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Uno vale uno ma congresso lo stesso

Ma chi dovrebbe volere un congresso, la scelta di un capo in un partito in cui gli unici capi avrebbero dovuto essere gli elettori e in cui semplicemente serviva un garante per il rispetto del regolamento interno? A proposito di regolamento interno: perché Di Maio avrebbe dato il via libera all’abolizione della regola dei 2 mandati (in particolare alle sindache Virginia Raggi e Chiara Appendino), in quale veste. E poi: chi c’è dietro l’estromissione di Casaleggio dagli ultimi movimenti interni al Movimento 5 Stelle? Oltre al non invito agli stati generali dell’economia a Casaleggio ormai ben pochi parlamentari versano i 300 euro mensili per l’Associazione Rousseau. A proposito di soldi: che fine hanno fatto i tagli agli stipendi degli eletti (fatevi un giro sul sito tirendiconto.it per verificare con i vostri occhi) e i famosi mega assegni che Beppe Grillo mostrava (giustamente) soddisfatto con tutte le restituzioni?

E poi: Beppe Grillo? Del Movimento 5 Stelle (a parte quelli comodamente seduti al governo) si sente solo la voce di ritorno di Alessandro Di Battista che ora torna alla carica per riprendersi in mano il Movimento (con posizioni completamente opposte ai suoi compagni di partito sul Mes che “non rispetterebbe gli interessi nazionali”, detto come un Salvini qualunque, e contro Conte che se vuole fare il leader “deve iscriversi al M5S”, come se non sapesse che il progetto di Conte è tutt’altro). Quelli che “uno vale uno” ora vogliono fare un congresso perché uno valga più degli altri, un altro dopo Grillo, dopo Casaleggio e dopo tutti quelli che in realtà valevano di più ma non avevano il fegato di ammetterlo.

Allora facciamo una cosa, cari amici del Movimento 5 Stelle: riconoscete che la maturazione di un movimento in forma-partito è la naturale sequenza delle cose in politica, riconoscete che molta dell’innovazione che avete sventolato è stata perlomeno annacquata (per usare un eufemismo) e mettetevi a fare politica con gli organi democratici che la Costituzione prevede. Semplicemente. Avrebbero dovuto aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e ora sono i tonni pronti a farsi pescare dal nuovo leader all’orizzonte. È normale, accade sempre così. E chissà se qualcuno nel Partito Democratico comincia a capire che questa alleanza (e questo governo) poggia su un Movimento che non è mai stato in movimento com’è adesso.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

In Lombardia i contagi si impennano di nuovo. Ma nessuno ne parla, tantomeno Fontana e Gallera

Che strano animale è questa narrazione tossica del Covid che si adagia sulle diverse fasi, cambia registro ogni volta che bisogna spingere ad aprire tutto prima e chiudere tutto poi. Ora provate a chiudere gli occhi e tornate con la mente al periodo della quarantena nazionale, quando tutti rimasero al guinzaglio del terrore rinchiusi in casa mentre ogni giorno si svolgeva la messa laica della Protezione Civile che snocciolava dati, infetti, decessi e guariti. Immaginate lì, in uno a caso di quei giorni, una Lombardia con un nuovo picco dei contagi che contiene il 66,4% dei nuovi contagiati totali su tutto il territorio nazionale, immaginate di sapere (perché è così) che solo oggi stanno facendo tamponi a persone che si sono ammalate talmente tanto tempo fa che sono già guarite (o morte) e che hanno dovuto affidarsi al proprio buonsenso per non infettare gli altri e per rimanere chiusi in casa senza essere registrati, tracciati e seguiti da nessuna Ats.

Immaginate un sindaco di una città importante come Bergamo, come Giorgio Gori, che scriva quello che ha scritto ieri quando ha dichiarato senza mezzi termini: “Leggo che in Lombardia ieri ci sono stati 32 decessi per Covid. Non si sa però dove, in quale provincia, perché la Regione non comunica più i dati divisi. Da quando abbiamo segnalato che i decessi reali erano molti dpiù di quelli ‘ufficiali’, hanno secretato i dati per provincia” e che “neppure i dati sui guariti vengono più comunicati, e sì che sarebbero importanti per capire che oggi le persone ammalate sono poche” e che “non vengono comunicati neanche i dati dei positivi Covid divisi per singolo comune”.

