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Il gran rifiuto

Il ministro per il Sud Peppe Provenzano ritira la sua partecipazione a un convegno sul futuro del Paese in cui i relatori sono tutti maschi. A volte non esserci è un segnale che parla molto di più di qualsiasi presenza

“Me ne accorgo solo ora, è l’immagine non di uno squilibrio, ma di una rimozione di genere. Mi scuso con organizzatori e partecipanti, ma la parità di genere va praticata anche così: chiedo di togliere il mio nome alla lunga lista. Spero in un prossimo confronto. Non dimezzato, però”.

Sono le parole con cui Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud e la coesione territoriale. ha declinato l’invito a un tavolo virtuale in cui avrebbe dovuto confrontarsi con sindaci e docenti universitari e esperti sul futuro del Paese. Uno dei tanti convegni in cui gli invitati sono tutti maschi e in cui vengono superate a spallucce le critiche di chi fa notare che spesso si attua una totale rimozione di genere dagli eventi come se fosse una cosa normale e scontata.

Il gesto del ministro Provenzano però ci insegna anche qualcos’altro, prezioso di questi tempi: per contestare pratiche che non accettiamo e per reclamare diritti che rimangono troppo nascosti si può anche decidere di rifiutarsi di partecipare. A volte non esserci è un segnale che parla molto di più di qualsiasi presenza: l’assenza va dosata con intelligenza e con cura e contiene molti sensi.

Decidere ad esempio di non appartenere a un parterre che dell’appartenenza di genere fa il suo marchio di fabbrica è un gran rifiuto, composto e significativo, che ha molto da insegnarci. Spinge l’occhio a notare come il tuttimaschi sia una costante anche in ambienti dove esistono talenti e professionalità femminili. E le polemiche fatte sottovoce ogni tanto sono un’ottima lezione.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Preparatevi: Salvini e Meloni per il 2 giugno faranno qualcosa di grosso per farsi notare a tutti i costi

Preparatevi perché domani il duo Salvini-Meloni proverà a fare più schizzi possibile per farsi notare e per ricordarci che esistono ancora. Scomparsi dal radar dell’agenda politica, infilati nella guerra al’Europa che invece ha dimostrato di esistere nel sostegno economico all’Italia, rinchiusi nella guerra agli Stati che non vogliono italiani in vacanza dimenticandosi del loro rincorrere chiusure e frontiere e ora balbettanti di fronte a una Festa della Repubblica che vorrebbero usare per racimolare qualche minuto di attenzione. Forti Meloni e Salvini, festeggiano il 2 giugno senza sapere che non ci sarebbe stato nessun 2 giugno senza il 25 aprile. E per farsi notare un centimetro in più avevano deciso di farsi un bel video deponendo una corona d’alloro ai piedi del Milite Ignoto, sostituendosi al Presidente della Repubblica per fare una foto spalmare sui social.

Simpatica la Meloni che si dichiara inorridita per non avere ricevuto l’autorizzazione di fare la controfigura, la brutta copia, del Presidente Mattarella. Ora dovrà inventarsi in tempi brevi qualche altra sceneggiata. E forte anche Salvini che al 2 giugno non si è mai fatto vedere (l’anno scorso lo festeggiava in Polonia camuffandosi da provincialissimo uomo internazionale) e che ora si dimostra fieramente innamorato di quella stessa bandiera italiana su cui ha sputato per anni. Visti da lontano i due sono un indecente spettacolo di quello che diventa la politica quando ha bisogno di trasformarsi in recita pur di farsi notare: spettacoli che durano solo il tempo di qualche articolo su qualche giornale mentre si consuma una guerra fratricida. Eh sì, perché nel centrodestra italiano tira anche una brutta arietta mica male con gli uomini di Forza Italia europeisti che stonano con gli altri due, con Salvini terrorizzato da Giorgia Meloni lanciata nei sondaggi e pronta a oscurarlo e Fratelli d’Italia che si sforza di essere di destra senza farsi superare a destra dai partitini di destra ma che deve essere moderata per andarsi a prendere i voti dei moderati. Sullo sfondo, come sempre, i fascisti in piazza rinchiusi nelle loro piccole sigle da prefisso telefonico per risultati elettorali.

Preparatevi perché la pandemia e la politica europea richiedono ai due commedianti di fare qualcosa di grosso, di dire qualcosa di forte per rubare qualche inquadratura: sarà il solito indecente spettacolo. Sarà l’ennesima festa nazionale usata per scopi di propaganda. Pronti a tutto e al contrario di tutto.

