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Zaki a processo nel silenzio dell’Italia: dopo 2 anni in cella il nostro Paese se ne lava le mani

Sarà per questa fastidiosa sensazione di essere rassicurati con quel vuoto fare paternalistico che si usa con chi è considerato troppo molesto ma dietro la prima udienza avvenuta ieri a Mansura in Egitto che ha confermato la custodia cautelare del trentunenne studente dell’Università di Bologna Patrick Zaki rimbomba con insistenza una certa domanda: ma esattamente cosa ha fatto l’Italia per Patrick Zaki?

Partiamo dall’inizio: l’ergastolo cautelare di Patrick Zaki è iniziato nel febbraio del 2020 all’aeroporto del Cairo, quando lo studente decise di tornare in Egitto per prendersi una pausa dagli studi qui in Italia. Per mesi non si è saputo nulla nemmeno sui suoi capi d’imputazione. Il fatto che fosse rinchiuso nel carcere di Tora, lì dove il governo di Al-sisi rinchiude tutti i suoi più importanti oppositori politici, lasciava ovviamente intendere che l’accusa fosse di natura politica. Oggi sappiamo che è accusato per un articolo scritto nel 2019 sulla persecuzione dei cristiani copti in Egitto (che gli vale un’accusa per “diffusione, in patria e all’estero, di notizie false contro lo Stato egiziano”).

Tutto questo dopo 19 mesi di carcere (oltre il periodo massimo consentito dalla legge egiziana per reati di questo tipo), dopo accuse sempre piuttosto vaghe per alcuni post su Facebook di certi profili che si sono rivelati persino falsi e dopo un interrogatorio avvenuto quattro giorni fa per alcuni suoi scritti risalenti addirittura al 2013. È caduta, per ora, l’accusa di terrorismo per cui Zaki avrebbe rischiato una condanna fino a 25 anni di carcere. Allo stato attuale la pena massima potrebbe essere di 5 anni di reclusione ma certo non tranquillizza che lo studente sia processato davanti a un “tribunale d’emergenza per la sicurezza dello stato”, la cui procedura non prevede diritto d’appello.

In Italia, in mezzo a molti comunicati più o meno convinti (e più o meno convincenti) di solidarietà al ragazzo si registrano due mozioni nelle due camere approvate a maggioranza che chiedevano al governo di “avviare tempestivamente mediante le competenti istituzioni le necessarie verifiche” per l’eventuale concessione della cittadinanza italiana. Peccato che le mozioni non fossero vincolanti, che la risposta del sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, nello scorso luglio fosse piuttosto blanda («Dobbiamo dirci le cose in modo molto chiaro: alle valutazioni tecniche, ci sono anche valutazioni più ampie che devono tenere conto delle circostanze di contesto», – disse Di Stefano – la cittadinanza «può avere effetti negativi») e che il governo ha deciso sostanzialmente di ignorarle senza nemmeno concederci il lusso di ottenere una spiegazione chiara. Nell’elenco dei buoni propositi si registra anche l’ultima puntata di buoni propositi con il ministro Di Maio che durante un evento elettorale a Bologna (la città adottiva di Zaki) 5 giorni fa ci rassicurava dicendoci che il governo «continua a lavorare ogni giorno» con l’obiettivo di «portare in libertà Patrick Zaki e restituirgli tutti i suoi diritti». Anche in questo caso non ci è dato l’onore di sapere esattamente il “come”.

Di certo l’Italia con l’Egitto di Al-sisi continua a mantenere proficui rapporti economici e militari e di certo c’è che dal Cairo continua a rimbombare anche la morte senza verità e senza giustizia di un altro studente su cui si spendono quintali di parole da parte della politica: Giulio Regeni. Alla luce di tutto questo le rassicurazioni mielose infastidiscono e poco altro e si torna alla domanda iniziale. Esattamente cosa sta facendo l’Italia?

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Orrore in Italia: due neonati sbattuti in cella con le mamme, ora ci sentiamo tutti più sicuri…

Nei giorni scorsi in Emilia Romagna sono entrati in carcere due bambini. Uno ha 7 mesi e ha varcato le porte del carcere con la madre che doveva scontare venti (20!) giorni di pena, l’altro di 17 mesi è figlio di una donna sottoposta al carcere per un provvedimento di custodia cautelare. Nonostante la legge 62 del 21 aprile 2011 preveda l’obbligo di istituire le case famiglia protette proprio per evitare del tutto l’ingresso in carcere di bambini, in tutto il Paese solo Roma e Milano sono dotate di strutture di questo tipo: alcuni bambini continuano a vivere periodi più o meno lunghi, insieme alle loro mamme, in spazi ristretti, poveri e disfunzionali, limitati nei movimenti, nelle possibilità di sviluppo e con un sistema sano di relazioni.