Tutto questo mentre diverse Procure indagano sulla mancata istituzione della zona rossa tra Alzano e Nembro e sulle troppe morti all’interno delle RSA lombarde. Immaginate quei numeri se fossero serviti per giustificare una chiusura totale e osservateli oggi come vengono bisbigliati per non disturbare l’apertura e l’operosità che non si può fermare: i numeri possono diventare opinioni quando serve. E notate, tanto che ci siete, il silenzio dei virologi, l’attenzione caduta delle trasmissioni televisive e la mancanza dei grandi pareri di opinionisti di ogni sorta. Il virus è finito, hanno deciso così, e per finirlo basta smettere di raccontarlo e fare passare tutto come una semplice naturale lunga coda. I morti di questi giorni sono morti accidentali, i contagiati sono laterali. Stiamo a posto così. Che strano animale è questa narrazione tossica del Covid che riesce sempre a essere perfetta per il duo Fontana e Gallera.

L’inchiesta di TPI sulla mancata chiusura della Val Seriana per punti:

L’articolo proviene da TPI.it qui

“Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego

Igiaba Scego è una scrittrice di origini somale che vive a Roma. Da sempre si occupa di stranieri, di integrazione e di diritti. Il suo ultimo libro è “La linea del colore” edito da Bompiani che ha come protagonista una donna afroamericana dell’ottocento che scopre l’Italia. L’abbiamo intervistata per TPI.

Negli USA è in atto una vera e propria rivoluzione culturale. Lei si occupa da anni di questi temi, come vede la narrazione di ciò che accade?
Due tipi di narrazione. Quella dei media mainstream che non hanno capito niente di quello che sta succedendo: stanno osservando questi movimenti con delle lenti molto vecchie e anche sbagliate. Quando mi tolgo gli occhiali io che sono miope vedo tutto sfocato e molti media mi hanno dato questa stessa sensazione, tranne alcune eccezioni come la giornalista de Il Manifesto Marina Catucci, veramente puntuale, Arianna Farinelli, Martino Mazzonis. Questo mi ha meravigliato perché l’immaginario statunitense è molto popolare, si pensa “almeno li conosciamo” e invece no. Noto la stessa nebulosità che scorgo quando si parla di Africa. Poi per fortuna c’è quella che arriva da giornali e esperti in lingua originale. E devo dire che è quello che mi ha aiutato ad orientarmi. Per esempio non mi perdo mai i commenti della professoressa Ruth Ben Ghiat che da anni ci spiega i meccanismi dello stato americano.

Quale distorsione nota più delle altre?
Questo parlare di saccheggi piuttosto che parlare del cuore del movimento. Molti giornali non hanno raccontato ai lettori cosa c’era prima, quei 400 anni di oppressione. Mancano ponti tra qui e lì. Io sono scrittrice e la stessa cosa la vedo nell’editoria: l’editoria italiana ha pubblicato negli ultimi anni moltissimi afroamericani ma non c’è stato quel passaggio necessario da editoria ai giornali e media in genere che aprisse un sano dibattito su questi libri e permettesse una loro diffusione anche scolastica.

Quindi si è perso ciò che è avvenuto negli anni precedenti, non ci sono stati ambasciatori e ponti. Si arriva così a non capire perché questa lotta è così lunga, non si riflette sulla genesi della schiavitù, questo è un grosso gap scolastico che non ha permesso a molti italiani di capire fenomeni come schiavitù, segregazioni negli USA e perfino lotte per i diritti civili. Pochi hanno letto Toni Morrison, anche tra i professionisti dell’informazione. E quindi mi ha colpito questo indugiare su aspetti marginali senza andare al cuore del problema. Manca una preparazione all’America, io ho visto “molta ignoranza”. Molto non sapere. Quello che si conosce è solo superficiale.

