilizzata in modo strumentale per colpire la solidarietà».

E se ci pensate non è la prima volta che la solidarietà (o il buonismo, come lo chiamano alcuni) accenda indifferenza se non addirittura malfidenza. Tant’è che ogni volta che qualcuno compie un gesto “buono” senza nessun evidente ritorno economico o di altro tipo viene subito additato come “pericoloso”. La solidarietà che diventa “reato” o presunto reato è un crinale pericoloso. Per questo la storia di Lorena e Gian Andrea va raccontata: perché così piccola contiene un (preoccupante) monito che interessa a tutti.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Liliana Segre è una farfalla appoggiata sul filo spinato

(Ho avuto l’onore di scrivere la prefazione di un libro di Liliana Segre, “Scegliete sempre la vita – La mia storia raccontata ai ragazzi”, Edizioni Casagrande, e oggi ho pensato che forse fosse il caso di appoggiarne l’inizio qui, perché Liliana Segre è una persona che dobbiamo coltivare con cura, perché ieri ha festeggiato il suo compleanno sotto scorta e perché la memoria è un muscolo che va allenato con cura)

Liliana Segre è una farfalla appoggiata sul filo spinato e per questo è preziosa, è un fiore da preservare con cura e dovrebbe essere un gioiello non solo per i contenuti ma anche per i modi, per la visione d’insieme e per l’insegnamento di “cura del nostro tempo” che da anni impartisce in mezzo ai ragazzi. È anche un personaggio pubblico profondamente normale che ci costringe a riflettere sul ruolo dei testimoni in un tempo in cui tutto si fa spettacolo, tutto diventa tifo organizzato e tutto viene smisuratamente impugnato come clava per diventare arma bianca contro l’avversario politico di turno. Leggendo queste sue parole ai ragazzi, parole talmente lucide e misurate da sembrare un testo scritto recitato a memoria e non il contrario, ci si accorge di un’ecologia lessicale oltre che intellettuale a cui siamo completamente disabituati e che è il modus da cui ripartire per fronteggiare lo sbiadimento di un periodo storico che non ha a che vedere solo con il passato ma è l’antidoto a un presente che si ripresenta con altre facce, con un’alta capacità di simulazione e con punte ammorbidite degli stessi becchi che hanno portato una bambina, che era Liliana ma erano milioni di persone allo stesso modo, ad essere colpevole di essere nata.

Ciò che colpisce, innanzitutto, di Liliana Segre è la delicatezza che non si è fatta inquinare da ciò che ha vissuto: è la sua lezione più grande, quella che sarebbe da smontare per osservarne i meccanismi e i bulloni e capire come sia possibile rimanere ferocemente umani in questo tempo in cui riflettere sulla sentimentalità della vita (ovvero di come la vita sia spesso una questione di pressioni che la Storia sembra volere mettere nel cassetto delle cose passate e concluse) viene considerato un segno di debolezza. Liliana Segre è la prova vivente che ci sono purezze di sguardo e saldezza di valori (che ultimamente vengono chiamati in senso dispregiativo “buonismo”) che riescono ancora a essere le fondamenta su cui costruire uno sguardo diverso del presente e del futuro. Lei bambina, lei separata dal padre, la sua speranza di fuga che si infrange contro i calcoli sbagliati di chi sperava di salvarsi sono la metafora di un mondo in cui il “diritto a salvarsi” sembra ormai essere solo una concessione da dare a determinate categorie umane come se non esistesse un’unica razza umana.

Buon venerdì.

*-*

Per approfondire:

Liliana Segre, il futuro della memoria, Left dell’11 settembre 2020

La forza di Liliana Segre, Left del 15 novembre 2019

Liliana for President, Left del 7 giugno 2019

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Se il “buonismo” diventa una “smania”

Si sta parlando molto in queste ore (giustamente) dell’editoriale di ieri di Massimo Gramellini per il Corriere della Sera. Nel suo caffè mattutino (evidentemente indigesto a molti) il giornalista (con il solito stucchevole paternalismo dei benpensanti che riescono a proferire cretinate facendoti credere che siano lezioni di vita) ci tiene a farci sapere la sua sulla cooperante italiana rapita in Kenya, Silvia Romano.

Scrive Gramellini:

«Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto».

Nell’attacco, in poche righe, Gramellini riesce a imborghesire e rendere edibile la cloaca che in questi giorni è stata rovesciata addosso alla giovane italiana: c’è la smania d’altruismo (che altro non è che il buonismo radical chic camuffato con un lessico più composto e imborghesito per di più descritto come facile per i ventenni, colpevoli di essere entusiasti e sognatori), c’è il prima gli italiani (nascosto maluccio nella pietistica immagine della mensa della Caritas usata come sciabola), c’è il se l’è andata a cercare (che è tutto nell’immagine della foresta nera, quando invece avrebbe potuto restare a casa sua) e lo spauracchio del riscatto per alimentare un po’ di risentimento generalizzato.