Qui gli altri articoli di Giulio Cavalli

L’articolo proviene da TPI.it qui

Dalla “legge che tutti avrebbero dovuto copiare” a quella copiata male (apposta)

Ci avevano promesso di far tornare “il voto ai cittadini”. Destri, sinistri, cinquestelle, tutti d’accordo. Dopo avere scritto una legge incostituzionale (olè) hanno capito che il segreto stava semplicemente nel trovare un nome che sembrasse affidabile. Devono avere pensato a “Mercedes” o “Bmw” ma poi per problemi di marchio registrato si sono accontentati di “tedesco”.

Hanno scritto una legge elettorale che ci viene proposto come modello di rappresentatività e governabilità e invece non lo è. Rubo la spiegazione che mi ha dato, in una ricca conversazione ieri sera, il professore Andrea Pertici:

Saranno i partiti a scegliere gli eletti. Tutti i seggi sono attribuiti con sistema proporzionale sulla base sostanzialmente di una doppia lista bloccata: quella della circoscrizione (che al Senato è la Regione) e quella data dall’insieme dei candidati nei collegi uninominali della stessa circoscrizione (al Senato, Regione). Collegi uninominali dove non vince il candidato più votato ma semmai quello del partito più votato. E per non rischiare proprio nulla comunque il primo che passerà è il capolista del partito nella circoscrizione, dopo il quale si pescheranno i candidati nei collegi arrivati primi, poi gli altri candidati di lista e infine gli altri candidati dei collegi uninominali che hanno perso. Insomma, quello che conta è il partito. Quello che conta assai meno il nostro voto. Si parte da un modello europeo (questa volta il tedesco, si diceva) ma si finisce sempre con un sistema molto italico.

In pratica io voto il candidato che stimo nel mio collegio ma il mio voto premia prima il capolista bloccato.

 

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Giornata storta per i “taxi del mare” e così muoiono in 34 (almeno)

Da una parte c’è il comunicato stampa della Guardia Costiera italiana:

«Per uno sbandamento verosimilmente causato dalle condizioni meteomarine e dallo spostamento repentino dei migranti su un fianco dell’imbarcazione – si legge nella nota -, circa 200 migranti sono caduti in mare da un barcone con circa 500 migranti a bordo. L’immediato intervento delle navi ‘Fiorillo’ della Guardia Costiera e ‘Phoenix’ del Moas ha consentito di trarre in salvo la maggior parte dei migranti caduti in acqua. Trentaquattro, invece, i corpi senza vita recuperati in mare dai soccorritori».

Dall’altra c’è la testimonianza di Medici Senza Frontiere:

«Due guardacoste libici, in uniforme e armati, sono saliti su uno dei gommoni. Hanno preso i telefoni, i soldi e altri oggetti che le persone portavano con sé”, racconta Annemarie Loof di Msf. “Le persone a bordo si sono sentite minacciate e sono entrate nel panico. Molti passeggeri, che fortunatamente avevano già ricevuto i giubbotti di salvataggio prima che iniziassero gli spari si sono buttati in acqua spinti dalla paura».

Piccolo promemoria: da settimane qualcuno dice che le ONG (quelli come Medici Senza Frontiere, appunto) avrebbero sporchi interessi sulla pelle dei migranti. Da qualche settimana quegli stessi rimestatori nel torbido, in mancanza di riscontri, citano la guardia costiera libica come fonte dei loro sospetti.

Ecco. Tirate voi le somme.

 

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Colloquio per Ryanair: racconto semiserio di una giornata di ordinaria precarietà

(Sandro Gianni racconta la sua esperienza per Clap, qui)

A giudicare dagli annunci nei portali per la ricerca di lavoro, sembra che sul mercato esistano solo tre tipi di occupazioni disponibili: sistemista Java, dialogatore e operatore call-center. Se non conosci Java e hai zero voglia di vendere il tuo tempo per delle chiacchiere con degli sconosciuti, al telefono o dal vivo, la ricerca pare senza possibili sbocchi. Aggiungi che la percentuale di risposta ai curriculum inviati rasenta lo zero e che la laurea e/o i master di cui sei in possesso non sono particolarmente quotati nella borsa degli skills… il quadro si complica parecchio.