«Si continua ad assumere decisioni e a valutare situazioni senza tenere ben presenti le esigenze specifiche dei bambini connesse alla loro crescita, i diritti sanciti da norme internazionali e nazionali, in particolare l’interesse superiore del fanciullo che, come indicato dall’articolo 3 della Convenzione Onu, deve orientare tutte le scelte relative alle persone di minore età», hanno rimarcato in una nota la Garante per l’infanzia e l’adolescenza dell’Emilia Romagna, Clede Maria Garavini e il Garante regionale dei detenuti, Marcello Marighelli.

Maringhelli spiega a Il Riformista che «la situazione legislativa è in una situazione di attesa, un po’ lunga: la legge che istituisce le case protette per l’esecuzione è del 2011, poi abbiamo avuto un decreto attuativo nel 2013 che definisce le caratteristiche delle case protette in convenzione con gli enti territoriali».

In realtà nella previsione di bilancio c’è circa un milione e mezzo di euro che lo Stato deve distribuire alle regioni per finanziare queste iniziative ma, ci spiega Maringhelli, «mancano i decreti per la distribuzione. Era previsto un termine entro il 28 febbraio ma ancora non si vede. Anche se negli ultimi giorni si sta muovendo qualcosa».

«Tra l’altro – spiega il Garante regionale dei detenuti – non si capisce bene quale sia l’orientamento: io e la mia collega saremmo favorevoli a non pensare a strutture nuove che creano situazioni di contenimento ma utilizzare le attuali reti mamma-bambino, verificare le disponibilità garantendo le caratteristiche del ministero a tutela del bambino (come accesso alla scuola, ai servizi). Dobbiamo tenere sempre a mente che l’interesse principale è il bambino».

Eppure la condizione di bambini che si ritrovano ad affrontare l’impatto del carcere scontandone poi i traumi sembra interessare poco al dibattito pubblico e al dibattito politico: che dei bambini scontino una pena che non è la loro interessa solo agli addetti ai lavori e poco altro. Ci sono riforme che tardano ad essere applicate perché evidentemente non se ne sente l’urgenza. «Anche perché non è una cosa così costosa – spiega Maringhelli – noi abbiamo monitorato i flussi: in Emilia Romagna nel 2019 sono passati 15 bambini, nel 2020 11 e nel 2021 siamo già a 6. Presenze anche di pochi giorni. Un’accoglienza non sarebbe così difficile da realizzare. L’entrata e l’uscita dal carcere è sempre un momento traumatico. Noi ci mettiamo molta attenzione, io mi interesso di tutti i casi, abbiamo un monitoraggio in piedi, l’amministrazione penitenziaria me le comunica ma solo grazie all’impegno di direttori e funzionari si riesce a ridurre il disagio a questi bambini che entrano e escono».

La vicepresidente della Regione Emilia Romagna Elly Schlein auspica «una forte collaborazione interistituzionale che possa portare, in una Regione come la nostra in cui i comuni già collaborano con una rete di comunità di accoglienza di soggetti fragili, comprese madri con bambini, a individuare modalità che intervengano addirittura a monte, laddove la normativa vigente lo consenta, evitando lo stesso ingresso di minori nel carcere».

Poi a ben vedere ci sarebbe anche la Costituzione e la domanda su che valore rieducativo possano portare 20 giorni di pena in cella per una mamma e il suo bambino.

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Il dramma di Domenico Forgione: sbattuto 7 mesi in cella per una omonimia…

Domenico Forgione ha 47 anni e vive a Sant’Eufemia d’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, un paesino di una manciata di migliaia di abitanti in cui si conoscono praticamente tutti. Laureato in Scienze Politiche con un dottorato di ricerca in Storia dell’Europa Mediterranea ha insegnato per molti anni all’università di Messina. Era consigliere comunale e il 25 febbraio 2020 finì in carcere con il sindaco Domenico Creazzo (accusato di voto di scambio), il vicesindaco Cosimo Idà (accusato di essere capo promotore ed organizzatore di una fazione mafiosa all’interno del locale di Sant’Eufemia d’Aspromonte), il presidente del consiglio comunale Angelo Alati. Gli arresti si inserivano nella più ampia inchiesta Eyphemos (a cui ne seguirà anche una seconda) ordinata dalla Dda di Reggio Calabria che ha portato a un totale di ben 76 imputati.

