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caporalato

I rider di Uber Eats erano schiavizzati: la compagnia commissariata per caporalato

L’inchiesta su Uber Italy che vede coinvolte 10 persone per caporalato tra cui la manager di Uber Gloria Bresciani è la perfetta fotografia di un momento storico, al di là poi della rilevanza giudiziaria: sistematizzare le disperazioni per poterle spolpare fino all’ultimo centesimo appoggiandosi sulle povertà e nascondendosi dietro l’algoritmo di una piattaforma è il comandamento degli sfruttatori del 2020, gli schiavi non sono più solo nei campi con le schiene spezzate ma macinano chilometri sotto il sole o sotto la pioggia per la miseria di una lavoro sottopagato a cottimo come nelle peggiori storie di secoli fa.

È uno schiavismo scintillante, quello del delivery che ci porta comodamente i cibi a domicilio, che una certa narrazione è riuscito addirittura a rivenderci come una conquista. Solo che nel vocabolario impolverato dei diritti ormai sembra essersi smarrito il senso che una “conquista” lo è se porta vantaggi a tutti e invece qui ci troviamo di fronte a lavoratori, ancora una volta, stretti nella morsa di azienda e clienti.

Tra gli indagati anche Danilo Donnini e Giuseppe e Leonardo Moltini, amministratori della Flash Road City Srl e della Frc Sr, che andavano a cercare carne da macello da fare salire in bicicletta nelle sacche più in difficoltà delle storture politiche: i “pericolosi” immigrati in attesa di protezione umanitaria, quegli stessi che vengono già mangiati da certa propaganda politica, tornavano utilissimi per diventare manovalanza. Sono perfetti, se ci pensate, per un certo tipo di capitalismo: si ritrovano in una posizione di debolezza per reclamare diritti e hanno troppa fame per rinunciare a un lavoro.

Si legge nelle carte del pm di Milano Paolo Storari che gli indagati “approfittavano dello stato di bisogno dei lavoratori, migranti richiedenti asilo dimoranti nei centri di accoglienza straordinaria, pertanto in condizione di estrema vulnerabilità e isolamento sociale” e li destinavano al lavoro per il gruppo Uber “in condizioni di sfruttamento”. Pagamenti a cottimo per 3 euro a consegna, indipendentemente dalle distanze da percorrere e dalla fascia oraria, mance dei clienti che venivano sottratte, punizioni arbitrarie: “Abbiamo creato un sistema per disperati, ma i panni sporchi si lavano in casa”, diceva intercettata al telefono la manager di Uber. Consapevoli di essere degli schiavisti e sicuri di poter ambire all’impunità. Forse sarebbe il caso di imparare presto i nuovi riferimenti per riconoscere le nuove schiavitù. In fretta.

Leggi anche: Rider sfruttati, Uber Italia commissariata dal tribunale

L’articolo proviene da TPI.it qui

La storia di Adnan, il ‘George Floyd italiano’ ucciso a coltellate in silenzio

Adnan Siddique è stato ucciso la sera del 3 giugno nel suo appartamento, in via San Cataldo a Caltanissetta. Viveva in Pakistan, a Lahore, una cittadina di 11mila abitanti con suo padre, sua madre e i suoi 9 fratelli. Adnan era la punta di diamante su cui la sua famiglia aveva investito tutto, tutto quel poco che ha, perché trovasse fortuna. Aveva 32 anni e in Italia lavorava come manutentore di macchine tessili. Era molto conosciuto in città, tutte le mattine passava al bar Lumiere per un caffè e i gestori del locale lo raccontano come un ragazzo pieno di sogni e di preoccupazioni. Quali preoccupazioni? Avere cercato giustizia per un gruppo di connazionali che lavoravano nelle campagne da sfruttati come capita in tutta Italia, da nord e sud. Adnan si era messo in testa di liberare i suoi amici dallo sfruttamento e aveva addirittura accompagnato uno di loro a sporgere denuncia. Troppo, per qualcuno che evidentemente continua a credere che la schiavitù sia qualcosa di cui scrivere e parlare solo quando si svolge lontano da noi. Era stato minacciato più volte e non era tranquillo. Aveva anche denunciato le minacce ma evidentemente non è bastato.

Adnan è stato ucciso con cinque coltellate: due alle gambe, una alla schiena, una alla spalla e una al costato. Quella al costato, secondo la perizia sul cadavere, gli è stata fatale. Sono bastate poche ore anche per trovare l’arma, un coltello di circa 30 centimetri. Ci sono anche quattro pakistani fermati per l’omicidio, un quinto è accusato di favoreggiamento. «Una volta è stato pure in ospedale – racconta la famiglia Di Giugno, titolare del bar frequentato da Adnan – lo avevano picchiato». Jaral Shehryar, pakistano di 32 anni, titolare di una bancarella di frutta e verdura, racconta: «Era bravissimo, gentile, quelli che lo hanno ucciso no. Si ubriacavano spesso. Qualche volta andavano a lavorare nelle campagne ma poi passavano il tempo ad ubriacarsi e fare baldoria». Anche suo cugino Ahmed Raheel, che vive in Pakistan e con cui Adnan Siddique si era confidato, sembra avere le idee chiare: «Aveva difeso una persona e lo minacciavano per questo motivo – riferisce all’Ansa – Voleva tornare in Pakistan per la prima volta dopo tanti anni per una breve vacanza ma non lo rivedremo mai più. Adesso non sappiamo neanche come fare tornare la salma in Pakistan. Noi siamo gente povera, chiediamo solo che venga fatta giustizia».

Il presidente dell’Arci di Caltanissetta Giuseppe Montemagno chiede che «si faccia piena luce sui motivi alla base dell’omicidio di Adnan Siddique e sulla diffusione dello sfruttamento dei braccianti agricoli nelle campagne tra le provincie di Caltanissetta ed Agrigento. Oltre ai responsabili materiali – chiede il presidente dell’Arci – dell’atroce delitto chiediamo agli inquirenti di accertare quali siano le proporzioni del fenomeno del caporalato nel territorio nisseno ed individuare eventuali altri responsabili». Perché la storia di Adnan, al di là di quello che accerterà l’autorità giudiziaria sta tutta nelle pieghe di un caporalato che sembra non avere paura di nessuno, che continua a cavalcare impunito interi settori dell’agroalimentare e che tratta gli stranieri in braccia. Tutti sono solo le loro braccia: le braccia per raccogliere la frutta e la verdura e le braccia da armare per punire un connazionale che ha deciso di alzare troppo la testa.