Ma il tema, attenzione, non è il pezzo di Gramellini (che preso dalle sue smanie di giornalismo ha poi chiarito di leggersi tutto il pezzo e non solo l’attacco, esattamente la parte in cui ci spiega che, passata la paura se tutto finirà per il meglio, Silvia Romano meriti una bella ramanzina e in cui scrive che sono schifosi gli attacchi che sta subendo dagli odiatori seriali) quanto il rischio, concreto, di interiorizzare la ferocia generalizzata senza smontarla come meriterebbe. Continuiamo a essere il Paese in cui Enzo Baldoni era solo un riccone che cercava vacanze adrenaliniche, quello in cui Greta e Vanessa erano due ragazze che si sono sollazzate con i loro sequestratori, quello in cui la solidarietà è un vezzo da buonisti. E nessuno che dica forte e chiaro che la bile contro Silvia Romano dimostra plasticamente come il problema non sia nemmeno aiutarli a casa loro ma rivendicare il diritto di farsi ognuno i fatti propri. Così il Paese si riempie di persone che in nome dell’emergenza decidono di occuparsi di spazi sempre più stretti: persone che sono tranquille perché la propria città è tranquilla e a culo tutto il resto, gente a cui basta che sia tranquillo il quartiere, persone che curano la salubrità al massimo del proprio pianerottolo nel condominio, persone che curano la sopravvivenza delle proprie cose. Diritto all’egoismo che chiamano sovranismo. E che ieri si sono sentite protette anche dall’editoriale di Gramellini (che mica per niente è stato rilanciato a gran voce dalla Santanché e dallo spin doctor di Salvini, solo per fare due esempi).

In tempo di ferocia l’ecologia (anche) delle parole è una responsabilità. Ancora di più.

Buon venerdì.

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La dose giornaliera di rabbia e quegli sputi su una madre

“Ma come si fa”

“Non merita di avere figli”

“Basta buonismo…un bimbo di 16 mesi che aveva tutto il diritto di vivere la propria vita non c’è più…Questa povera creatura chissà quanto avrà pianto prima di spegnersi piano piano…chissà quanto ha sofferto…non esiste dimenticarsi il proprio figlio in macchina…in questi casi dico solo una cosa: ERGASTOLO!!!”

“Chi si dovrebbe vergognare e l’assassina in prima persona. Non meritava di essere madre”

“Era talmente persa tra le sue cose che la bimba era l’ultimo suo pensiero”

“Nessuno vi prega di mettere figli al mondo se poi non riuscite ad occuparvene”

“La (scritto così, senza “h” nda) voluto lei secondo me se aveva un appuntamento dal parrucchiere non se lo dimenticava”

E qualcuno commenta: “brava, l’ho pensato anch’io, magari parlava al telefono”

“Sì magari la signora non si distraeva se non era a bere un caffè con il collega”

Sono solo alcuni dei commenti che sono piovuti dal “tribunale dell’uomo qualunque su facebook” su Ilaria Naldini, la madre che ad Arezzo ha perso la figlia piccola soffocata nella sua auto lasciata sotto al sole. Il tribunale del popolo ha vomitato i suoi insulti: gente che prima di andare a dormire, dopo una giornata di lavoro ha pensato bene di utilizzare un lutto e un dolore come anti stress alla propria giornata. Hanno messo a letto i loro di figli, dato il bacio della buonanotte alla moglie e poi hanno pensato di passare per un secondo sul cadavere di una bambina e sulla ferita di una madre per sputare un po’ di veleno prima di spegnere tutto e mettersi a dormire.

Una dose giornaliera di rabbia e sangue nel moderno Colosseo dei social dove nessuno ti chiede il conto del giudizio di pancia (o anche un po’ più giù) sparato a palle incatenate. A posto così: anche oggi la dose quotidiana di rabbia è stata ingerita. E migliaia di persone continuano a credere che sia un buon sciroppo contro le proprie piccole o grandi disperazioni quotidiane.

 

(continua su Left)

Il cattivismo e il nuovo peccato di “senso di colpa”

cattivismo

“Non ci farete venire i sensi di colpa” (un distinto signore rivolto a un funzionario dell’ufficio immigrazione del ministero dell’interno).

Assisto, inquieto e tuttavia ammirato, al trionfo finale del Cattivismo. Ma cosa intendo con questo termine? Il Cattivismo nasce come rovesciamento materiale di un presunto sentimento trasformato in una retorica che si vorrebbe dominante: il Buonismo.