Con il tempo però le basi dell’inchiesta hanno cominciato a sfaldarsi: ad aprile dell’anno scorso il presidente del consiglio comunale Alati è stato rimesso in libertà dopo una sentenza di “inconsistenza indiziaria” del Tribunale del riesame di Reggio Calabria. A novembre è stata la volta di Cosimo Idà: i suoi avvocati, dopo aver richiesto diverse perizie, sono riusciti a provare che “u diavulu” di cui si parla nelle intercettazioni, non è lui. Il nome associato al soprannome in questione, che ai magistrati e agli investigatori era distrattamente sfuggito, non è il suo. «Possiamo dire che il nostro cliente è stato scagionato, sebbene avremo ogni certezza tra qualche giorno con la chiusura dell’indagine», avevano detto gli avvocati di Idà lo scorso novembre. Ulteriore beffa: Idà risulta tutt’oggi nella lista degli imputati.

A casa di Domenico Forgione le forze dell’ordine arrivano alle 3 di notte. Gli agenti gli chiedono di seguirli in Questura, lui è convinto che sia qualcosa di risolvibile nel giro di poche ore e avvisa sua madre che sarebbe stato di ritorno da lì a poco. Non andò esattamente così: il capo di imputazione è gravissimo. In alcune intercettazioni tra mafiosi ad un certo punto uno saluta il suo interlocutore con un “ciao Dominic” e “Dominic” è anche il soprannome di Forgione. Gli inquirenti non hanno dubbi. Inizia l’odissea. Due giorni dopo Forgione si ritrova di fronte al Gip, respinge tutte le accuse e fa notare la sua fedina penale assolutamente pulita e la sua vita specchiata, lui scrittore di saggi, studioso e apprezzato da tutti. Resta in carcere. Con il suo avvocato preparano una perizia fonica di parte da consegnare al Tribunale del Riesame, lui è convintissimo dell’evidenza di una voce completamente diversa dalla sua. La pratica viene valutata solo l’11 aprile ma i giudici respingono la perizia affermando che la qualità dell’audio non è buona. Capito? La qualità dell’audio è abbastanza “buona” per un arresto ma non è abbastanza “buona” per dimostrare la propria innocenza.

L’avvocato di Forgione non si arrende, chiede che sia un perito della Procura a fare tutti gli accertamenti che ritiene opportuni. Nel frattempo Forgione viene trasferito nel carcere di Santa Maria Capua Venere, ammanettato mentre si reca in autogrill come un pericoloso criminale. Forgione rimane anche sconvolto per le situazioni in cui si ritrovano le carceri, racconta di avere visto acqua marrone scendere dalle docce, di avere avuto problemi alla pelle perfino mesi dopo la sua scarcerazione.

In cella insegna l’italiano a un arrestato nella sua stessa operazione. La scarcerazione avviene il 16 settembre, dopo 7 mesi: non è lui quell’uomo intercettato, non è sua quella voce. 7 mesi di carcere da mafioso per un innocente sulla base di un’omonimia detta veloce durante un saluto. Ora Forgione è libero, innocente ma la sua vita è cambiata: ha deciso di dedicarsi ai casi di malagiustizia con l’associazione “Nessuno tocchi Caino” e intende usare la sua voce per denunciare un sistema che in un secondo può stravolgerti la vita. È l’ennesimo caso, ancora. Dice di sentirsi tradito dallo Stato ma in fondo con la sua storia siamo stati traditi tutti, anche noi.

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Caro Conte, anche tu hai tenuto i porti chiusi

La Mezzaluna Rossa libica (l’equivalente più o meno della nostra Croce Rossa) ieri ha annunciato altri 50 morti in un naufragio al largo della Libia. Poco prima l’Oim, l’agenzia dell’Onu per le migrazioni, aveva riferito della morte di almeno 11 persone dopo che il gommone su cui viaggiavano era affondato. La Guardia Costiera libica come al solito dice di non esserne informata. Una cosa è certa: nel Mediterraneo si continua a morire ma la vicenda non sfiora la politica nazionale, merita qualche contrita pietà passeggera e poi scivola via.