E in questi tempi in cui da lontano osserviamo gli Usa che si ribellano al razzismo forse sarebbe il caso di cominciare a osservare anche le profilazioni che avvengono qui da noi, dove l’essere pakistano ti relega al campo o sul cantiere senza il diritto di avere diritti, dove una storia di violenza che si trascina da tempo finisce per essere sottostimata dalle Forze dell’ordine e da certa stampa, dove un omicidio non merita nemmeno troppo di finire in pagina perché anche se parla un’altra lingua in fondo parla di noi. Parla tremendamente di quello che siamo.

L’articolo La storia di Adnan, il ‘George Floyd italiano’ ucciso a coltellate in silenzio proviene da Il Riformista.

Fonte

«Ora tu racconterai la mia storia. Domani, non la dimenticare»: cronache dai ghetti che nessuno vede

Emma Barbaro per Terre di Frontiera ha scritto un reportage dal ghetto di Borgo Mezzanone. Quel giornalismo che orami fanno in pochi, andando sul posto, consumando le scarpe:

«In buona sostanza, a monte, c’è un sistema criminoso di smistamento che ripartisce i migranti secondo la loro “potenzialità etnica”. Uno studio della subcultura della disperazione. Che permette di individuare le esigenze del mercato di riferimento al punto da scegliere di importare nigeriane perché è più facile che si prostituiscano. O, più in generale, manodopera lavorativa a costo zero perché è essenziale al funzionamento del meccanismo criminale che sopravvive con l’avallo, in questo caso, della mafia del Gargano. La verità è che nel corso degli anni abbiamo affinato le tecniche della tratta degli schiavi. Ora li selezioniamo. Li scegliamo, in base alle leggi della demografia e dell’opportunismo criminale, e poi li segreghiamo. Un espansionismo di ritorno piuttosto pigro. Sulla base del quale non ci si prende neppure più la briga di conquistare una nuova terra, come nella storia più recente. Basta prenderli e portarli qui, per dare linfa vitale al mercato. Del resto, Hannah Arendt ha scritto che “il male non è radicale, soltanto estremo”.
Per cui, di giorno, possiamo scegliere di chiudere gli occhi e ignorare quel lager a cielo aperto. Per riaprirli, sul fare della sera, e appartarsi con le prostitute nigeriane pagando 5 euro per un rapporto.
Mi sono domandata, per gran parte del tempo, quali siano i confini della responsabilità individuale rispetto a fenomeni più complessi. Rispetto, cioè, a fatti in cui la nostra azione diventa sostanzialmente funzionale al compimento di un disegno che noi ignoriamo in tutto o in parte.
Poi mi sono chiesta, in tutta onestà, come avrei fatto a dormire la notte. Come avrei fatto ad andare comunque avanti mentre – fuori – Christopher, Adama, Thierno, Jenny, Sadat e Aliou, nelle baracche fredde, hanno i piedi in vecchie pantofole ricavate dal bidone dei rifiuti.
La risposta, alla fine, me l’ha data proprio Christopher. “Tu stanotte dormi nel tuo letto, al caldo, a casa tua. Io no. Ora tu racconterai la mia storia. Domani, non la dimenticare.
Metto in moto la macchina. No, non la dimentico.»

L’articolo completo è qui.

Caporalato agropontino: denunce e aggressioni nell’articolo di Marco Omizzolo

Marco Omizzolo è una delle voci più preparate e autentiche sul fenomeno del caporalato. Questo suo articolo (scritto per Articolo21) è un quadro impietoso della situazione in provincia di Latina che ben racconta come il fenomeno dello sfruttamento non appartenga solo alla Puglia e, soprattutto, come l’emergenza non abbia bisogno di vittime per essere tale.

 

In provincia di Latina per molti giornalisti, ricercatori e attivisti non è facile lavorare. È infatti usanza consolidata di alcuni politici denunciare chi studia e racconta le mafie, la corruzione, l’urbanistica e l’ambiente per ostacolarne il lavoro. Se poi si riprendono, descrivono e raccontano anche i luoghi e i personaggi che praticano lo sfruttamento lavorativo, il caporalato e la tratta internazionale, allora dalle denunce temerarie si passa facilmente alle aggressioni, intimidazioni e minacce. È accaduto, ancora una volta, solo qualche giorno fa.

Il 5 settembre scorso, infatti, come faccio da anni, mi trovavo nelle campagne pontine a documentare, intervistare, raccogliere storie di vita di braccianti indiani per approfondire il tema dello sfruttamento lavorativo ad opera di alcuni imprenditori e caporali. Un lavoro affascinante e difficile, scomodo e spesso battistrada per individuare una serie di interessi criminali e metodi in sé mafiosi. Molte ricerche scientifiche e giornalistiche, italiane e straniere, ormai concordano nel riconoscere lo sfruttamento lavorativo, soprattutto quando associato ai migranti, insieme al caporalato e alla tratta internazionale, espressione di una criminalità più o meno dipendente dalla consorterie mafiose tradizionali.

Con me questa volta si trovava una troupe della Bbc, network tra i più importanti al mondo composta da Rahul, giornalista peraltro di origine indiana, e dal suo operatore, e Floriana Bulfon, giornalista de L’Espresso che sul grave sfruttamento lavorativo dei lavoratori indiani ha già pubblicato importanti inchieste, lì in veste di interprete.

Una combinazione di professionalità di livello internazionale e, grazie anche alle origini del giornalista della Bbc, che si è subito confrontata non solo con le testiminianze dei lavoratori da anni sfruttati da padroni italiani, caporali e trafficanti spesso loro connazionali, ma anche con le reazioni, minacce e intimidazioni di chi si ritiene legittimato a sfruttare e a non dar conto dei propri comportamenti.