Perciò, quando qualcuno ha finalmente risposto alla mia “iscrizione a un’offerta di lavoro” ho provato una strana sensazione, di affetto quasi. Ho pensato di dover ricambiare, presentandomi al colloquio. Ho detto “qualcuno”, ma in realtà avrei dovuto dire “qualcosa”: un algoritmo, un dispositivo automatico di risposta alle mail, un bot del portale. Non posso saperlo, ma l’invito a comparire in un hotel nella zona di Tor Vergata è arrivato pochi millesimi di secondo dopo l’invio della mia iscrizione. Ciò esclude la mediazione umana e, dunque, una seppur minima selezione del curriculum, che avrebbe potuto equivalere a qualche decimale in più nella stima probabilistica di un’assunzione .

Il lavoro non era proprio quello dei miei sogni, ma provavo a vederci delle sfumature positive: la possibilità di viaggiare, avere un contratto decente, ricevere uno stipendio non troppo basso. Ovviamente, mi sbagliavo.

Nell’atrio dell’hotel di lusso, nella periferia sud-est di Roma, una quarantina di ragazzi e ragazze tirati a lucido, con la barba fatta, il vestito e la cravatta siedono in silenzio. Tra loro, io. Alcuni si muovono sicuri nei completi eleganti, camminano come se nulla fosse, bevono il caffé senza bisogno di sistemarsi di continuo la giacca, muovono le mani sullo smartphone senza domandarsi perché la camicia faccia capolino solo da una delle due maniche. Altri sono impacciati, si toccano insistentemente la cravatta temendo che il nodo si sciolga, cercano delle tasche in cui infilare le mani senza trovarle, provano a controllare la continua fuoriuscita della camicia dalla giacca senza alcun successo. Evidentemente, non sono abituati a conciarsi così. Tra loro, sempre io. C’è anche un ragazzo che deve aver letto male le istruzioni per l’uso: si è presentato in jeans e camicia a quadrettoni, rossi e blu. È imbarazzato, ma resta. Sembra simpatico.

In sala nessuno fiata. Quasi che taller e vestiti abbiano trasmesso per metonimìa un certo dovere di contegno, di formalità. «Dicono che l’abito non fa il monaco, ma non è vero» – argomenta il Totò ladro vestito da carabiniere, nei Due marescialli – «Io a furia di indossare indegnamente questa divisa, marescia’… mi sento un po’ carabiniere».

Ci chiamano e andiamo tutti insieme nel seminterrato dell’albergo, in una sala conferenze. Eliminata la prima decina di candidati con un test di inglese da seconda media, la selezione entra nel vivo. O meglio, nel video. Proiettano una presentazione del lavoro, divisa per sezioni: informazioni tecniche sulle diverse mansioni; procedure di inizio; questioni retributive e contrattuali; possibilità di carriera; criteri di premialità; caratteristiche dell’azienda che offre il lavoro e dell’agenzia di recruitment che assume (due cose diverse: una è Ryan; l’altra una fusione tra Crewlink e Workforce International… sì, si chiama proprio così!). In questa seconda fase, si rivolgono a noi come fossimo già assunti. L’uomo sulla cinquantina, inglese o irlandese, responsabile del reclutamento, allude più volte a quanto staremmo bene con indosso le nuove divise da hostess e steward.

Dalle immagini del video e dagli interventi del selezionatore si capisce che ci sono soprattutto tre caratteristiche importanti per fare questo lavoro: essere disponibili alla relocation immediata; parlare inglese; essere flessibili-e-sorridenti (insieme). Le immagini mostrano giovani di tutti i colori, che sembrano felici e raccontano la loro esperienza con Ryan di fronte a un bastone per i selfie. In particolare, insistono su quanto sia utile e divertente il corso di formazione per diventare personale di bordo. Si nuota, si spengono incendi, si salvano bambolotti, si incontrano persone. «You grow up like a man, not just cabin crew».

Ma è più avanti che le orecchie dei candidati si aguzzano: quando si inizia a entrare nel dettaglio del salario e dei tempi di lavoro. La retribuzione è organizzata secondo una serie di premi e possibili punizioni, un incrocio tra un videogioco e una raccolta punti del supermercato. «Your performance is continually monitored and assessed». Monitorare e valutare. Punire solo come ultima ratio. Soprattutto premiare: per far rispettare le regole, per aumentare la produttività, per migliorare le prestazioni. I like dei clienti danno diritto a delle ricompense: monetarie, ma soprattutto relazionali. Ad esempio, la penna nel taschino è indice di un certo numero di apprezzamenti. Costituisce dunque, tra i colleghi e nell’azienda, l’indicatore di uno status particolare.

Si viene pagati un po’ in base all’orario e un po’ a cottimo. Nel senso: un fisso non esiste; sono retribuite solo le ore di volo; si percepisce il 10% su ogni prodotto venduto (…adesso lo capite il perchè di tanto rumore?). Il contratto è registrato in Irlanda o UK. Si hanno delle agevolazioni sui viaggi in aereo.