Negli USA il dibattito si è aperto non solo sulla violenza che ha portato per ultimo alla morte di Floyd, ma anche sulla profilazione razziale delle Forze dell’Ordine. C’è un razzismo insito anche nella gestione italiana secondo lei?
Sulla polizia non saprei dirti. Posso dirti che loro, negli USA, hanno questa storia di schiavitù ma da loro anche chi è contro i neri sa cosa è successo mentre in Italia quello che c’è dietro di noi, come il colonialismo, non è molto conosciuto, c’è una rimozione totale e non ci fa capire che quegli stereotipi continuano a agire sui corpi del presente. A me ha sempre colpito come per esempio le leggi italiane sull’immigrazione si basino quasi sempre su un modello astratto, su questo cosidetto altro che non è un potenziale cittadino ma un potenziale suddito coloniale, il modello è quello del sudditto somalo, eritreo o libico dei tempi del colonialismo italiano. si continua cos’ a perpetuare l’idea dello straniero nella legislazione come suddito, una persona senza diritti.

Non è un caso che la Bossi-Fini e i Decreti Sicurezza più la mancata riforma sulla cittadinanza siano delle costanti nella politica italiana, perché vale lo ius sanguinis e non lo ius soli o lo ius culturae, un Paese trincerato nel suo sangue che poi se lo andiamo a “analizzare” storicamente questo famigerato sangue risulta essere è quello più meticcio del mondo. Questo mi sconvolge, questa storia passata mai discussa che si ripresenta in forma di legge e ci incasina il presente, il modello è ancora quello coloniale sarebbe interessantissimo che i giuristi ci lavorassero su questo, su come decolonizzare le leggi perché sono troppo pieni di passato.

Vede dei casi di razzismo endemici in Italia, anche da parte di quelli che non sono consapevolmente razzisti?
Il razzismo in Italia non è solo anti nero ma è anche anti meridionale. Ad esempio due ore fa stavo andando al supermercato, dove due persone stavano litigando e un signore ha detto a una signora “sporca calabrese”. Qui c’è una questione meridionale che è la mamma di tutti i razzismi italiani, quello che è stato fatto al Sud è lo stesso trattamento riservato alle colonie. Quando avevo 25 anni avevo fatto un colloquio di lavoro vestita come sono sempre vestita e la persona che avevo davanti mi ha detto “lei è musulmana, si vede” io gli ho detto “deve farmi colloquio di lavoro” e lui “ma voi volete pause di preghiera e ramadan”: sono uscita e ho pianto, è un razzismo altrettanto umiliante. Ho smesso perché ai tempi mi vedevano e mi dicevano sempre no. Lo vedi dallo sguardo e poi c’è stato tanto razzismo biologico, dalle elementari mi chiamavano sporca negra e mi hanno buttato un barattolo di coleotteri in testa “perché sono neri come te”. Oppure odiavo negli anni ’90, ero ancora adolescente, quando si fermavano le macchine mentre stavo alla fermata ad aspettare il bus e ti facevano vedere i soldi chiedendo sesso orale, perché nera significava prostituta.

Io ho imparato a schivarli anche. Ho imparato a reagire. Mia madre dice che il razzismo non lo combatti urlando, ma lo combatti con la riflessione e la conoscenza anche quando sei nel mezzo del disastro, lei mi ha sempre detto di uscirne con una frase arguta, è l’unico modo. Mia madre, James Baldwin e Malcom X sono stati i miei maestri nell’usare la riflessione, le parole, per questo scrivo. Volevo capire come mai mi succedevano una serie di cose e volevo capire qual era la radice, sempre storica. In tutto questo ho trovato molti alleati, penso alla mia professoressa di italiano alle superiori, ai professori universitari che mi hanno dato strumenti che mi hanno cambiato la prospettiva. Sandro Portelli mi ha insegnato molte cose della vita, con l’Italia che ha tutte l sue complicazioni. Ho applicato la strumentazione che loro hanno applicato alla loro lotta e alla loro riflessione teorica.