Giunti intorno alle 09.00 del mattino a ridosso di un campo agricolo, restando sulla strada pubblica e dunque senza invadere proprietà privata alcuna, Rahul e il suo operatore iniziano a riprendere un gruppo di lavoratori indiani chini sui campi. Nulla di particolare, nulla di ambiguo. Una telecamera a ripredere ciò che nelle campagne pontine tutti vedono ogni giorno. E poi un giornalista che racconta la giornata di un lavoratore indiano, descrive quelle condizioni, non esprime giudizi ma approfondisce, come deve, ciò che nei giorni precedenti aveva raccolto in termini di informazioni mediante interviste fatte agli stessi lavoratori come anche ad alcuni rappresentanti istituzionali e delle forze dell’ordine.

Tanto però è bastato per essere fermati subito da un ragazzo italiano, probabilmente il padrone del campo e datore di lavoro di quei lavoratori. Dovevamo, secondo lui, interrompere le riprese. In pochi secondi siamo stati raggiunti anche da un’auto dalla quale è scesa una donna che ha subito fotografato la nostra auto (presa a noleggio) e chiesto spiegazioni, peraltro prontamente fornite con tanto di esposizione dei documenti e tesserini da giornalista. La tesi era “voi non potete riprendere senza il nostro permesso, non potete fare domande, i lavoratori sono tutti in regola, dovetre andare subito via o vi denuncio….ora chiamo i carabinieri”. Intanto sono arrivate altre due auto che parcheggiano a poca distanza da noi dalle quali scendono due uomini. Capiamo che rischiamo di restare lì tutto il giorno e decidiamo di andare via evitando di cadere nelle provocazioni. Riprendiamo a girare per le campagne di Sabaudia e dopo soli dieci minuti veniamo fermati un’altra volta. In questo caso ad intimarci l’alt è la polizia municipale di Sabaudia. Accostiamo sul ciglio della strada. Alla nostra destra e sinistra solo campi pieni di lavoratori indiani piegati a raccogliere. Accanto a loro, in piedi, qualche italiano e altri indiani. I primi erano i “padroni” e i secondi i “caporali”. Ci sarebbe piaciuto intervistarli ma non è stato possibile per il prontissimo intervento della celere municipale. Bene, è dovere loro controllare e lo fanno con attenzione certosina. Ci chiedono i documenti. Ognuno presenta il proprio, compresi i tesserini da giornalisti. La telecamera intanto riprende i braccianti indiani piegati nei campi e i caporali che ridono. I controlli sono così accurati che non so se esserne lieto o demoralizzarmi. Il vigile annota tutto con scrupolosità: i nostri nomi, i numeri dei nostri documenti, il contratto di noleggio dell’auto, l’effettiva revisione della stessa, l’assicurazione e infine guarda se l’auto ha qualche problema. Alle sue domande rispondiamo con educazione mista ad ironia, forse per alleggerire la tensione. Intanto l’operatore, di origine egiziane e con una lunga esperienza internazionale, ci dice che neanche quando è stato in Egitto, Libia o in Siria gli era mai capitato di vivere una tale situazione. Ma è solo l’inizio. Il vigile ci comunica che tanta solerzia è dovuta al pericolo terrorismo. La sua attenzione è indispensabile perchè “è un periodo difficile e il pericolo di attentati può esserci ovunque”. Un po’ la cosa fa ridere, un po’ invece no. Intanto alla sua destra e sinistra i lavoratori indiani continuano a lavorare sotto padrone e caporale. Padrone e caporale che dovrebbero essere perseguiti, addirittura arrestati, stando alla recente nuova legge contro il caporalato (lex 199/2016). Loro invece restano lì, in piedi, a controllare il lavoro dei braccianti, a chiedere loro di fare più in fretta per una retribuzione oraria che non arriva ai 4 euro (nella migliore delle ipotesi) a fronte dei 9 lordi circa che la legge prevede. Non vengono rispettate le misure a tutela della loro salute. Lavorano anche 12 ore, con pause brevi. Il datore di lavoro in alcuni casi si fa chiamare padrone. Il caporale li insulta. Se un lavoratore indiano si infortuna viene allontanato o portato in prossimità di un Pronto Soccorso e poi abbandonato. Abbiamo decine di referti di aggressioni o malatti legate allo sfruttamento. Ma il vigile, giustamente, controlla la revisione della nostra auto e il contratto di noleggio quale strategia per contrastare il terrorismo internazionale. Il giornalista della Bbc ride, io un po’ meno.

Finito ogni controllo, pensiamo di andare via. L’aria si è fatta pesante. In solo un’ora siamo stati avvicinati da vari datori di lavoro, presi in giro da caporali e padroni, controllati dalla polizia municipale. Ci pare abbastanza.

Decidiamo di trovare una location adatta per farmi intervista. Suggerisco il Mof di Fondi, ossia uno dei maggiori mercati ortofrutticoli d’Europa. Già al centro delle cronache giudiziarie e giornalistiche d’Italia, il Mof è il luogo ideale in cui raccontare il rapporto tra mafie, sfruttamento lavorativo, tratta internazionale e caporalato. Proprio in  prossimità dell’entrata di quel Mercato si ritrovavano, come ho già avuto modo di scrivere per Articolo21, Gaetano Riina, fratello di Totò Riina, e Nicola Schiavone, figlio di Carmine Schiavone detto Sandokan, tra i fondatori del clan dei Casalesi. Le indagini portarono alla luce il sodalizio criminale tra i casalesi, i Mallardo e i corleonesi per la gestione di vari mercati ortofrutticoli dalla Sicilia a Fondi. I clan campani fungevano da service per trasporti e logistica mentre i mafiosi siciliani fornivano i prodotti agricoli con il beneplacido interessato della ‘ndrangheta. Camion che trasportavano ufficialmente la frutta e la verdura prodotta nelle campagne pontine dai braccianti nascondevano e trasportavano anche armi, droga e forse anche denaro frutto di rapine, estorsioni e traffici illeciti di varia natura.

Prima di arrivare spiego la storia criminale del pontino che ho provato a ricostruire, almeno per una parte della sua genesi, con una mia recente pubblicazione (http://www.tempi-moderni.net/prodotto/la-quinta-mafia/). Gli racconto delle estorisioni, delle mancato scioglimento dell’amministrazione comunale di Fondi, della reazione della politica al potere, dei silenzi e dell’operato lodevole delle forze dell’ordine della magistratura. In auto c’è silenzio interrotto da qualche battuta per stemperare la tensione.