Dico materiale perché all’origine si tratta semplicemente di una sorta di declamazione della fermezza: mezzi forti e metodi spicci in contrapposizione a mezzi considerati “molli” e a metodi ritenuti inconcludenti, che sarebbero connotati qualificanti del Buonismo.

Dopodiché, quest’ultimo – criticato e stigmatizzato per ogni dove e assurto al rango di vizio capitale della sinistra – si è rivelato per quel che era: un’invenzione di comodo, utilizzata come ingiuria politica, per squalificare valori e programmi osteggiati dalla destra.

Di conseguenza, quell’invenzione di comodo ha rappresentato il bersaglio ideale in un ambiente sociale e in un clima ideologico segnato da ansie collettive e da paure sotterranee. Ansie e paure che pretendevano di essere sedate non con formule ispirate a una fragrante solidarietà e alle buone virtù sociali di una volta, bensì con strategie aggressive e maschie. Ed è andata proprio così.

Il Buonismo si è rivelato qualcosa di simile al vapore acqueo o, al massimo, un residuo evocativo di sparute minoranze religiose e/o comunistiche. Ma dietro al paravento di questa offensiva antisolidaristica e antivirtuosa, si è affermato un pesante apparato repressivo.

Se solo si osservano con un minimo di attenzione le normative in materia di immigrazione, di rom e sinti, di istituti penitenziari e ospedali psichiatrici giudiziari e più in generale quelle relative alle marginalità e alle povertà, si vedrà che l’insieme di provvedimenti di legge e di ordinanze municipali, di misure per l’ordine pubblico e di politiche per le minoranze risulta connotato da un orientamento sostanzialmente di controllo, di esclusione e di discriminazione. In altre altre parole, è il Cattivismo che domina non solo nel governo del disordine sociale, ma anche nel senso comune diffuso.

Il Buonismo, ridotto a quel che è sempre stato – una esile espressione retorica, propria di piccoli gruppi – è in rotta. Dunque, ecco il fiero affermarsi del crudelismo sociale e ideologico. Ed esso, come avviene in tutte le rivoluzioni vittoriose, aspira a prolungarsi e a riprodursi nella forma di una egemonia ideologica e fin morale.

Un racconto per anime belle

Dunque, il Cattivismo, diffusosi largamente, e diventato bandiera e promessa del nuovo potere, ambisce ad assumere i tratti di un vero e proprio sistema di valori. E a dotarsi di una sua base morale.

Ciò può accadere perché la nostra società ha conosciuto profonde trasformazioni. L’imporsi della cultura dell’individualismo come egotismo autosufficiente ha reso friabili le grandi idee, quali uguaglianza e giustizia, le ha espunte dal sistema dei diritti e delle garanzie, le ha ridotte a manifestazioni di sentimentalismo.

In questo scenario, sembra che quei concetti abbiano perso qualunque fondamento razionale e qualunque riferimento all’utilitarismo sociale, per assumere la forma, evanescente e impalpabile, di espressioni umorali e, nel migliore dei casi, di categorie dello spirito.

In un simile quadro, solo il Cattivismo è apparso come concreto, efficace e utile. E il Buonismo è risultato un racconto per anime belle. Poco importa che la verifica scientifica della remuneratività del Cattivismo riveli tutta la fallacia di quella strategia e proprio rispetto ai fini che dice di perseguire.

La vita sociale sembra involvere in una spirale avvitata su se stessa e in un progressivo accorciamento della misura dei rapporti di comunità

Un esempio solo: esiste in Europa un solo stratega militare o un polemologo o un ingegnere navale o, accontentiamoci, un marinaio che confermi l’utilità di “bombardare i barconi”, “attuare il blocco navale”, “affondare scafi e scafisti”? In altri termini, il crudelismo sociale e ideologico si rivela un’utopia regressiva e fosca (espellere i rom? Ma se, al 52 per cento, sono cittadini italiani!).

E, tuttavia, quel processo di torva regressione non si arresta. La vita sociale sembra involvere in una spirale avvitata su se stessa e in un progressivo accorciamento della misura dei rapporti di comunità: così che la “dimensione umana” si restringe vieppiù, fino a coincidere con quella del nucleo familiare.

Non è più solo la crisi dell’universalismo: è, piuttosto, la manifestazione ultima ed estrema di quella stessa crisi. E non è nemmeno più l’esaltazione della società liquida: in suo luogo, si delinea una società di “nicchie”, compartimentate e, nelle aspirazioni , autosufficienti e indipendenti.