Come le sembra il dibattito politico italiano sul tema?
Qui non c’è dibattito. Qui il dibattito è finito con il tradimento sulla legge sulla cittadinanza. Poi si è riesumato un discorso sulle regolarizzazioni molto mercantile. Io ho questa sensazione di tante lotte fatte anche collettive: afrodiscendenti, albanesi, arabi, sudamericani, i loro figli nati qui italiani senza diritti e poi anche moltissimi italiani bianchi… Ecco tutti noi ci siamo ritrovati dal 2005 fino al governo Renzi a lottare in piazza, cambiavano le piazze, c’erano tanti bambini e tecnicamente con le scuole abbiamo lavorato moltissimo (penso a due scuole di Roma in particolare la Pisacane e la Di Donato i cui professori si sono spesi tantissimo per far avere diritti ai loro studenti) , però poi questa lotta è stata tradita da tutto l’arco costituzionale: la destra ha fatto ostruzionismo ma gli altri l’hanno reso possibile ed è una cicatrice che mi fa molto male.

Poi c’è stata la raccolta firme dei Radicali e quella era una buona iniziativa ma poi a causa degli eventi caduta nel vuoto e adesso il dibattito è stato sulle regolarizzazioni perché servivano braccia per l’ortofrutta e basta. Queste persone cadono in irregolarità per un meccanismo della Bossi-Fini, sono ricattabili in situazione di pandemia, dovremmo avere più persone regolari possibili ma così è stato un mercato degli schiavi. Io capisco gli sforzi di chi ha chiesto la regolarizzazione ma il risultato è stato misero. Servirebbe più coraggio: l’Italia non può pensare che sia un tema possibile da scacciare in eterno, il Paese è già cambiato, io alla manifestazione per George Floyd a Roma ero con i miei 46 anni vecchia in confronto a chi è sceso in piazza. Tu vedi che hai seconde e terze generazioni, più di 50 anni di popolazione transculturale che ha varie origini. Ma ancora tutto questo non si trasforma in quotidianità. E come se ci fossero enormi barriere. Così non vedi maestri, autisti dell’autobus, professori con altra origine: alcuni luoghi del lavoro non sono al passo con i tempi. Anche nell’editoria.

Lei è fiduciosa che la lezione che arriva dagli USA possa avere un impatto importante anche qui?
Secondo me quella americana è una grande rivoluzione culturale perché gli afrodiscendenti sono legati tra loro, è una rete, per noi sono un modello e quello che sta succedendo negli Usa è clamoroso, è una rivoluzione culturale, non è solo rabbia per Floyd ma è un momento che è stato preparato negli ultimi 20 anni. Da loro la cultura è sempre stata forte, nella musica nella letteratura, i premi Pulitzer quest’anno molti erano neri e penso al disco di Beyoncè di alcuni anni fa tutto sull’identità nera. Questo forse spingerà pure noi qui ad avere una riflessione più ampia e profonda, probabilmente ci spingerà a produrre più libri, più musica, più film, più lotte sociali e non solo afrodiscendenti, perché l’Italia ha una migrazione a mosaico, complessa, fatta di tante diversità che vanno dall’Est Europa al Sudamerica.

Già vedo dei talenti per esempio del giornalismo come Angelo Boccato e Adil Mauro che non parlano solo di immigrazione o della loro identità, ma usano il loro sguardo per riflettere sui nodi della società. Adil e Angelo mi fanno ben sperare per il futuro. Ma ecco tutto deve partire da una riflessione anche storica che attraversa il dolore che abbiamo provato, In Italia nel 1979 un uomo somalo, Ahmed Ali Giama, in piazza della Pace a Roma è stato bruciato viva e Giacomo Valent nel 1985 è stato ucciso con 63 coltellate, era il fratello della prima eurodeputata nera Dacia Valent, ho scritto per Feltrinelli su questo (“Politica della violenza”, Feltrinelli Editore). In Brasile c’è stata Marielle Franco e ognuno sta producendo cultura e rivendicazioni partendo dalle proprie ferite, dai propri martiri e chiaramente questo momento rimarrà a lungo e potrà provocare cambiamenti perché i cambiamenti sono sempre prima culturali e poi sociali.