L’importante, in fondo, è solo mantenere ognuno la propria narrazione: ci sono i “porti chiusi” di Salvini che rivendica di averlo fatto ma poi in tribunale frigna chiamando in causa anche i suoi ex compagni di governo, c’è il “blocco navale” evocato da Giorgia Meloni, c’è il PD che finge di avere dimenticato di essere il partito che con Minniti ha innescato l’onda narrativa e giuridica che ci ha portati fin qui e c’è il Movimento 5 Stelle che si barcamena tra una posizione e l’altra.

A proposito di M5S: il (prossimo) leader Conte è riuscito a dire in scioltezza “con me porti mai chiusi” provando a cancellare con un colpo di spugna quel suo sorriso tronfio mentre si faceva fotografare al fianco di Salvini con tanto di foglietto in mano per celebrare l’hashtag #decretosalvini e la dicitura “sicurezza e immigrazione”.

Conte che sembra avere improvvisamente dimenticato le sue stesse parole su Sea Watch e sulla comandante Carola Rackete: “è stato – disse Conte – un ricatto politico sulla pelle di 40 persone”. Insomma, non proprio le parole di chi vuole prendere le distanze dalla politica di Salvini.

Oltre le parole ci sono i fatti: l’ultimo atto del Parlamento prima della caduta del primo governo Conte nell’agosto 2019 è stato il “decreto sicurezza bis” che stringeva ancora più i lacci dell’immigrazione. Sempre ad agosto 2019, 159 migranti sulla nave Open Arms sono stati 19 giorni in mare senza la possibilità di attraccare nei porti italiani.

Insomma: partendo dal presupposto che i porti non si possano “chiudere” per il diritto internazionale è vero che Conte a braccetto con Salvini ha sposato l’idea dei “porti chiusi” nel senso più largo e più politico. Ed è pur vero che nessun governo, compreso questo, sembra avere nessun’altra idea politica che non sia quella di galleggiare tra dittature usate come rubinetto per frenare le migrazioni in un’Europa che galleggia appaltando i propri confini. Gli unici che non galleggiano sono i morti nel Mediterraneo.

Leggi anche: I poveri sono falliti e i ricchi sono radical chic: così Salvini non risponde mai nel merito a chi lo critica

L’articolo proviene da TPI.it qui

A proposito di priorità

Ogni tanto converrebbe prendersi la briga di leggere gli atti parlamentari perché in fondo è proprio il Parlamento che dovrebbe essere la sede per l’azione politica più importante, quella più sostanziosa e evidente.

Le parole, si sa, sono importanti e in politica le parole disegnano l’azione che si ha in mente per il futuro. Ogni tanto si crede che i leader politici esagerino durante le loro comparsate televisive per semplificare il loro messaggio e per fomentare un po’ la propaganda.

Ecco, proviamo a metterci le mani, tanto per capire di cosa stiamo parlando. Per Fratelli d’Italia il deputato De Toma è intervenuto alla Camera per presentare una mozione (la 1/00469) di cui è primo firmatario il suo compagno di partito Lollobrigida, dal titolo impegnativo: Mozione concernente iniziative per il rilancio produttivo e economico della nazione. Uno si immagina finalmente di vedere una proposta di soluzione da parte dell’unico partito di opposizione, sono quelli che dicono che i diritti non siano una priorità e che bisogna occuparsi del bene del Paese, non perdersi in chiacchiere. Benissimo. Nel suo discorso alla Camera ha usato parole altissime: «Più volte è stato annunciato l’avvento di tempi nuovi. Oggi ci staremmo preparando ad affrontare un’altra svolta, con il Governo dei migliori alla guida del Paese, eppure è evidente a tutti che così non è. L’Italia ha bisogno di gente che sappia fare le cose e che abbia il contatto con la vita reale».

E uno pensa: oh, finalmente si esce dalle barriere ideologiche e si lavora per il bene del Paese. Perfetto, cosa si dice nella mozione? Ecco qui uno stralcio, del “visto che”:

si assiste alla perdurante furia «gender» portata avanti dalla sinistra, a cominciare dalla sostituzione della mamma e del papà con la triste dizione «genitore uno» e «genitore due», mentre per alcune forze di Governo tematiche quali lo «ius soli» sembrano avere maggiore importanza della ripresa economica, che è la vera sfida di oggi, con la crisi che morde milioni di famiglie e di imprese italiane;

la cosiddetta «cancel culture» e l’iconoclastia, cioè la vandalizzazione o addirittura l’abbattimento di parte del patrimonio culturale considerato «politicamente scorretto», è un fenomeno che dagli Usa e da alcune nazioni europee sta arrivando, grazie ad alcuni presunti intellettuali, in Italia; il dibattito sul passato, totalmente decontestualizzato, rischia d’inasprire il confronto e di cancellare, dai libri e dal nostro patrimonio, la nostra cultura;