Il salario mensile dovrebbe oscillare tra 900 e 1.400 euro lordi, in base al luogo di ricollocamento. «We try to keep the wages homogeneous among our workers». Bella l’uguaglianza, quando non schiaccia tutti verso il basso… penso io. Viene poi fatto cenno a un periodo annuale in cui non si lavora e non si ricevono soldi: da uno a tre mesi. Ma il selezionatore ci assicura che questa pausa non supera (quasi) mai i 30 giorni.

Fino a qui, niente di eccezionale. Ma il rapporto premi-punizioni è più complesso e configura per intero il sistema di retribuzione. Ovviamente, se i diritti diventano premi e i doveri debiti, tutto cambia. Non si parla di tredicesima e/o quattordcesima, ma di bonus, che si ricevono solo il primo anno. 300 euro il primo mese di lavoro, altrettanti il secondo, il doppio il sesto. Chi va via prima della conclusione dei primi 12 mesi, però, deve restituire questi bonus. Inoltre, la divisa (quella bella di cui sopra) costituisce un costo esternalizzato al lavoratore: il primo anno sono 30 euro al mese scalati direttamente dalla busta paga; successivamente pare si ricevano dei soldi, ma non si capisce bene per cosa, se per lavarla o non perderla. Per ultimo, il famoso corso di formazione per diventare hostess o steward si rivela qualcosa di più di un parco giochi in cui fare festini con altri esponenti multikulti della generazione Erasmus. Principalmente, si rivela un’enorme spesa. Se all’inizio era stato comunicato che, in via eccezionale, le registration fees del corso erano dimezzate a 250 euro, è alla fine che viene fuori il vero prezzo da pagare. Ci sono due modalità differenti: 2.649 euro se paghi prima dell’inizio e tutto in un colpo; 3.249 se decidi di farti scalare il costo dallo stipendio del primo anno (299 euro dal secondo al decimo mese, 250 gli ultimi due).

Si aprono le domande. Dopo alcune irrilevanti su sciocchezze burocratiche, alzo la mano. «Ci avete parlato di un massimo di ore di volo a settimana, ma mai delle ore totali di lavoro. Quante sono?», chiedo. «Voi siete pagati in base alle block hours, cioé le ore calcolate dalla chiusura delle porte prima del decollo, all’apertura dopo l’atterraggio. I tempi di preparazione dell’aereo, prima e dopo il volo, possono variare». Varieranno pure, ma di sicuro non vengono pagati, nonostante siano tempi di lavoro.

Alza la mano quello dietro di me. «Scusi la domanda, ma ho bisogno di fare dei conti. Diciamo che uno stipendio per una destinazione non troppo cara è di 1.000 euro. Ve ne devo restituire 330 al mese tra corso e divisa. Ne rimangono 670. Dovrò prendere una stanza in affitto, diciamo 300 euro. Ne rimangono 370. In più avrò bisogno di pagare un abbonamento ai mezzi per raggiungere l’aeroporto e coprire almeno le spese della casa anche nella pausa annuale in cui non si lavora. Diciamo che, se va bene, rimangono 300 euro. E non ho scalato le tasse, perché non so come si calcolano in Irlando o UK. Secondo lei, con questi soldi si può vivere?». Sbem.

Il selezionatore della società di recruitment, fino a quel momento cordiale e spiritoso, accusa il colpo. Deglutisce. Tossisce. Arrosisce. Si butta sulla fascia, prova un diversivo. «With this work you don’t get rich, but it’s in accordance with your capacity and affords your lifestyle». Alla fine, anche qui le nostre capacità valgono poco più di un pacchetto di sigarette al giorno. Chissà, invece, come ha calcolato il nostro stile di vita!

Finito il video, io e gli altri candidati usciamo e andiamo a mangiare insieme. Da come siamo vestiti, sembriamo un gruppo di giovani businessmen in carriera, lanciati alla conquista del mercato e pronti a scalare colossi finanziari. Invece siamo lì per un colloquio che, se va bene, ci farà guadagnare meno della persona che ci serve la pizza.