Anche in questo caso arriviamo a ridosso dell’entrata del MOF. Restiamo però ancora sulla strada. Parcheggiamo e l’operatore, con Rahul, si posizione su un’aiuola. Si tratta di suolo pubblico. In lontananza si vede l’enorme scritta del MOF. Iniziamo l’intervista. La prima domanda riguarda il mio interesse per le agromafie e lo sfruttamento lavorativo e da qui arrivo all’uso indotto di sostanze dopanti da parte dei lavoratori indiani per reggere i ritmi imposti al lavoro e lo sfruttamento, tutto documentato  da un dossier (Doparsi per lavorare come schiavi) pubblicato da In Migrazione.

Ancora una volta veniamo interrotti. Questa volta è la guardia giurata del Mof. Ci chiede le generalità e lo scopo del nostro lavoro. Siamo ovviamente collaborativi. Floriana è paziente. L’essere una giornalista di giudiziaria de L’Espresso e trattando il tema mafie e terrorismo da anni, riesce a gestire adeguatamente la situazione. La guardia giurata ci ricorda che per stare lì dobbiamo chiedere l’autorizzazione. Non importa se il suolo è pubblico e se siamo distanti dal Mof. Serve l’autorizzazione. Sembra di vivere in un film comico. Avendo saputo che si tratta della Bbc, la guardia chiama la direzione che gli intima di lasciarci lavorare. Sono evidentemente più astuti dei padroni agricoli pontini.

Riprendiamo l’intervista ma dopo due minuti arriva un altro controllo. Si ferma un’utilitaria. Nessun logo sulla fiancata, nessun lampeggiante o titolo in evidenza. Scende un uomo sui 55 anni. Ci sorride e non interviene subito ma ci scatta con il cellulare alcune foto. Io mi fermo perchè avverto quella presenza come inquietante. Floriana gli si avvicina e torna a spiegare, per la quarta volta in due ore, che lei è un’interprete, che si tratta della Bbc (cosa che quest’uomo sapeva già), cosa stavamo facendo e perché eravamo lì. In questo caso la nostra percezione è diversa da quelle passate. Quell’uomo così gentile ferma subito Floriana e le dice che sa perfettamente che lei non è solo un’interprete ma una giornalista. Poi ci spiega, sempre sorridendo, che dobbiamo avere un’autorizzazione sia per stare su quell’aiuola sia per filmare ma che ci concede, bontà sua, di continuare. Floriana lo avverte che non stavamo facendo un servizio sulle mafie nel Mof e lui, astutamente, non risponde. Fotografa però ancora la nostra auto e mi scatta una foto da distanza abbastanza ravvicinata. Non ci dà spiegazioni sulle ragioni della sua presenza, sul suo ruolo e attività. Non è affatto arrogante. Ad alta voce, per farsi sentire distintamente da tutti, dice però di fare attenzione perché “potrebbero improvvisamente attivarsi gli annaffiatoi” e aggiunge che quello in cui eravamo è un posto pericoloso perché passano molti camion. Qualcuno, afferma, soprattutto quando è carico, potrebbe “perdere il controllo e venirci addosso” facendo una strage. Si preoccupa per noi. Floriana ed io restiamo per qualche secondo in silenzio. Continua affermando che quei camion hanno già perduto il controllo in passato salendo varie volte sull’aiuola dove ci trovavamo. Lo informiamo che staremo ancora solo due minuti e lui dalle foto passa al video. Ci riprende qualche secondo e va via, salvo nascondersi dietro una curva dalla quale poteva tenerci d’occhio.

Finisco l’intervista parlando di sfruttamento, doping, mafia, di tratta internazionale, caporalato e del bisogno che abbiamo di giustizia e diritti. L’entrata del Mof è alle mie spalle. Alla nostra destra, lontano qualche centinaio di metri, quell’ometto basso e sorridente che si preoccupava della nostra salute. La minaccia io e Floriana l’abbiamo capita benissimo. Stare attenti e soprattuto stare lontanti, dal Mof, da certi temi, da certi campi.

Torniamo a Sabaudia per continuare il nostro lavoro, ben sapendo che esistono interessi e luoghi che non devono essere ripresi ma che proprio per questo, ne siamo convinti, meritano di essere descritti, indagati, studiati.

La sensazione che si vive è di pressione e ostacolo costante al nostro lavoro da parte di chi sfrutta, di criminali vari, di alcune istituzioni che sembrano refrattarie a qualunque impegno volto a ristabilire legalità e giustizia, di personaggi non meno precisati che si sentono così forti da minacciare direttamente un giornalista della Bbc, il suo operatore, una giornalista de L’Espresso e il sottoscritto. Si ha la certezza che lavorare nel Pontino raccontando le storie degli ultimi, degli sfruttati, dei migranti obbligati ad abbassare la testa dinanzi al padrone di turno, procura problemi e intimidazioni. La Bbc ha capito bene come stanno le cose e ad ottobre manderà in onda il servizio a livello mondiale e da Londra a New York, da Calcutta a Roma, tutti vedranno e sapranno. Non c’è stato dunque bisogno di usare troppe parole. È bastato fargli vivere l’esperienza diretta di chi prova a raccontare puntando il dito, l’obiettivo e la penna negli angoli bui di questa provincia dove poco si vede e meno si sa. Poi arrivano padroni, caporali, vigili, guardie giurate e anonimi personaggi sorridenti a domandarti chi sei, cosa fai e soprattutto a raccomandarsi di stare attento alla salute che qui ci vuole poco a farsi male. Intanto tutto intorno braccianti, indiani e spesso anche italiani, si spezzano la schiena per pochi euro al giorno, i caporali comandano, i padroni ordinano e fanno i soldi e i padrini fanno politica e filmini con il cellulare. Ma le cose prima o poi cambiano ed è per questo che continueremo ad analizzare, raccontare e descrivere decidendo ogni giorno da che parte stare e contro chi combattere.