Leggi anche: 1. Quanti contagi possono causare le proteste in Usa? Un virologo ha provato a calcolarlo / 2. Si sposano in mezzo alla protesta per George Floyd a Philadelphia: “È stato ancora più memorabile” /3.  George Floyd, Minneapolis smantella il dipartimento di polizia: “Vogliamo un nuovo modello di sicurezza” /4. Banksy e l’omaggio a George Floyd: “Il razzismo è un problema dei bianchi”

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Il razzismo in divisa ha ammazzato ancora: e ora, caro Trump, è il momento di provare vergogna

È successo ancora. Succederà ancora. Come quando accade un incidente, che ne so, di un treno e tutti i giornali si mettono a scovare i più piccoli disguidi dei viaggi dei treni, così negli USA si moltiplicano le segnalazioni e le notizie delle violenze della polizia sua afroamericani. Solo che in questo caso Manuel Ellis è morto, a soli 33 anni, dopo un pestaggio violento in cui la divisa è solo un elemento scenografico di un pestaggio della peggior specie, niente a che vedere con il ruolo pubblico e la responsabilità che ci si aspetterebbe da un tutore della legge. È morto perché, dicono i poliziotti, ha aggredito lui per primo, come nelle risse fuori da scuola in cui la legge del taglione o l’abuso di una difesa sia una cosuccia normale da giustificare come un incidente di percorso.

Eppure che Manuel Ellis sia stato ammazzato lo dice chiaramente il medico legale e ora altri quattro poliziotti, dopo il caso Floyd, si ritrovano sotto i riflettori per l’uso sconsiderato della forza. Se sei nero, dalle parti degli USA, rischi di essere processato per direttissima dalle suole delle scarpe di chi dovrebbe garantirti giustizia.Il video rimbalzato sulle pagine del New York Times lascia poco spazio ai dubbi e infervora ancora di più una protesta che ha assunto proporzioni più ampie del solo sdegno per una morte. Oggi negli USA si critica uno sdoganamento della violenza come mezzo per controllare l’ordine pubblico e che la violenza chiami solo violenza è uno di quegli insegnamenti che di solito vengono dati fin da bambini e che hanno chiaro quasi tutti, escluso il presidente del Paese più potente del mondo.

Ora il giochetto sarà sempre lo stesso, quello che non è solo americano: lamentarsi per lo spirito poliziottofobico dell’opinione pubblica e per il troppo spirito indagatore dei media. Di solito quando un potere non riesce a fare smettere che accada una vergogna si concentra sul non farla raccontare, come se potesse funzionare un silenzio omeopatico che vorrebbe fare sparire i fatti. Di certo Manuel Ellis è morto e anche di questo cadavere qualcuno dovrà rispondere. Tra l’altro Trump ha anche la sfortuna che l’omicidio sia avvenuto ben prima delle proteste (sarebbe stato fin troppo facile dare la colpa ai contestatori) e ora dovrà inventarsi qualcosa di nuovo, probabilmente di stupido. E l’aspetto peggiore di tutta la vicenda è che probabilmente lo farà presto e senza nemmeno troppa fatica e troppa vergogna.

Leggi anche: 1. “Non riesco a respirare”. L’arresto, le botte: così è morto Manuel Ellis. Ricostruzione del caso / 2.Il sindaco di Minneapolis si inginocchia e piange davanti alla tomba di George Floyd | VIDEO/3.George Floyd, il rapper Kanye West dona 2 milioni di dollari e paga l’istruzione della figlia Gianna/4. Il video postumo di George Floyd, lo straziante appello ai giovani sulla non violenza

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Preparatevi: Salvini e Meloni per il 2 giugno faranno qualcosa di grosso per farsi notare a tutti i costi