è insensato pensare di invertire il trend della caduta della curva demografica e della natalità zero nel nostro Paese, attraverso l’agevolazione di un ingresso incontrastato di immigrati e clandestini, anche attraverso la semplificazione contenuta nell’ultimo «decreto sicurezza» delle pratiche necessarie per ottenere accoglienza e residenza, non solo per chi provenga da zone teatro di guerra ma anche per motivi di lavoro, ove ne ricorrano i requisiti;

sul fronte della sicurezza e della lotta all’immigrazione clandestina Fratelli d’Italia ha proposto fin da subito la soluzione del blocco navale: per evitare che il Mediterraneo continui ad essere un mare di morte, regno degli scafisti e delle organizzazioni non governative che, dietro presunte operazioni umanitarie, sono state spesso complici anche involontarie ma non per questo meno colpevoli del traffico di esseri umani.

Fa bene leggere gli atti parlamentari. Perché di questo stiamo parlando: della propaganda che addirittura non viene più usata per rendere vendibili i contenuti ma che diventa essa stessa contenuto. Il rilancio del Paese, per Giorgia Meloni, è anche questa cosa qui. Segnatevelo.

Buon martedì.

(nella foto Francesco Lollobrigida e Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia)

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La sparizione del salario minimo

Solo lo scorso 16 marzo la Commissione Lavoro del Senato approvava la direttiva Ue volta a garantire l’adozione del salario minimo legale ai lavoratori degli Stati membri. Il testo impone l’individuazione di soglie minime di salario che possono essere introdotte per legge (salario minimo legale) o attraverso la contrattazione collettiva prevalente, come sottolineato anche dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Andrea Orlando.

Il salario minimo (su cui Partito democratico e Movimento 5 Stelle hanno depositato diversi disegni di legge negli ultimi anni) è proprio scomparso nella versione del Piano nazionale di ripresa e resilienza inviata alla Commissione europea nonostante fosse presente nel testo entrato in Consiglio dei ministri.

Nella bozza che circolava pochi giorni fa si parlava di una «rete universale di protezione dei lavoratori» e del «salario minimo legale», oltre alla garanzia di una retribuzione «proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto» per tutti i lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva nazionale. Perfetto: è sparito tutto il paragrafo. Non si tratta di correzioni, di aggiustamenti, no, è sparito tutto.

La cancellazione difficilmente può arrivare dall’Europa vista la direttiva che è stata approvata solo un mese fa in Commissione Lavoro e viste le parole durante il proprio discorso allo Stato dell’Unione 2020, che von der Leyen aveva a riguardo, dicendo che «il dumping salariale danneggia i lavoratori e gli imprenditori onesti, mette a repentaglio la concorrenza sul mercato del lavoro – aveva aggiunto – per questo faremo una proposta per un salario minimo in tutti gli Stati dell’Unione. Tutti devono avere accesso ai salari minimi o attraverso la contrattazione collettiva o con salari mini statutari, è arrivato il momento che il lavoro venga pagato nel modo equo».

Qualcuno prova a teorizzare che la cancellazione in extremis potrebbe essere il risultato degli incontri con le parti sociali nella fase finali della stesura, ipotizzando che un eventuale salario minimo possa indebolire le trattative sindacali poiché alcune aziende potrebbero così semplicemente accontentarsi di essere a norma di legge. Peccato che sia da tempo sotto gli occhi di tutti la moltiplicazione di accordi sottoscritti da soggetti non del tutto rappresentativi che hanno contribuito alla corsa al ribasso per certe categorie. Del resto il problema dei contratti pirata (soprattutto nelle zone più depresse del Paese) è sempre poco dibattuto nonostante abbiano affiancato spesso il lavoro nero.

L’ex ministra del lavoro Catalfo disse: «Il salario minimo è da sempre un obiettivo mio e di tutto il Movimento 5 Stelle. Una risposta essenziale per contrastare il cosiddetto dumping salariale, riequilibrare il sistema di concorrenza interna fra le imprese e ridare dignità e futuro ai “working poor” (i lavoratori poveri) e alle loro famiglie. Una risposta che la crisi innescata dalla pandemia ha reso ancora più urgente e necessaria e sulla quale, come Italia, dobbiamo investire con determinazione nel nostro progetto di rilancio».