Comunque, i calcoli veloci del ragazzo che ha fatto la domanda dopo di me hanno sciolto l’iniziale freddezza tra i candidati. In molti hanno perso interesse per questo lavoro. Anche per questo, si scherza e si chiacchiera. Alcuni hanno appena finito la scuola superiore, altri l’università. Altri ancora hanno già diversi anni di precarietà e i capelli brizzolati. Tra loro…

Rimango fino all’intervista, per sport. Mi capita la collaboratrice del selezionatore. Legge il mio curriculum. Niente di eccezionale, però insomma… neanche da buttare. Tutti i titoli di studio con il massimo dei voti, laurea e due master, cinque lingue, numerose esperienze di lavoro materiale e immateriale, in Italia e all’estero. «Are you sure you want to do this work?», mi chiede. Bleffo: «Eeeeeh. Why not?». «Do you know people working for us?». «No». «So, what do you know about this work?». «What you told me today», rispondo. Lei arriccia il labbro inferiore e muove la testa dal basso verso l’alto e poi in senso inverso, fissandomi con gli occhi corrucciati. Ho l’impressione che stia pensando sardonicamente “devi essere proprio una volpe, tu!”.

Saluto, me ne vado. Sulla vespa faccio i conti: due caffé al bar dell’albergo = 3 euro; un pezzo di pizza e una bottiglia d’acqua = 4 e 50; giri vari alla ricerca di vestito, cravatta e scarpe e poi fino al colloquio = almeno 5 euro; stirare la camicia = 2 euro; stampare 7 fogli di curriculum dal cristiano-copto su via di Torpignattara, che sembra sapere quando non puoi dirgli di no = 2,10 euro. Barba e capelli costo zero, taglio autoprodotto in casa. Alla fine, non mi è andata nemmeno tanto male. Qualcuno è arrivato in treno da lontano, spendendo molto di più. Per l’ennesima offerta di lavoro precario e sottopagato.

Almeno una cosa l’ho capita: nella compagnia aerea, quel low che precede il cost non è riferito soltanto ai prezzi dei biglietti, ma anche al costo del lavoro.

A posto così

  1.  La Boschi no, non ha querelato De Bortoli. No.
  2. Ghizzoni (Unicredit) non ha intenzione di dire se la Boschi davvero gli ha chiesto di intervenire in favore di Banca Etruria perché, dice lui, non può permettersi di mettere “a rischio la tenuta del governo”. Indovinate la risposta.
  3. Sono illegali le intercettazioni pubblicate di Matteo Renzi con il padre. Vero. Verissimo. Ma nell’inchiesta Consip si parla di politici al governo che avvisano dirigenti pubblici del fatto di essere intercettato. E quei dirigenti bonificano i propri uffici per tutelarsi. Segnarselo bene. E decidere, nel caso, la gravità dove sta.
  4. Leggete i giornali e saprete esattamente chi è contro la legge elettorale di qualcun altro. Vi sfido a capire quali siano le soluzioni proposte. “Essere contro Renzi” non è un gran programma di governo. No.
  5. Pisapia dice di voler andare contro Renzi ma di essere contro il renzismo. Renzi dice di non volersi alleare con Pisapia. Escono decine di editoriali che chiedono a Pisapia di federare. Renzi lo snobba. Lui insiste. Trovate il filo logico. Chiamatemi, nel caso.
  6. Salvini non vuole andare con Berlusconi. Berlusconi non vuole andare con la Lega. E poi finiranno insieme. Come negli ultimi vent’anni. Ci scommetto una pizza.
  7. Il “gigantesco scandalo” sulle ONG è finito in una bolla di sapone a forma di scoreggia. Eppure non ne parla nessuno. Tipo il watergate finito nel water.
  8. Tutti quelli che vogliono la “sinistra unita” poi scrivono dappertutto che “la sinistra non c’è più”. Così vincono in entrambi i casi. E vorrebbero essere analisti politici.
  9. Tutti i tifosi di Putin sono silenziosissimi. Putin gli è esploso in faccia ma loro usano la solita tattica: esultare per gli eventi a favore e fingere che non esistano quelli contrari. Le chiamano fake news ma in realtà è solo vigliaccheria.
  10. Ormai tutti cercano opinionisti con cui essere totalmente d’accordo su tutto. La complessità è come la Corte Costituzionale: un inutile orpello che non riesce a stare al passo dei tempi dei social, dove un rutto fa incetta di like.
  11. Gli intellettuali? Quelli che si indignano come ci indigneremmo noi. Gli vogliamo bene perché ci evitano la fatica di pensare e di scrivere e al massimo ci costano un “mi piace”. Opinioni senza apparato digerenti. Defatiganti. A posto così.
  12. Buon venerdì.