Preparatevi perché domani il duo Salvini-Meloni proverà a fare più schizzi possibile per farsi notare e per ricordarci che esistono ancora. Scomparsi dal radar dell’agenda politica, infilati nella guerra al’Europa che invece ha dimostrato di esistere nel sostegno economico all’Italia, rinchiusi nella guerra agli Stati che non vogliono italiani in vacanza dimenticandosi del loro rincorrere chiusure e frontiere e ora balbettanti di fronte a una Festa della Repubblica che vorrebbero usare per racimolare qualche minuto di attenzione. Forti Meloni e Salvini, festeggiano il 2 giugno senza sapere che non ci sarebbe stato nessun 2 giugno senza il 25 aprile. E per farsi notare un centimetro in più avevano deciso di farsi un bel video deponendo una corona d’alloro ai piedi del Milite Ignoto, sostituendosi al Presidente della Repubblica per fare una foto spalmare sui social.

Simpatica la Meloni che si dichiara inorridita per non avere ricevuto l’autorizzazione di fare la controfigura, la brutta copia, del Presidente Mattarella. Ora dovrà inventarsi in tempi brevi qualche altra sceneggiata. E forte anche Salvini che al 2 giugno non si è mai fatto vedere (l’anno scorso lo festeggiava in Polonia camuffandosi da provincialissimo uomo internazionale) e che ora si dimostra fieramente innamorato di quella stessa bandiera italiana su cui ha sputato per anni. Visti da lontano i due sono un indecente spettacolo di quello che diventa la politica quando ha bisogno di trasformarsi in recita pur di farsi notare: spettacoli che durano solo il tempo di qualche articolo su qualche giornale mentre si consuma una guerra fratricida. Eh sì, perché nel centrodestra italiano tira anche una brutta arietta mica male con gli uomini di Forza Italia europeisti che stonano con gli altri due, con Salvini terrorizzato da Giorgia Meloni lanciata nei sondaggi e pronta a oscurarlo e Fratelli d’Italia che si sforza di essere di destra senza farsi superare a destra dai partitini di destra ma che deve essere moderata per andarsi a prendere i voti dei moderati. Sullo sfondo, come sempre, i fascisti in piazza rinchiusi nelle loro piccole sigle da prefisso telefonico per risultati elettorali.

Preparatevi perché la pandemia e la politica europea richiedono ai due commedianti di fare qualcosa di grosso, di dire qualcosa di forte per rubare qualche inquadratura: sarà il solito indecente spettacolo. Sarà l’ennesima festa nazionale usata per scopi di propaganda. Pronti a tutto e al contrario di tutto.

Qui gli altri articoli di Giulio Cavalli

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La sinistra deve tornare a parlare in maniera chiara e netta

Ivano (come altri) è riuscito a creare più comunità lui in qualche minuto di decine di dirigenti in decine di anni riuscendo a essere chiaro, comprensibile e autentico. Come è possibile che a certi dirigenti di sinistra non venga il dubbio che il successo di queste dichiarazioni estemporanee sia inversamente proporzionale alla continua e bolsa riproposizione di classi dirigenti che hanno già fallito?
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Berlusconi ha già cominciato la campagna acquisti. Il prossimo centrodestra è già putrido

“Non si dice mai di no a chi dice ‘Sottoscrivo il vostro programma’. Noi saremmo molto convenienti per loro perché potrebbero incassare interamente l’indennità parlamentare”: la frase è stata pronunciata da Silvio Berlusconi durante un’intervista al Corriere della Sera e i “loro” di cui parla sono i transfughi del Movimento 5 Stelle che, nonostante siano stati “espulsi” dal Movimento, saranno eletti (per merito di una pessima legge elettorale, giova ricordarlo) e andranno a rimpinguare un Gruppo misto che si preannuncia già folto fin dall’inizio della legislatura.