A scuola di caporalato. A scuola

C’è questa intervista da brividi, sul Corriere della Sera, in cui un professore delle scuole superiori racconta di avere guadagnato «quattro euro all’ora, anzi due perché ho avuto la sfortuna di ammalarmi». Sergio Mantovani ha 46 anni, insegna geografia, ha supplenze alle spalle, ed è «in ruolo» con contratto a tempo indeterminato un anno fa. «L’anno scorso ho lavorato con quattordici classi e trecento studenti, con passione e soddisfazione – racconta al Corriere -. Quello che è successo però è kafkiano. Ci sono regole punitive se un insegnante decide di lavorare qualche ora in più, rispetto alle diciotto canoniche per cui siamo pagati mediamente 1.500 euro netti al mese. Quest’anno ho avuto la pessima idea di accettare “spezzoni di cattedra” per tre ore settimanali. Mai più», dice. «Fra ore extra e la decurtazione scattata per la malattia si raggiungono cifre offensive».

Il professore s’è messo a fare i calcoli: «Confronto la busta paga calcolata sulle 21 ore con quella dell’anno prima, sulle 18. C’è una differenza di 67 euro netti, che divisi per quelle 12 ore mensili fa 5,58 euro. Occorre però considerare anche l’impegno extra aula, diciamo quattro ore al mese ed è sottostimato perché le ore aggiuntive erano in tre classi diverse quindi con rispettive verifiche da preparare e da correggere e riunioni fra docenti. Quindi ricalcolo la cifra, 67 diviso 16 ore e si arriva a 4,18 euro. Vedo che c’è la “decurtazione Brunetta”» per la malattia «che scatta nonostante la visita fiscale e anche se finisci all’ospedale con il morbillo e complicazioni, polmonite compresa, come è successo a me. Perché ammalarsi non è ammesso, come se noi statali fossimo tutti furbetti del cartellino». Non solo. In più la cifra è decurtata «per la colpa di aver lavorato tre ore in più», dice l’insegnante. «Con cinque giorni di malattia a causa della maggiore decurtazione legata alle ore extra la riduzione risulta di 43 euro, se li scalo ai 67 ne restano 24 per quelle dodici ore mensili che la scuola mi ha proposto di fare e che alla fine valgono due euro».

La “notizia” fa il paio con le migliaia di studenti (anche di liceo) che secondo gli “illuminati” del ministero dovrebbero fare “esperienza formativa” lavorando nei McDonald’s in giro per il Paese, oppure con una certa cultura generale secondo la quale lavorare gratis (per iniziare, pur di iniziare a lavorare) sarebbe un passo scontato per un’intera generazione. La “fast school”, sullo stile “fast food” in cui c’è da sbrigarsi, tutto e subito, per diventare in fretta carne fresca (poco specializzata) perfetta per essere sottopagata nel mondo del lavoro.

E mentre parlano di tutti di “fake news” si fa finta, ancora, che non sia la cultura l’unico antivirus. E mentre si parla di “integrazione”, dappertutto, si fa finta che la cultura ne sia solo un aspetto marginale.

Avanti così.

Buon lunedì.

(continua su Left)

Così i centri di accoglienza sono serbatoi di nuovi schiavi

Seguite terrelibere.org, comprate i loro libri. Perché di questi tempi la realtà raccontata con lealtà diventa rivoluzionaria e perché sono bravi e seri. E scrivono inchieste così, come questa del bravissimo Antonello Mangano:

I centri di accoglienza? Hotel dove migranti nullafacenti intascano 35 euro. È il luogo comune più diffuso tra gli italiani. Che si arrabbiano parlando di parassiti che mangiano e dormono. Di proteste per il wi-fi. Di soldi rubati ai bisognosi italiani.

Ma è davvero così? Un pezzo di realtà è rimasto nascosto. Troppi centri di accoglienza sono diventati serbatoi di manodopera a costo zero. Il fenomeno coinvolge tutta la penisola. Dalla Toscana alla Sicilia.

Il vino del Chianti

“Due profughi, ospiti nel centro di accoglienza, hanno avuto il coraggio di denunciare i propri aguzzini, assistiti dagli operatori che per primi si sono accorti delle anomalie e hanno dato il là alle indagini”, si legge nelle cronache locali di Prato. “I punti di raccolta dei braccianti, a decine ogni giorno, erano i giardini di via Marx. Da lì, ogni mattina all’alba, partivano furgoni e camion carichi di persone”.

L’inchiesta si chiama “Numbar Dar” e risale al settembre del 2016. È importante perché spiega che nel Chianti – tra fattorie storiche nate negli anni ’20, vigneti verdeggianti e dolci colline – le aziende ricorrevano alla manodopera a basso costo disponibile.

centri di accoglienza
Colline del Chianti @Alessandro Valli © Flickr CC

 

Quella dei centri di accoglienza, con i richiedenti asilo subsahariani in attesa dei documenti. Quella dei migranti già presenti sul territorio, che avevano bisogno di un contratto fittizio per non perderli, i documenti.

Era un sistema a stradi. Il caporale pachistano, i consulenti di Prato – abili a falsificare buste paga – e i titolari delle aziende vinicole, definiti dalla Procura “protagonisti e mandanti del sistema di reclutamento”.

Le vittime erano centinaia di migranti erano vittime del sistema. Lavoravano fino a dodici ore al giorno per 4 euro l’ora e venivano spesso picchiati.

Nelle giornate di picco della raccolta dell’uva, i viaggi da Prato a Tavarnelle Val di Pesa erano due al giorno. I caporali privilegiavano i connazionali pakistani: solo a loro era concesso del cibo e un po’ di acqua. Se occorrevano altre braccia, venivano chiamati a lavorare alla giornata anche richiedenti asilo africani, vittime di maggiori soprusi e trattamenti discriminatori. Ai “negri” – così venivano chiamati – non si dava da bere e li si lasciava lavorare a piedi nudi nei campi.

Il “capo villaggio” era richiesto da aziende nate negli anni ’20 nelle famose colline del Chianti

Il “capo” sarebbe un trentottenne pachistano che procurava la manodopera, gestendo ben 161 persone, quasi tutti connazionali, che risultavano alle dipendenze delle ditte aperte dal caporale. Le assunzioni fittizie erano comunicate a Inail e Inps, in modo da evitare i controlli.

Nella realtà, però, i miseri compensi erano pagati in nero. Tasse e contributi venivano evasi sistematicamente. I caporali inviavano subito in Pakistan i guadagni, per decine di migliaia di euro al mese. Non avevano alcun bene “aggredibile” dal fisco italiano, con l’eccezione di un’auto.

Per le aziende, però, erano la più efficiente delle agenzie interinali. Un bacino di manodopera inesauribile a prezzi stracciati. Pronto per l’uso.