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Grufolano sulla nonna di Renzi e intanto affossano la legge sulla tortura (e il “teorema Zuccaro” non esiste)

Forte questo governo Gentiloni. Ancora una volta, dopo quella brutta legge sulla legittima difesa (che si augurano di aggiustare in quel Senato che volevano abolire) ieri alla Camera sono riusciti a partorire una legge sulla tortura che appena nata ha già infranto parecchi record: non è stata votata dal suo primo firmatario Luigi Manconi (come se un ristoratore servisse nel suo ristorante un suo piatto avvisandovi che farà schifo), ha meritato critiche dalle associazioni umanitarie che si occupano di tortura e dai famigliari dei torturati e, per di più, è riuscita a fare arrabbiare anche le forze di polizia. Un capolavoro di inettitudine. Solo che questa volta è il Senato a confidare nella Camera perché “intervenga con le opportune migliorie”. In tempi di referendum i sostenitori della riforma costituzionale lo chiamavano “ping pong” e invece è banalmente dappocaggine.

Forte anche tutto il can can sul teorema Zuccaro: frotte di politici che si sono buttati a pesce che si doveva “fare chiarezza sulle ONG” dimenticandosi di essere pagati proprio per quello. Quando si sono ripresi hanno messo in piedi un’indagine conoscitiva affidata alla Commissione Difesa che finalmente ha prodotto un risultato: non ci sono inchieste in corso sulle ONG (ma va?) e c’è una sola inchiesta (“conoscitiva”) su alcune persone (non meglio specificate). In sostanza: non esistono al momento attuale elementi che possano farci dubitare di eventuali accordi illeciti tra ONG e scafisti. Balle, insomma. Balle grasse e stupide che hanno riempito la bocca di una manciata di politici pressapochisti che oggi invece rimangono muti.

 

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Alzare la mano per salvare un bambino: quanto costa la cura.

Simona Ravizza (giornalista sempre puntuale e attenta sulla sanità lombarda) scrive un pezzo che ancora volta apre uno squarcio sulla regione Lombardia, ciellina e dal cattolicesimo ostentato ma incapace di prendersi cura in senso costituzionale e cristiano del termine:

TOURNOI_ROULETTE_RUSSE_DESSINEUn’alzata di mano per decidere se ricoverare un bimbo in rianimazione. Succede anche questo nella Sanità sempre più a corto di soldi. E accade in uno dei più importanti ospedali pubblici per bambini, con sede nel cuore di Milano.

Un ricovero potenzialmente da 50mila euro

Mancano pochi giorni a Natale e alla clinica pediatrica De Marchi sono tempi difficili. Gli Uffici del Controllo di gestione e programmazione si sono appena raccomandati di non sforare il bilancio. È fine anno e per i vertici degli ospedali è fondamentale chiudere con i conti in pareggio. I direttori generali, nominati dalla Regione, vengono giudicati anche – e soprattutto – sulla capacità di evitare buchi. A cascata, le pressioni per non andare in rosso coinvolgono tutti.
Poche ore dopo il richiamo a spese più attente, arriva alla De Marchi la richiesta di ricoverare un bambino egiziano di quasi un anno. Ha una grave malattia, un’immunodeficienza ereditaria, con enormi rischi di non riuscire a sopravvivere anche alla più banale infezione. I medici capiscono bene che per il piccolo paziente servono cure particolarmente costose. Ci sono da spendere oltre 50 mila euro e l’esito delle terapie è tutt’altro che scontato. E c’è il pericolo di un reale accanimento terapeutico. Il reparto che lo deve prendere in carico ha già superato il budget di spesa annuale, lo sforamento è di quasi 100 mila euro.

I medici di fronte a una scelta difficile

I pediatri si interrogano. Il ricovero del bimbo va accettato? Il piccolo paziente è destinato a un trapianto di midollo in un altro ospedale ed è in arrivo alla De Marchi dopo essere già stato ricoverato in altre due strutture. Entrambe si sono scontrate con i medesimi problemi economici della De Marchi: si sono già prestate alle costose cure, ma ora chiedono aiuto altrove.
Per prendere la decisione si susseguono riunioni. L’ultima, la decisiva, avviene in reparto per alzata di mano. Ai presenti – una decina – viene chiesto di esprimersi attraverso una votazione. Si decide di ricoverare il bimbo. Ma l’alzata di mano lascia un segno tra i presenti che ora – con il bambino miracolosamente migliorato – si domandano: «Possibile che nel servizio sanitario un medico debba trovarsi a fare scelte di questo tipo? Pesare la vita di un bimbo in relazione alle spese per salvarlo?».