Stiamo parlando (per ora) di sei persone coinvolte nel cosiddetto caso “rimborsopoli”: Maurizio Buccarella, in lista al secondo posto per il Senato nel collegio Puglia 2; Carlo Martelli, al primo posto per il Senato nel collegio Piemonte 2; Elisa Bulgarelli, al terzo posto nel collegio Emilia Romagna 1 per il Senato; Andrea Cecconi, al primo posto per il collegio Marche 2 per la Camera; Silvia Benedetti, al primo posto in un collegio veneto per la Camera; Emanuele Cozzolino, al terzo posto in un altro collegio veneto sempre per Montecitorio; dei quattro candidati “massoni” (Piero Landi, candidato a Lucca; Catello Vitiello a Castellammare di Stabia, David Zanforlin a Ravenna e Bruno Azzerboni a Reggio Calabria), di Emanuele Dessì (amico del clan Spada e in affitto in una casa popolare a 7 euro al mese e candidato al Senato nel collegio Lazio 3, al secondo posto).

Ma non è questione solo di candidature sbagliate: qui si tratta di un recidivo (Berlusconi) che sfrontatamente dichiara di avere aperto la campagna acquisti per ambire a un gruppo parlamentare già dopato indipendentemente dal risultato elettorale. È il solito Berlusconi, quello pessimo a cui la storia ci ha abituato, quello che la Lorenzin e la Bonino da sinistra dichiarano come prossimo alleato naturale in nome della responsabilità. È lo stesso disco. Rotto. Vecchio. E quasi nessuno si indigna.

Buon mercoledì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/02/21/berlusconi-ha-gia-cominciato-la-campagna-acquisti-il-prossimo-centrodestra-e-gia-putrido/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

Quando l’italofobia era l’isteria collettiva

Fa bene ricordare, allenare la memoria. Per questo torna utile l’articolo di Giovanna Nuvoletti per La Rivista Intelligente:

Per decenni gli americani bianchi, i discendenti dei coloni, hanno odiato gli italiani in maniera feroce e sistematica. Dalla fine del XIX secolo agli anni ’30 del XX siamo stati probabilmente i più detestati e temuti.
Sbarcati a milioni, alla lettera, ci chiudevamo nelle nostre comunità, spesso ostaggi di connazionali che ci vendevano come schiavi di fatto. Non imparavamo la lingua, non mandavamo i bambini a scuola (ma a lavorare o a mendicare), rifiutavamo le nuove usanze e coltivavamo le nostre incomprensibili tradizioni.
Intorno al 1920 a New York arrivavano così tante navi da intasare il porto. Intercettate al largo, le imbarcazioni provenienti dall’Italia venivano dirottate verso Boston.
Eravamo classificati come “negroidi”: troppo vicini all’Africa, si diceva, per non avere “sangue negro” nelle vene. Prova ne fosse il colorito olivastro che TUTTI avremmo avuto.
Venivamo considerati un pericolo subdolo: a differenza di neri, asiatici e ispanici, gli italiani dalla carnagione più chiara potevano essere scambiati per bianchi, a un esame superficiale, quindi per noi era più facile “contaminare la razza bianca”.
Un italiano che intrattenesse una relazione con una donna bianca rischiava il linciaggio, come i neri.
Il Ku Klux Klan ci equiparava in tutto e per tutto ai neri: da impiccare al minimo pretesto, così prima o poi avremmo capito di restare a casa nostra.
Negli stati del sud ancora oggi perdura la convinzione che siamo non-bianchi, al pari degli ispanici.
[Nel 1973 Nixon, poco prima di essere spazzato via dallo scandalo Watergate, disse che eravamo diversi da loro, ci vestivamo in modo strano, puzzavamo di aglio ed era impossibile trovarne uno onesto.]