Le pecore della Sila

Come si comportano i responsabili dei centri di accoglienza quando vedono movimenti strani intorno ai loro ospiti? Alcuni favoriscono le denunce. Altri fanno finta di niente. Altri ancora sono i caporali stessi.

Una trentina di ragazzi – senegalesi, nigeriani e somali – sono riconosciuti come rifugiati. A questo punto devono essere inseriti nella società italiana. Invece erano impiegati come braccianti e pastori nei pressi di Camigliatello Silano, provincia di Cosenza.

Dovevano inserirsi nella società. Invece facevano i pastori sugli altopiani calabresi

“Vestiti in maniera approssimativa nonostante il freddo inverno silano, i ragazzi erano obbligati a lavorare per oltre dieci ore al giorno nei campi di patate o di fragole come braccianti, o come pastori incaricati di badare agli animali al pascolo sull’altopiano silano. Un lavoro duro, pesante e retribuito meno di 15-20 euro al giorno”, scrive Alessia Candito su Repubblica dello scorso 5 maggio.

centri di accoglienza
L’ingresso del Cara di Mineo

 

“Formalmente, i ragazzi risultavano regolarmente presenti nei due centri di accoglienza, dove – recitano le carte – si svolgevano tutte le attività previste dai programmi di assistenza ai rifugiati. Ma era solo una menzogna. I ragazzi venivano di fatto doppiamente sfruttati. Come manodopera a basso costo nei campi e come pretesto per ottenere finanziamenti”.

Le arance dell’Etna

L’ex dittatore del Gambia ha praticamente evacuato il paese. Per anni la popolazione ha lasciato in massa uno tra i peggiori regimi africani. Dal 1994, Yahya Jammeh ha lasciato una lunga scia di cadaveri. All’inizio aveva 29 anni e la passione del wrestling. Poi decise di combattere l’omosessualità “come fosse la malaria” e affermava di aver trovato rimedi contro l’asma e l’Aids.

Marcus, lo chiameremo così, come tanti suoi connazionali ha deciso di lasciare il dittatore al suo destino di sangue. Il suo sogno non era l’Europa, ma la Libia.

centri di accoglienza

“Mi hanno detto che lì c’era lavoro ovunque, mentre la guerra era solo in zone circoscritte”. La prima notizia era vera, la seconda no. La guerra è ovunque, così come il razzismo. E anche sul piano del lavoro le cose non vanno bene. “I libici ti prendono per fare dei lavori ma alla fine non ti pagano, e se ti ribelli, ti puntano un’arma e ti minacciano”.

Tornare in Gambia è impossibile. L’unica via di fuga è l’Italia. Arriva a Lampedusa dopo un giorno di mare con il gommone. Giorni ad aspettare, poi deve lasciare le impronte. Un gesto che lo costringerà a rimanere in Italia.

Mi hanno detto che in Libia c’era lavoro e che non c’era la guerra

Lo portano a Mineo. Qui inizia la lunga attesa. Una lunga procedura burocratica in attesa di incontrare la commissione. Poche persone che decideranno del tuo destino.

I giorni passano sempre uguali. A volte danno un pocket money da 2,5 euro al giorno, a volte sigarette e una carta telefonica. “Ma io non fumo. Mi servono soldi da mandare ai miei genitori malati”, dice Marcus.

Tutti i migranti del centro hanno presentato richiesta d’asilo. Chi la ottiene avrà i documenti. Gli altri dovrebbero essere espulsi. Per avere una risposta possono servire anche due anni. Altrettanti per il ricorso in caso di diniego. Che fare durante tutto questo tempo? Dopo pochi mesi un richiedente asilo può avere un permesso temporaneo e lavorare regolarmente. Ma chi assume, in Sicilia, un africano che rischia l’espulsione?

Dunque si può scegliere tra limbo e schiavitù. Mineo è un’isola in un mare di aranceti. Basta un rapido giro per incontrare estensioni senza fine. Piccoli proprietari e grandi latifondi. Durante la raccolta, tutti hanno bisogno di braccia. I padroni senza scrupoli scelgono quelle a basso costo.

Ci danno da bere e qualcosa da mangiare durante il giorno e a fine giornata ci pagano 10, massimo 15 euro

“Ho comprato una bicicletta qui dentro per 25 euro. Ogni giorno, aspettiamo le otto. È l’orario di apertura, prima non si può. Stiamo dietro i cancelli, come in gabbia. Poi le porte si aprono e cerchiamo qualcuno per la giornata”, si legge nel rapporto “FilieraSporca 2016”. I padroni dei campi di arance cercano manodopera a costo zero. Gente ricattabile, che non ha documenti o ha documenti precari. E che ha bisogno di soldi.

centri di accoglienza
Recinzioni nei pressi del Cara di Mineo

 

Le condizioni di lavoro sono durissime. Ma non è questa la cosa più grave. Dove vanno a finire le arance raccolte dai rifugiati? Fanno parte di un circuito illegale parallelo? Oppure confluiscono nel normale flusso che porta al succo delle multinazionali?

Accanto al Cara ci sono i magazzini di conferimento, dove i produttori portano le arance. E ci sono le industrie di trasformazione. Che vendono ai maggiori marchi, dai supermercati alle multinazionali del succo.

Tra le arance che finiscono nel normale circuito distributivo possono esserci anche quelle raccolte dai richiedenti asilo del Cara? “Diciamo che può essere una realtà”, dice il presidente di una cooperativa che si trova nei pressi di Mineo. Noi siamo un punto di incontro per i produttori ma se qualcuno di loro mette al lavoro persone provenienti dal Cara non è nelle mie competenze verificarlo. Quello che posso fare io è sensibilizzare i produttori a una cultura del lavoro differente”.

Il pomodoro del ragusano

Nel giugno 2017 la polizia arresta alcuni imprenditori di Vittoria che utilizzavano operai gravemente sfruttati: 19 richiedenti asilo, 2 tunisini e 5 romeni. Questi ultimi vivevano in abitazioni fatiscenti nei pressi dell’azienda, 40mila metri quadri di coltivazioni. Si tratta di uno dei primi provvedimenti nati dalla nuova legge “anti-caporalato”.

