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campo progressista

E se il 18 giugno a sinistra nascesse un’alleanza non solo “di cartello”?

Ogni giorno un cambio di casacca, un mito utile, un nuovo leader straniero da qualche parte del mondo qualsiasi per provare a risvegliare una fascinazione nutrita solo dall’emotività del protagonista. Nel giro di qualche giorno sono stati prima tutti Macron, poi tutti Corbyn e poi di nuovo Macron così come la destra italiana si è appesa nei mesi scorsi a Trump (prima di pentirsene) o alla Le Pen (prima di prenderne le distanze per il pessimo risultato elettorale). Così anche le analisi e gli scenari sembrano più figli di un’emotività corta piuttosto che di ideali o progetti dallo sguardo lungo: siamo passati dal patto del Nazareno tra Pd e Berlusconi (che anche qualcuno dai democratici cominciava a dare per scontato e che ha scatenato le ire addirittura del garbato Romano Prodi) fino a una presunta alleanza (meglio: un tentativo di alleanza) tra il Pd e Giuliano Pisapia.
A sinistra, intanto, l’appuntamento per il 18 giugno (a Roma, teatro Brancaccio, dalle ore 9.30) che nasce dall’appello di Anna Falcone e Tomaso Montanari e sembra avere raccolto l’iniziale disponibilità di un ampio fronte che parte da Rifondazione comunista passando per Sinistra italiana, Possibile, Mdp e diversi comitati civici sparsi sul territorio suggerendo l’inizio di un percorso che, nel caso in cui si realizzasse, sarebbe una buona notizia per la sinistra italiana troppo spesso arroccata e divisa. Se davvero si riuscirà a creare una condivisione di idee e di programmi senza infangarsi su leadership e cattivi propositi di preservazione del ceto politico fallimentare, il 18 giugno potrebbe essere il primo passo di un’alleanza non solo di “cartello”. Del resto le ultime elezioni amministrative hanno dimostrato che quando la sinistra (a sinistra del Pd) riesce a raggiungere un’unità credibile può raggiungere risultati davvero importanti.

Ma come sarà il futuro? Difficile dirlo. Certo Giuliano Pisapia e il suo Campo progressista (che dicono di voler presentare addirittura un simbolo e un programma per la loro convention del primo luglio) dovrà decidere se insistere nel tentare di modificare la natura renziana del Pd (perdendo così contatto con chi, a sinistra, ritiene il Partito democratico non più potabile) oppure se dedicarsi al progetto che vuole essere alternativo al renzismo e alle politiche di questi ultimi anni.

L’articolo di Giulio Cavalli prosegue su Left in edicola


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La moda del “non partito”. Ora anche Pisapia.

Ne scrive bene Silvia Bianchi per Gli stati Generali che in riferimento alle frasi di Giuliano Pisapia (che dice che un partito “sarebbe contrario al mio modo” e poi “i partiti oggi non hanno quell’appeal, secondo i sondaggi hanno un livello di fiducia del 3%“):

Schifare la “forma partito” è molto di moda, da Mani Pulite in avanti: non lo era quello di Berlusconi; non lo è il M5S; persino i fuoriusciti del Pd, frammenti del suo organigramma, si definiscono pudicamente “Movimento” (anche se, per ora, l’unico movimento percettibile è lo spostamento dei parlamentari da un punto all’altro degli emicicli di Camera e Senato). Ma ammantarsi dell’aura del “civismo” può diventare un trucco per nascondere la polvere dei dissensi sotto al tappeto, per camuffare una macchina elettorale messa al servizio di un autoproclamato leader e dei suoi cooptati o per ingentilire un’ammucchiata di ceto politico in cerca di seggi parlamentari.

Spero che i tanti che – a dire di Pisapia – si stanno avvicinando con entusiasmo al Campo Progressistasiano consapevoli di questi rischi e che qualcuno intenda mettere il problema sul tavolo. Certamente la costruzione di un partito è un lavoro lungo, poco affascinante e complicato, soprattutto se il tempo a disposizione è poco (anche per questo sarebbe meglio che le fasi fondative non avvenissero in vista delle elezioni…); ma è l’unico modo per garantire che le idee di ciascuno abbiano una chance democratica di affermarsi.

(l’articolo è qui)

L’unità solo professata e l’alibi della complessità

Non so se ne rendano conto, là a sinistra di quel che resta del Partito Democratico, di come appaia qui fuori il can can del movimento apparente di queste ultime settimane. Non so soprattutto se qualche sprovveduto possa sinceramente sperare che il Paese reale, quello che prende di rincorsa la coincidenza pendolare ogni mattina, abbia il tempo e la voglia di studiare ogni posizionamento tattico di ciò che avviene nel quadro politico del Paese.