Ne discende che non regge più alcuna solidarietà più lunga del perimetro della propria abitazione privata. Lo stesso localismo – metro politico di misura degli ultimi due decenni – risulta troppo “largo”: imporre una qualsivoglia integrazione comunitaria è un’impresa ardua da realizzare in un tempo di così acuta crisi sociale e di così esasperata frammentazione.

È in questo quadro che il senso di responsabilità – come reciproco farsi carico dell’altro – rovina. Io mi faccio carico di me stesso, dei miei cari e, al più, dei miei simili più simili. Il legame sociale, fondamento di ogni comunità organizzata, si riduce al vincolo familiare e, eventualmente, a quello di famiglia estesa e di parentela allargata.

La sequenza successiva è fatale: se non mi assumo responsabilità per quanti si trovano al di fuori di questa cerchia ristretta e saldamente presidiata, non proverò senso di colpa per la mancata assunzione di responsabilità. Tutto qui. La cancellazione del senso di colpa ha questa origine e segue questa dinamica.

Una interpretazione frettolosa, sulla scorta di letture superficiali potrebbe considerarlo un progresso, ovvero il segno di una acquisita maturità. Ma, se nella sfera della psiche individuale il superamento del complesso di colpa può rappresentare l’emancipazione da un pesante apparato di ansie e fobie di punizione, nella vita sociale e nelle comunità organizzate il sottrarsi al senso di colpa corrisponde irreparabilmente a una dichiarazione di irresponsabilità. Dunque, a una fuga senza fine.

Il giornalismo impastato con la merda

falsa-notizia-il_MaleQuindi si scopre che un sito web “d’informazione” è stato denunciato per avere scritto clamorose bufale sugli immigrati. Ne scrivono un po’ tutti oggi (un link a caso qui) ma in pochi sembrano accorgersi che il giovane proprietario del sito (anzi, il “giovane italiano bianco denunciato”, come si scriverebbe lui stesso) si difende dicendo di essersi inventato patetiche iperboli sullo strapotere degli extracomunitari per fare numeri più alti.

In pratica, per logica: oggi impastare l’immigrato con la merda rende popolare una notizia. E non solo, anche un segretario di partito come Salvini, a pensarci bene. Nessuno pensa ad un paese affamato di nemici perché soggiogato dalla paura servita con spaventosa costanza e chirurgicamente dosata un po’ dappertutto.

E io ho più paura dei lettori che condividevano le bufale piuttosto che del gestore del sito.  Perché quelli sono più di uno, anzi più di tre, tu pensa se esistesse il reato di associazione al cattivismo.

Buonismo, cattivismo e senso di colpa

Siccome di buoni e di buonismi ce ne stiamo occupando da un po’ mi sembra giusto segnalare l’intervento (brillante come sempre) di Luigi Manconi:

Un esempio solo: esiste in Europa un solo stratega militare o un polemologo o un ingegnere navale o, accontentiamoci, un marinaio che confermi l’utilità di “bombardare i barconi”, “attuare il blocco navale”, “affondare scafi e scafisti”? In altri termini, il crudelismo sociale e ideologico si rivela un’utopia regressiva e fosca (espellere i rom? Ma se, al 52 per cento, sono cittadini italiani!).

E, tuttavia, quel processo di torva regressione non si arresta. La vita sociale sembra involvere in una spirale avvitata su se stessa e in un progressivo accorciamento della misura dei rapporti di comunità: così che la “dimensione umana” si restringe vieppiù, fino a coincidere con quella del nucleo familiare.

Non è più solo la crisi dell’universalismo: è, piuttosto, la manifestazione ultima ed estrema di quella stessa crisi. E non è nemmeno più l’esaltazione della società liquida: in suo luogo, si delinea una società di “nicchie”, compartimentate e, nelle aspirazioni , autosufficienti e indipendenti.

Ne discende che non regge più alcuna solidarietà più lunga del perimetro della propria abitazione privata. Lo stesso localismo – metro politico di misura degli ultimi due decenni – risulta troppo “largo”: imporre una qualsivoglia integrazione comunitaria è un’impresa ardua da realizzare in un tempo di così acuta crisi sociale e di così esasperata frammentazione.

È in questo quadro che il senso di responsabilità – come reciproco farsi carico dell’altro – rovina. Io mi faccio carico di me stesso, dei miei cari e, al più, dei miei simili più simili. Il legame sociale, fondamento di ogni comunità organizzata, si riduce al vincolo familiare e, eventualmente, a quello di famiglia estesa e di parentela allargata.

La sequenza successiva è fatale: se non mi assumo responsabilità per quanti si trovano al di fuori di questa cerchia ristretta e saldamente presidiata, non proverò senso di colpa per la mancata assunzione di responsabilità. Tutto qui. La cancellazione del senso di colpa ha questa origine e segue questa dinamica.

L’articolo è qui.

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