E quindi? E ora? Il Pd e il M5s che dicono?

Buon giovedì.

(nella foto il ministro del Lavoro Andrea Orlando)

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Insozzare la Liberazione

Ci sono molti modi di insozzare il 25 aprile, ognuno con il proprio stile ma tutti tesi (come un braccio teso) per svilire e in fondo per provare a non scontentare i fascisti. Siamo ancora al punto in cui almeno si vergognano di leccare spudoratamente i fascisti e quindi provano ad accarezzarli di sponda. Almeno questo.

Giorgia Meloni se la gioca (come era immaginabile) trasfigurando la libertà di andare al ristorante e mette in mezzo partigiani (senza citarli, sia mai) e lavoratori provando a innescare la solita guerra tra disperazioni: “La libertà, mentre la celebriamo, non è più scontata – scrive – a oltre 70 anni dall’inizio della nostra Repubblica democratica, e ad oltre un anno dall’inizio della pandemia, il governo ancora pensa di potersi arrogare il diritto di decidere se e quando gli italiani possano uscire di casa. Appello a tutti coloro che credono nel valore della libertà: aiutateci ad abolire il coprifuoco“. Insomma: il coprifuoco è il nuovo fascismo, dice Giorgia Meloni. Complimenti.

A ruota arriva Salvini, che ormai è una Meloni in versione analcolica. Pubblica un video sui suoi social e urla: “Noi, donne e uomini liberi d’Italia, chiediamo la cancellazione dell’insensato COPRIFUOCO e la riapertura di TUTTE le attività nelle zone (gialle o bianche) in cui il virus sia sotto controllo’. Al momento le adesioni sono 7.750. Nel video pubblicato sul web, Salvini aggiunge: “Se saremo 10mila è un conto, se saremo 100mila o un milione… Oggi è la giornata della Liberazione. Io e la Lega daremo l’anima dentro al governo, perché le le battaglie si combattono stando dentro e non uscendo o scappando, cercando di limitare la prepotenza di chi vede solo rosso, divieti, chiusure e coprifuoco”. Insomma, una Giorgia Meloni al maschile con la differenza che lui sta al governo con quelli che vorrebbe pugnacemente combattere. Un eroe.

Pietro Ichino prova a allargare il campo riuscendoci male: “La Festa della Liberazione non può ridursi a un’acritica celebrazione dell’epopea partigiana: deve essere anche occasione per riflettere sulle responsabilità delle forze antifasciste nell’avvento della dittatura”. Benissimo: poi scriviamo un saggio sulla colpa degli ebrei che la Shoah se la sono andata a cercare.

Il sindaco di Codogno Francesco Passerini dimostra di essere più pandemico della pandemia rifiutando di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini con motivazioni che fanno spavento: “Codogno diede l’onoreficenza a Mussolini nel 1924, fu una iniziativa nazionale dell’Anci del tempo. E’ un atto storico, come quando Napoleone ha dormito a Codogno e poi andò a Lodi a far guerra. Non è che poi è venuto giù il palazzo dove dormì. Abbiamo anche alcune strutture che ricordano il periodo fascista, come Villa Biancardi che è ancora lì. E per fortuna. Non si può pensare di cancellare e demolire tutto perché costruito da una parte della storia ‘particolare’”. Insomma erano particolari, mica fascisti.

Fenomenale anche il sindaco di Salò: “Dopo la caduta del Fascismo – dice all’opposizione che chiedeva simbolicamente di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini – sui banchi dove state ora accomodati, si sono seduti uomini che di antifascismo e lotta partigiana potevano sicuramente fregiarsi di sapere tanto, tanto più di Voi, e di Noi, avendo fatto parte personalmente di quella lotta, avendoci messo la faccia e, avendo spesso, rischiato la vita per gli ideali in cui credevano. Eppure queste persone non si posero, allora, il problema della Cittadinanza onoraria”. Insomma: se non l’hanno fatto gli altri io mi sento assolto.

Sceglie la linea del banalissimo e goffo provocatore anche il professore universitario Riccardo Puglisi, star presso se stesso su Twitter, che ci butta un po’ di liberismo d’accatto: “Mi sembra di capire che parecchi partigiani comunisti volessero passare direttamente dalla liberazione alla dittatura del proletariato”. Che spessore, ma dai.