Immigrazione senza controllo
Immigrazione senza controllo

Anche gli altri immigrati ci odiavano. Accettavamo salari e condizioni di lavoro che ormai irlandesi, olandesi e francesi rifiutavano. Avevamo sostituito i neri nelle piantagioni, mandavamo all’aria le prime contrattazioni sindacali.
I meridionali soprattutto erano considerati “inadatti a imparare o mantenere qualsiasi lavoro, inclini per natura alla violenza”, incompatibili con lo stile di vita americano. Per un certo periodo siciliano o napoletano è stato sinonimo di “feroce bandito”.
Peccato che, per i loro esperti, il meridione cominciasse a Padova. Sotto Padova, tutti mafiosi; sopra Padova, invece, biologicamente stupidi, mentalmente inferiori al resto d’Europa.
Contro nessun altro si è scatenata una simile campagna di odio. Si arrivò a una vera e propria italofobia. Il principale veicolo di diffusione fu la stampa, sia quella ufficiale che quella clandestina, creata apposta per perseguitarci. Contro nessun altro è stata adoperata una tale mole di articoli denigratori, vignette insultanti, perfino canzoncine.
Ci rubano il lavoro, stuprano le nostre donne, non si vogliono integrare, corrompono il nostro spirito, si diceva. Chiudiamo le frontiere, bombardiamo le navi al largo, lasciamoli marcire nei porti, non facciamogli toccare terra, scrivevano i giornali.
Professano una strana religione, si insisteva, che niente ha a che fare con i nostri valori. Un misto di paganesimo e superstizione, impossibile da sradicare.
Eravamo raffigurati come orrendi sorci che nuotavano verso la riva con il coltello tra i denti. Venivano mostrati gli “argomenti” migliori per trattare con noi: gabbie, randelli, corda e sapone.
Giravano saporite barzellette: sapete quando un italiano vede il sapone per la prima volta? Quando lo impiccano

Tampa 1910 - Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati
Tampa 1910 – Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati

Ammazzare un italiano era di fatto tollerato. Bastava dire: “Mi ha aggredito lui” e la legittima difesa era scontata. Nemmeno si arrivava al processo. Caso chiuso.
Se vittima e assassino erano entrambi italiani, il disinteresse era quasi totale: finché ci ammazzavamo tra di noi andava bene.

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La dignità dell’errore. E delle scuse

Filippo Chiarello aveva 38 anni, due bambini piccoli e un intervento da fare alla colecisti in laparoscopia. Nell’ospedale Santa Sofia di Palermo ci è entrato con l’idea di doverne uscire in pochi giorni, pronto ad affrontare una di quelle operazioni che di questi tempi sono routine. E invece è morto. E fino a qui sembrerebbe l’ennesima storia di malasanità pronta a finire sui giornali (locali, perché la sanità è sempre argomento molto poco pop) e ad aprire una sequela giudiziaria tra cartelle cliniche, scarichi di responsabilità e assicurazioni trincerate in difesa.

Invece qui le porte della sala operatoria si sono aperte davanti alla faccia addolorata di un medico che si è dichiarato colpevole di un errore: «Ho spalancato le porte della sala operatoria, ho allargato le braccia e ho detto che era colpa mia. Mi sono sentito morire dentro, sulle facce dei parenti ho visto la disperazione – racconta il medico che ha fatto l’intervento – e mi assumo la responsabilità ma ci tengo a far sapere che non ero distratto, ero concentrato. La verità è che può capitare e i rischi degli interventi in laparoscopia sono dietro l’angolo».

 

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È che ci vuole il fisico, per sapere non fare la guerra

Angelino Alfano, ministro agli Esteri: «L’Italia comprende le ragioni di un’azione militare USA proporzionata nei tempi e nei modi, quale risposta a un inaccettabile senso di impunità nonché quale segnale di deterrenza verso i rischi di ulteriori impieghi di armi chimiche da parte di Assad, oltre a quelli già accertati dall’ONU».

Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio: «L’azione ordinata dal presidente Trump. È una risposta motivata a un crimine di guerra. L’uso di armi chimiche non può essere circondato da indifferenza e chi ne fa uso non può contare su attenuanti o mistificazioni».

Nicola La Torre, senatore del PD, presidente della Commissione Difesa al Senato: «L’azione USA è un’opportunità. Obama con Mosca sbagliava strategia. Ogni sforzo diplomatico era azzerato. L’attacco ha fermato la china criminale e può riaprire il negoziato».

Queste le dichiarazioni. E il commento, alla fine, non c’è nemmeno bisogno di scriverlo perché l’ha già detto come meglio non si poteva dire George Orwell nel 1938:

(continua su Left)