La situazione dei contri nella sanità

Questione di soldi. La clinica pediatrica De Marchi è una costola del Policlinico di Milano, ospedale universitario che è un punto di riferimento nazionale per oltre 200 malattie rare. Per queste patologie le terapie sono onerose perché, essendo poco diffuse, i farmaci sono particolarmente cari. Il problema dei conti in ordine è una lotta quotidiana. E con i tagli al bilancio della Sanità degli ultimi anni la situazione in Italia è sempre più precaria. Secondo le stime delle Regioni nel 2012 sono arrivati complessivamente 3 miliardi di euro in meno e nel 2013 ben 5 miliardi e mezzo.
È di questi giorni, inoltre, la discussione sull’ennesima riduzione di finanziamenti per una cifra di 2,450 miliardi di euro. Eppure già oggi in Italia la spesa sanitaria è solo il 9,2% del Pil, assai inferiore a quella degli Stati Uniti (16,9%) e di Paesi europei come la Francia (11,6%) e la Germania (11,1%). Il minore trasferimento di soldi colpisce con un effetto domino le Regioni, gli ospedali e i singoli reparti.

Ora il bambino sta meglio

Dopo aver votato, i pediatri si sono rivolti alla direzione di presidio. «Sono al corrente di quanto accaduto e ho sostenuto i medici nella decisione dando la copertura sanitaria richiesta – spiega il direttore Basilio Tiso -. Il bambino è stato curato e sta meglio. Nei prossimi giorni ci sarà il trapianto di midollo».
È andata bene, fa intendere Tiso, ma è difficile andare avanti così: «Con lo sforzo di tutti, amministratori, direzione strategica dell’ospedale, medici e infermieri, questa situazione si sta risolvendo. Ma se i fondi continueranno a diminuire – sottolinea – è indispensabile una profonda riforma del sistema sanitario. Occorre diminuire il peso dell’apparato amministrativo, burocratico e politico sulla Sanità, in modo da sbloccare risorse in favore degli operatori medici e infermieristici, delle tecnologie più all’avanguardia e dei nuovi farmaci». Un medico non può e non deve fermarsi a riflettere sul costo di una cura.

La colossale balla degli immigrati che ci “costano”

In questi giorni vi stiamo raccontando quello che sta succedendo a Tor Sapienza, con la “rivolta” nei confronti degli ospiti del centro per rifugiati e le più o meno gradite visite di esponenti politici locali ed amministratori (mentre il Governo ha scelto di lavarsene le mani ed il Pd ha preferito abbandonare al proprio destino il sindaco di Roma Ignazio Marino). Intorno alla vicenda è esploso un dibattito variegato e le analisi si sono concentrate su diversi livelli di profondità: dalla specificità del caso romano (i 4 campi solo al Prenestino), ai problemi delle periferie, dalla crisi economica che ha esasperato i ceti meno abbienti alle lacune normative nei processi di accoglienza / espulsione dei clandestini e via discorrendo. Su una cosa però analisti e commentatori sembrano concordare: sulla crescita del fronte dell’odio, della rabbia e dell’indignazione, soprattutto nelle periferie dei grandi centri urbani. Sentimenti certamente coltivati da una certa parte politica ma anche nutriti da una sequela impressionante di notizie false, esagerazioni, allarmismi e speculazioni che hanno trovato nei social network dei megafoni formidabili.

Tutto o quasi ruota intorno al denaro, alle risorse che lo Stato dilapiderebbe per soccorrere, accogliere e assistere gli immigrati che raggiungono le nostre coste. Abbiamo già provato a chiarire, ad esempio, le esatte dimensioni dell’impegno finanziario del nostro Paese nell’operazione Mare Nostrum, oppure a far chiarezza sull’insussistenza di quel “l’Europa non ci aiuta”, vero tormentone degli ultimi mesi, o sul fatto che la spesa per l’immigrazione sia meno del 3% della spesa sociale; ma le informazioni parziali e decontestualizzate sul tema sono tante e così surreali che resta difficile finanche impostare un debunking più o meno serio. Si consideri ad esempio la questione dei costi totali, spiegata in maniera surreale da un (cliccatissimo) pezzo de Il Giornale, in cui si stima in 12 miliardi di euro l’anno il costo degli sbarchi:

I capitoli più costosi sono la sanità (3,6 miliardi) e la scuola (3,4). I trasferimenti monetari (assegni familiari, pensioni e sostegni al reddito) valgono 1,6 miliardi. Eclatante il dato della giustizia: 1,75 miliardi […] Un immigrato che accetti di essere registrato nei centri di accoglienza costa alla collettività 2.400 euro, il doppio dello stipendio di un agente addetto ai controlli. Il conto è semplice. Si parte dalla «diaria» di 30 euro al giorno per le spese personali: 900 euro esentasse, più di molte pensioni e casse integrazioni. Altri 30 euro al giorno vanno come rimborso a chi li ospita (bed&breakfast, case private, ostelli). Aggiungiamo un’assicurazione mensile di 600 euro e si arriva alla rispettabile somma di 2.400 euro mensili spesi dallo Stato per ogni straniero sbarcato e assistito”

Un minestrone in cui coesistono numeri veri, bufale, imprecisioni, inesattezze e vere e proprie invenzioni: il risultato è la trasmissione a catena di informazioni errate e strumentali ad un certo racconto. Ma il discorso sull’utilizzo strumentale di dati e cifre (tra decontestualizzazioni, forzature e falsificazioni) è evidentemente lungo e complesso (si potrebbe citare, ad esempio, il miliardo e mezzo speso per la sorveglianza coste, dato vero ma da distribuire nel periodo 2005 – 2012). Meglio provare a chiarire alcuni punti, a cominciare dalla “retribuzione giornaliera” che lo Stato corrisponderebbe agli immigrati.

Ecco, molto semplicemente: lo Stato non corrisponde neanche un singolo euro agli immigrati clandestini che vivono nel nostro Paese. Il discorso è invece in parte diverso per i richiedenti asilo, i rifugiati e gli “ospiti” dei Cie, Cda, Cpsa e Cara. Ogni migrante trattenuto in un centro di accoglienza riceve infatti in media circa 2,5 euro, il cosiddetto pocket money che dovrebbe servire alle piccole spese giornaliere (effetti personali, bevande calde ai distributori e sigarette). Come si vede, siamo ben lontani dalla cifra di 30 / 40 euro al giorno di “retribuzione”, rilanciata continuamente dalla presunta “controinformazione”. Tra l’altro, come rilevato dall’inchiesta di Repubblica, ci sono seri dubbi sulle modalità e sull’effettività dell’erogazione del contributo, che spesso finisce per ingrassare speculatori ed affaristi, che letteralmente prosperano sulla pelle dei migranti.

Per tutti i servizi connessi all’accoglienza e al mantenimento dei migranti nei Cie lo Stato spende circa 30 euro al giorno. Discorso in parte diverso per quel che concerne i Cara (i centri di accoglienza per richiedenti asilo) e la messa a disposizione di posti straordinari per la prima accoglienza dei cittadini stranieri, gestiti da cooperative o da privati. È interessante precisare però che il “reclutamento” delle strutture non è a totale discrezione delle prefetture (il riferimento è ai fantomatici hotel 5 stelle lusso con piscina, sauna e sala giochi in cui sarebbero ospitati i migranti), ma avviene con un “modulo precompilato” con procedure e standard fissi, messo a disposizione dal ministero dell’Interno. Il gestore che stipula la convenzione si impegna ad offrire “servizi di gestione amministrativa, di assistenza generica, di pulizia e igiene ambientale, di erogazione dei pasti”, nonché all’erogazione del pocket money (che per i nuclei familiari non può superare i 7,5 euro) e di una tessera telefonica di 15 euro. La somma complessiva per singolo ospite del centro varia a seconda degli accordi tra prefettura e gestori, ma in media si aggira sui 40 euro che, come spiega Daniela Di Capua, direttrice del servizio centrale Spar a Redattore Sociale, “servono a pagare gli operatori, l’affitto ai privati degli immobili, i fornitori di beni di consumo. Una piccola quota va per gli interventi di riqualificazione professionale, come i tirocini, orientati a permettere ai migranti di vivere in autonomia una volta usciti dal sistema di accoglienza […] Queste risorse fanno parte di un fondo ordinario del ministero. Non sono spese straordinarie”.

Per i minori le cifre salgono, come si legge su Internazionale: “Il costo pro capite varia a seconda delle rette delle singole comunità di accoglienza […] Le rette possono dunque superare anche i 140 euro, ma per quelli che rientrano nello Sprar, indipendentemente dalla rette della comunità, noi eroghiamo 80 euro al massimo”.

Insomma, per farla breve: ai clandestini che dimorano nel nostro Paese non diamo nulla, a chi è in attesa di risposta alla domanda di tutela come profugo o rifugiato politico o a chi risiede nei centri di accoglienza o di identificazione diamo 2,5 euro al giorno. Quando questi soldi arrivano nelle loro tasche, ovviamente. Se cercate “chi ci guadagna” da questa situazione, converrà volgere lo sguardo altrove.

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