Infine lui, Renzi: “Oggi è festa di libertà. Memoria di chi ha combattuto per salvarci, impegno per il futuro. Rileggere oggi le lettere dei condannati a morte della resistenza commuove e spalanca l’anima”. Non è festa di libertà ma festa della Liberazione dal nazifascismo, ma figurati se riesce a dirlo. E scrive “resistenza” in minuscolo, genio. Però la festa della libertà, se gli può interessare, si festeggia proprio domani in Sudafrica. Sempre che non abbia impegni dal principe saudita.

Buon lunedì.

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Sindaco nega la cittadinanza a Liliana Segre, ma invitava Jennifer Lopez a trasferirsi nella sua città

Uno degli atteggiamenti più ridicoli e osceni di una classe politica inetta e in malafede consiste nel tentativo di dare spessore politico a piccoli odi personali, a deprimenti battaglie di quartiere e decisioni prese per posa senza nessun pensiero dietro. Ogni volta che un politico, di qualsiasi grado, si dimena per giustificare prese di posizione con motivazioni vuote appare per quello che è: piccolo, molto piccolo.

Gualdo Cattaneo è un piccolo comune di 5.000 abitanti in provincia di Perugia. Anche qui, come accade in tutte Italia, in consiglio comunale è arrivata la mozione per assegnare alla cittadinanza onoraria a Liliana Segre come presa di posizione nella lotta all’odio, alla violenza e al razzismo. Il sindaco di Gualdo Cattaneo, tal Enrico Valentini, è contrario. Posizione legittima, certo, solo che ogni volta che si nega di prendere posizione verso un certo periodo storico è curioso sentire le più disparate motivazioni e il sindaco e la sua maggioranza si sono superati.

Durante la seduta di consiglio che ha bocciato la mozione il sindaco, tra risate generali, ha spiegato che Liliana Segre “non può essere cittadina onoraria di Gualdo Cattaneo perché non ha legami storici con il territorio, non rappresenta il nostro Comune, non ha vissuto qui”. Ci sarebbe da discutere sul fatto che la cittadinanza solitamente va data a una persona per i valori che incarna e non per il fatto che abbia una casa per le vacanze nella piazza locale, ma Valentini dice che sulla Segre c’è in corso “una strumentalizzazione”: strumentalizzare la libertà, la lotta al fascismo e al nazismo e la democrazia è un chiodo fisso di certi amministratori. Ma tant’è.

L’aspetto grottesco però è che quel Enrico Valentini è lo stesso Enrico Valentini che un anno fa in un suo post su Facebook si era esibito in una lunga lettera a Jennifer Lopez in cui invitava la star americana a trasferirsi nel suo paese elencandole tutte le caratteristiche del luogo, dalla “gianna” che tira, al tartufo bianco e nero, le lumache alla pomontina, la porchetta, la frittella di Pozzo, il presepe di Marcellano. “Per ovvie ragioni legate alla distanza , ‘scelte lavorative e di vita differenti’ non ci conosciamo direttamente anche se ,da qualche parte, credo di averti visto nonostante fatichi a ricordare il dove”, scrive il prode sindaco, tutto barzotto e simpatico (e con evidenti problemi di punteggiatura).

Quindi funziona così: evidentemente Jennifer Lopez incarna lo “spirito” del sindaco, Liliana Segre no. E non c’è altro da aggiungere, mi pare.

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Aria fritta in Lombardia: persino la Corte dei Conti certifica il fallimento della Giunta di Fontana

Avviso a tutti quelli che si ritengono vittime di un non meglio precisato “spirito anti-lombardo” ogni volta che si scrive del disastroso stato di Regione Lombardia in campo sanitario e delle enormi falle in questo anno di pandemia (Fontana e Moratti in testa): c’è un documento di 331 pagine della Corte dei conti (Sezione regionale di controllo per la Lombardia) che mette nero su bianco il disastro della cricca leghista certificando il fallimento di Aria, la società per l’innovazione e gli acquisti del Pirellone, che proprio Fontana insisteva nel presentare come “fiore all’occhiello” di questa amministrazione.