In un’Italia storicamente bipolare scissa tra i filo governativi e quegli altri (e, ultimamente con l’aggiunta di quelli “contro tutti”, poi volendo essere ottimisti ancora tra destra e sinistra) il frastagliamento partitico e parlamentare ingenera una confusione pericolosamente funzionale. A sinistra, per esempio, i fuoriusciti da PD (sotto l’immediata sigla di “Articolo 1 – Movimento Democratico e Progressista”) ci tengono a dirci che sono contrari alle politiche renziane (che hanno tutti votato), di ritenere il PD un partito irredimibile (altrimenti ovviamente se la sarebbero giocata al congresso, verrebbe da dire) ma di volere sostenere il governo Gentiloni (che di Renzi è la naturale prosecuzione) dimenticandosi di dirci esattamente cosa farebbero loro e come. E, che a loro piaccia o no, la sensazione è che si siano seduti in un angolo in attesa della caduta dell’ex presidente del consiglio in posizione di concorso esterno congressoso.

Ieri Giuliano Pisapia (capo putativo di un movimento putativo come ‘Campo Progressista’) ci ha tenuto a dirci ancora una volta che il suo non sarà un partito (secondo la solita formula dell’antipolitica ma in salsa raffinata e borghese) ma che la sua missione sarà “federare”. Chi con chi, oltre a se stesso, rimane un mistero.

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Non c’è che dire: un successone il ritorno in campo di Pisapia, eh.

Ne scrive Nicola Corda per Huffington Post:

“Io voglio bene a Giuliano ma quest’operazione non ha prospettive”. Tutti formalmente stimano l’ex sindaco di Milano Pisapia ma il rilancio di un rassemblement della sinistra in dialogo con il Pd di Matteo Renzi non riscuote troppi entusiasmi. Solo i sindaci chiamati in causa (già coinvolti nelle prossime iniziative) come il bolognese Virginio Merola e il cagliaritano Massimo Zedda, mettono il segno positivo al progetto di rimettere insieme i pezzi di un centrosinistra che attraversa una fase delicata e contempla il futuro di più partiti.

“D’accordo sulla necessità di ricostruire un campo progressista partendo dai giovani ed è importante che Giuliano abbia deciso di spendersi in prima persona” dice Zedda. Il Sì al referendum li unisce, ma paradossalmente, è il vero macigno che fa bocciare il progetto da tutti coloro che sono chiamati in causa: da Sel fino a alla sinistra del Pd che specialmente in questa fase di estrema fibrillazione non intende mettere in discussione la permanenza nel partito. La sinistra “la voglio fare dentro il Pd, Pisapia è fuori” dice il bersaniano Nico Stumpo, che non dà molto credito all’ex sindaco di Milano. “Tutto questo casino per restare nel Pd e fare la nostra battaglia dentro, e poi ce ne andiamo?” commenta chi sta molto vicino a Bersani e Speranza.

Il dente avvelenato contro il traditore Pisapia, si coglie subito nelle parole di Sinistra Italiana, da Loredana de Petris che gli chiede con una punta di sarcasmo di “tornare a fare l’avvocato” al capogruppo alla Camera Arturo Scotto che dichiara “amicizia e affetto” ma gli ricorda che “non si può ricostruire il centrosinistra con il killer Matteo Renzi che lo ha distrutto spargendo macerie”. La possibile alternativa ad Alfano e Verdini non funziona: “sembra un’operazione furba e anche un po’ politicista”, lo specchietto che non toglie di mezzo il principale ostacolo che è il segretario del Pd. Che la sinistra arancione possa rinascere con questi interlocutori sembra difficile, almeno a sentire le reazioni, alcune rispettose, altre molto meno come quella di Pippo Civati che addebita a Pisapia la colpa di “mitragliare parole in libertà su una sinistra astratta” e lo accusa di mettere in piedi un piano da “soccorso arancio” a cui non credere come alle favole dei bambini.

Nessuna indulgenza, insomma, escludendo quei pochissimi che in Parlamento e dentro i partiti guardano con qualche interesse alla proposta di una seconda gamba di governo a sinistra ma fuori dal campo Dem. Uno di questi è Gennaro Migliore che individua la nota positiva “se la sinistra che ha votato sì, lavora a un progetto di governo che si propone di cambiare il paese”. Più critico Enrico Rossi, secondo cui Campo Progressista “sarebbe un’operazione nobile, che avrebbe un senso in un altro contesto”, perché “se non cambia il Pd e la sua leadership, l’operazione di Pisapia, di costruire un campo progressista a sinistra del partito, rischia di essere meramente ancillare e di servizio, di apparire come un soccorso a Renzi portato fuori tempo e fuori contesto”. Proprio quello stesso sospetto di un Pisapia “stampella di Renzi” che fa sì che la sinistra gli chiuda la porta in faccia.