Ma i segnali erano tanti. Basta girare per le campagne all’ora del tramonto per vedere decine di richiedenti asilo africani che tornano ai centri di accoglienza. È lì che è nato negli ultimi anni un nuovo caporalato. Il CAS (centro di accoglienza straordinaria) può essere un piccolo albergo, un posto per anziani, un casolare nel nulla. Qui i migranti attendono la risposta alla richiesta d’asilo. I più fortunati aspettano un anno, chi presenta ricorso anche quattro.

C’è chi è sopravvissuto al Mediterraneo, c’è chi ha perso l’equilibrio mentale

In un centro sperduto nelle campagne incontriamo persone molto diverse tra loro. C’è chi è sopravvissuto al Mediterraneo, chi ha perso l’equilibrio mentale dopo le torture subite in Libia. Tutti vogliono mandare i soldi a casa. Nelle campagne si prende quello che offrono i caporali. I numeri non sono enormi – si parla di un centinaio di persone – ma hanno abbassato ulteriormente il costo del lavoro.

centri di accoglienza
Migranti tornano dal lavoro nel ragusano

 

“Tanto hai da mangiare e da dormire”, dicono i padroni. Se qualche anno fa i tunisini sindacalizzati prendevano 50 euro al giorno, oggi siamo arrivati a 7-10 con gli africani in attesa d’asilo. A fine giornata, c’è gente pagata con una manciata di monete.

In tutta Italia, ci sono centri di accoglienza gestiti bene, da gente che ci crede. In ogni caso, i centri ospitano migranti arrivati in Europa per mandare soldi a casa. Subito. Così, chi si trova in città, a volte finisce per chiedere l’elemosina di fronte al supermercato. Chi viene sbattuto in campagna, facilmente diventa vittima dei caporali. In attesa di un pezzo di carta, di documenti che possano portare a riprendere in mano la tua vita e a giocarti le tue opportunità.

Finalmente. La prima maxi operazione contro il caporalato.

Nella mattinata del 5 luglio si è conclusa l’operazione “Freedom”, la prima di una serie di interventi della Polizia di Stato contro il caporalato. Nel blitz sono state impegnate le Squadre Mobili di Caserta, Foggia, Latina, Potenza, Ragusa e Reggio Calabria, coordinate dal Servizio Centrale Operativo della Direzione Centrale Anticrimine. Le forze dell’ordine hanno identificato 235 persone, tra datori di lavoro e dipendenti e controllato 26 aziende, con l’obiettivo di contrastare lo sfruttamento di migranti irregolari. Sono state inoltre effettuate diverse perquisizioni, tre arresti e comminate sanzioni amministrative per irregolarità retributive, previdenziali e fiscali.

La diffusione del fenomeno

Secondo quanto emerso dalle operazioni di polizia, il fenomeno criminale sarebbe diffuso soprattutto in Basilicata, Calabria, Campania, Lazio, Puglia e Sicilia e riguarderebbe prevalentemente il settore agricolo. Spesso il caporalato sfocerebbe in vere e proprie forme di riduzione in schiavitù, portate avanti dai cosiddetti “caporali”, gli autori materiali dell’attività illecita e agenti di intermediazione tra la domanda e l’offerta.

Condizioni di lavoro disumane

L’obiettivo dell’operazione “Freedom” è contrastare lo sfruttamento dei migranti irregolari che sono costretti per pochi euro a lavorare in situazioni insostenibili, con orari pesantissimi, condizioni igieniche precarie e assenza totale di diritti e giorni di riposo. Nel ragusano sono stati identificati lavoratori sfruttati provenienti dalla Nigeria e dalla Romania: hanno raccontato di essere arrivati in Italia alla ricerca di condizioni di vita migliori, ma di essersi poi ritrovati a lavorare dalle sei del mattino fino alle sette di sera per un compenso di 25 euro al giorno. Soldi appena sufficienti per “comprare da mangiare e acquistare qualche vestito”. Molti dei lavoratori ascoltati hanno riferito di un caldo insopportabile sul luogo di lavoro e di ripetute emicranie e stati confusionali. Nessuno di loro si è però mai lamentato, a causa della continua minaccia di licenziamento.

I provvedimenti

Diversi sono stati i provvedimenti presi dalle autorità. In provincia di Foggia, con l’ausilio dell’Ispettorato del Lavoro, è stato notificato un provvedimento di sospensione dell’attività agricola per inosservanza delle normative sul lavoro. In provincia di Reggio Calabria, invece, sono state 46 le perquisizioni finalizzate ad accertare l’eventuale possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione. Comminate anche quattro sanzioni amministrative per irregolarità nei trattamenti retributivi, previdenziali e fiscali. Infine, in provincia di Ragusa, sono state arrestate tre persone e altre 11 sono state indagate in stato di libertà per reati che riguardano lo sfruttamento della manodopera clandestina ed extracomunitaria.

(fonte)

Il caporalato in un’intercettazione: “Sono come mule e capre, per loro servono sesso e mazzate”. 4 arresti a Brindisi.

Conveniva andare con loro, dicevano, perché così riuscivano a lavorare per molti mesi. Con l’agenzia, invece, sostenevano che l’impiego nei campi sarebbe durato al massimo un mese. E le braccianti, tutte donne, quasi esclusivamente italiane, accettavano la proposta dei presunti caporali, spinte dallo stato di indigenza e necessità. Sopportavano la ‘cresta’ e orari di lavoro prolungati. Si accontentavano di 38 euro al giorno per 8 ore di lavoro, invece di 55 per 6 e mezza come era scritto nel contratto.

Dovevano perfino pagare in anticipo il trasporto verso i campi: 8 euro sull’unghia prima di partire, pena il rischio di non percepire la paga al rientro dopo aver sgobbato nei campi di ciliegie e di uva nella provincia di Bari. Chi si ribellava sarebbe stato anche picchiato. E le donne, per uno dei quattro arrestati su richiesta della procura di Brindisi, erano “femmine” che avevano la stessa testa di “mule e capre” e per loro “pizza e mazzate ci vogliono, altrimenti non imparano”. Tradotto: sesso e botte per far comprendere la propria legge medievale.

Padroni e schiavi, caporali e braccianti. È lo spaccato da terzo mondoricostruito dai pm di Brindisi tra la stessa provincia salentina e quella di Bari, dove il lavoro nei campi continua a essere fonte di guadagni illeciti per i caporali. Ne hanno arrestati quattro, al termine di una lunga indagine dei carabinieri di Francavilla Fontana. Agli indagati viene contestato il concorso inintermediazione illecita e sfruttamento del lavoro pluriaggravati.