Aria nasce nel 2019 fortemente voluta dalla Lega per “ridurre gli sprechi” e per provare a cancellare gli scandali che da anni travolgono la sanità lombarda. La Corte dei conti la descrive come un consulentificio per il “continuo ricorso ad incarichi esterni, con particolare riferimento a quelli legali, nonché una non significativa rotazione degli stessi”, una società con poco staff, che spende troppi soldi in consulenti spesso troppo ben pagati e che ha mancato il proprio scopo primario perché non partecipa “alla programmazione degli acquisti degli enti del Sistema sanitario regionale” e neppure “dispone dei loro piani biennali”. Per questo gli ospedali continuano il loro “sistematico ricorso a richieste di acquisto ‘estemporanee’”.

Tutto questo mentre la Giunta non ha “piena consapevolezza” della distanza tra la realtà e il traguardo, visto che non è stato adottato “alcun intervento correttivo”.

Forse adesso a qualcuno potrà risultare più chiaro perché in Lombardia la gestione del contenimento della pandemia prima e la gestione dei vaccini poi sia stata un’imperdonabile sequela di errori che poco hanno a che vedere con Gallera: la sanità lombarda era un coacervo di amici degli amici sotto la guida di Formigoni e continua ad esserlo nonostante la riverniciata leghista. Come avrebbe potuto Aria gestire i vaccini se non riesce nemmeno a gestire l’attività ordinaria per cui è stata creata?

E cosa serve d’altro per rendersi conto che siamo di fronte a un fallimento sistemico che non si risolve con gli annunci di Bertolaso o con le promesse di Letizia Moratti? Anche perché si sta parlando di un malfunzionamento che non ha provocato disagi o ritardi: si continua a contare gli infetti, i morti e i vaccini che stanno andando sparsi e a rilento.

Cosa altro serve per certificare il fallimento di una classe dirigente incompetente, inconsapevole e pericolosa?

Leggi anche: Vaccini, Regione Lombardia poteva usare gratis il portale di Poste ma ha deciso di spendere 22 milioni per Aria Spa (di L. Zacchetti) // Prima ha depredato la Sanità lombarda, ora gli restituiscono anche il vitalizio (di G. Cavalli)

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Mamma schiava, cucina e lava

A Matera il Consiglio comunale ha deciso di tagliare pesantemente le risorse destinate ai servizi di mensa scolastica ed asili nido: una scelta in netta controtendenza con quello che accade nel resto d’Italia e un po’ dappertutto in giro per il mondo. Ma l’aspetto più inquietante della vicenda sta nelle parole del consigliere comunale Michele Paterino, promotore dell’emendamento di bilancio che è stato osteggiato perfino dalla presidente della Commissione Bilancio, Adriana Violetto: «La gran parte delle madri che fruiscono del servizio sono casalinghe», ha detto Paterino e quindi, a suo dire, possono occuparsi dei figli.

Come fa giustamente notare la segretaria di Filcams Cgil Matera, Marcella Conese: «A parte le svariate riflessioni sulle motivazioni che hanno determinato l’assise comunale a prendere questa decisione e sulla idea inquietante di società che traspare dalle dichiarazioni del consigliere che ha presentato l’emendamento, in cui le donne devono stare a casa a curare bambini e mariti, sfugge un fatto inequivocabile ed oggettivo: la riduzione delle risorse determinerà una riduzione di posti di lavoro (occupati prevalentemente da donne) sia nella mensa scolastica che negli asili nido».

Il consigliere Paterino è l’esempio perfetto di politici (più o meno importanti) che continuano a non rendersi conto (o che non vogliono rendersi conto) che occorre rendere universali servizi che troppo spesso vengono intesi come individuali e che si intrecciano con la condizione femminile: sono moltissime le donne costrette a rinunciare al lavoro proprio perché non esistono servizi di sostegno all’infanzia o perché sono troppo costosi. Poi, volendo, si potrebbe anche discutere del fatto che siano le donne a doversi occupare di questo per una gran parte del pensiero generale. Ma su questo c’è ancora molto da lavorare.

Poi c’è un trucco che viene spesso usato e che vale la pena notare: i servizi vengono rivenduti come “privilegi” concessi dalla politica, con la continua pretesa che i cittadini siano addirittura “grati” per ciò che invece gli spetta. Anzi: la politica è lì proprio per quello. Ed è un gioco sottile che trasforma i diritti in privilegi ed è pericolosissimo. Per questo va combattuto con forza.

Qualcuno dica al consigliere Paterino che è riuscito nella mirabile impresa di essere la sintesi di tutto quello che non ci piace. Bravissimo, complimenti.

Buon venerdì.

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