A dimostrare il loro presunto coinvolgimento ci sono le dichiarazioni delle donne sfruttate, “pienamente attendibili” secondo il gip Maurizio Saso, e le riprese fatte lungo le strade statali percorse dai camioncini per accompagnare i contadini nei campi e pure quelle nelle aziende agricole dove le donne venivano impiegate. Partivano all’alba dalle province di Taranto e Brindisi, accalcate anche in dieci all’interno di pulmini da 7 posti. Pagate poco e costrette anche a ‘girare’ quotidianamente somme di denaro ai presunti caporali Michelangelo Veccari, sua moglie Valentina Filomeno, Grazia Ricci e Maria Rosa Putzu.

Erano loro, secondo i magistrati, a organizzare il traffico di manodopera per conto di un’azienda agricola di Turi, nel Barese. Ma almeno due braccianti hanno deciso di denunciarli alla fine del 2015.  Hanno detto basta a condizioni di lavoro disumane, causate dal loro stato di bisogno e necessità. Un aspetto non secondario, perché è una delle architravi sulle quali si poggia la possibilità di punire i caporali. Che non solo avrebbero sfruttato una quindicina di donne, ma ne parlavano in questi termini. Dice Veccari, ascoltato dalle microspie piazzate dai carabinieri: “Alle femmine pizza e mazzate ci vogliono, altrimenti non imparano”. E ancora: “Femmine, mule e capre, tutte con la stessa testa”. E quando qualcuna si ribellava, i presunti caporali ricordavano le regole, come chiarisce un dialogo intercettato.

Una bracciante parla del trasporto nei campi e delle ‘regole’ di ingaggio: “Non so, ditemi voi. Devo scendere con l’agenzia o devo scendere con voi”. La risposta è chiara: “Con l’agenzia lavori un mese, con noi lavori sei mesi, otto mesi. Quindi dipende cosa vuoi fare. Se vuoi lavorare un mese, altrimenti ti conviene venire con noi. Secondo me ti conviene, perché con noi alla fine lavori”. La risposta della donna: “Ok, allora vado all’agenzia e tolgo il contratto”.

E loro lavoravano, secondo quanto accertato dalla procura, nonostante la retribuzione fosse incongrua rispetto alle ore di lavoro svolto. Né venivano rispettati riposi settimanali, festività e gli straordinari non venivano corrisposti. Inoltre, una delle donne indagate, avrebbe decurtato 8 euro dalla paga giornaliera di ogni bracciante per il ‘servizio’ di trasporto. A volte, sostengono gli investigatori, la ‘tassa’ doveva essere addirittura anticipata dalla manodopera, sotto la minaccia di non ricevere i soldi alla fine della giornata lavorativa.

(fonte)

Marciamo contro il caporalato

(scritto per i Quaderni di Possibile qui)

Si chiama caporalato ma c’è dentro un bel mazzo di questioni che ci stanno terribilmente a cuore: c’è il lavoro svilito che considera le persone un tanto al chilo, c’è la criminalità che si organizza tra i buchi dei mancati controlli, c’è l’immigrazione che diventa manovalanza a disposizione delle mafie e c’è l’indifferenza intorno che consuma senza porsi troppe domande.

Lo chiamiamo caporalato ma coinvolge una schiera che non sta solo in mezzo ai campi. Come abbiamo scritto nel nostro appello (firmato da noi con Leonardo Palmisano e Marco Omizzolo che di caporalato si occupano tutti i giorni da anni): “il caporale è l’ultimo anello di una catena che salda diversi interessi all’insegna della riduzione dei costi: dalla grande distribuzione che stabilisce il prezzo, passando per i mediatori e i produttori che cercano di massimizzare il loro profitto. E spesso nell’affare entrano anche le mafie, che controllano buona parte della filiera, a partire dai mercati ortofrutticoli, le grandi centrali di raccolta, smistamento e trasporto dei prodotti ortofrutticoli coltivati in Italia o importati dall’estero. Talvolta con la complicità della politica locale”.

Per questo Possibile aderisce alla Marcia nazionale contro la mafia del caporalato di lunedì 17 aprile: perché noi in marcia ci siamo da tempo e non abbiamo nessuna intenzione di fermarci. Chiediamo il ritorno alla centralità del collocamento pubblico; una procura nazionale anticaporalato; una procura antimafia a Foggia; l’aumento del numero degli ispettori del lavoro; una legge che consenta di creare anche in agricoltura cooperative di produzione lavoro; un sistema di accoglienza diffuso nei centri urbani che coinvolga direttamente le comunità; la traduzione in lingue straniere della legge contro il caporalato; l’abolizione del reato di clandestinità; il superamento della Bossi-Fini, prevedendo strumenti di ingresso per la ricerca di lavoro e modalità di regolarizzazione attraverso il lavoro; meccanismi che permettano alle vittime di sfruttamento di avere accesso rapido a indennizzi, risarcimenti e retribuzioni arretrate; misure che rendano estremamente trasparente la filiera produttiva, a partire da un’etichettatura che tracci i singoli fornitori; progetti di assistenza e formazione a livello nazionale e regionale qualificati a sostegno dei percorsi di emancipazione dei lavoratori e delle lavoratrici; politiche di welfare a sostegno dei lavoratori e delle lavoratrici, soprattutto se costrette a subire oltre allo sfruttamento anche violenze fisiche, sessuali e ricatti di varia natura.

Per aderire all’appello basta andare qui. Mentre qui trovate l’evento Facebook.

Giulio Cavalli

Stefano Catone

Paola, morta seccata dal sole e dalla fatica. Per 3 euro l’ora


Paola Clemente aveva 49 anni e lavorava dalle 5.30 fino alle tre del pomeriggio, qualche volta anche alle sei, per 27 euro al giorno. Quella busta paga è una lama che affetta un Paese intero. Nemmeno tre pezzi da dieci euro per rinsecchirsi sotto il sole che sale verticale: ma come li spieghiamo questi morti ai nostri figli? Che diciamo a Stefano, suo marito, e a tutti i sopravvissuti della sua famiglia?
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