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Moltiplicano i pani, i pesci e i Salvini

Non serve nemmeno frugare troppo in giro per ritrovare ciò che pensava di Draghi Matteo Salvini fino a dieci minuti prima di diventare draghiano e europeista e addirittura così “responsabile” da chiedere per sé il Ministero dell’istruzione. Il 6 febbraio del 2017 diceva «L’euro non è irreversibile come sostiene Mario Draghi. Mi spiace ci sia un italiano complice della Ue che sta massacrando gli italiani e l’economia italiana». E quando qualcuno gli parlava dello spread e dell’Europa (che sarebbero tra i motivi che oggi hanno convinto il leader della Lega all’ennesima giravolta) disse letteralmente: «Noi vogliamo che l’Italia torni a scegliere, a decidere, a sperare nel futuro. Il ricattino dello spread lo abbiamo già visto 5-6 anni fa, non ci casca più nessuno. Non sono tre banchieri, tre massoni o tre finanzieri a tenere in ostaggio il popolo italiano». E, sempre nel 2017, quando fu Berlusconi a fare il nome di Draghi al governo (questo a dimostrare da quanto il nome di Draghi veleggi e da quei lidi fosse invocato) Salvini rispose: «Non se ne parla nemmeno. Mario Monti bis. E la fotocopia di Mario Monti non mi interessa».

Salvini dunque ha cambiato idea ed è vero che sono gli stupidi che non cambiano mai idea ma ci sono anche quelli che scambiano l’opportunismo per responsabilità e si impegnano in queste ore a esercitare una narrazione che vorrebbe convincerci che sia addirittura un privilegio avere un governo con “tutti dentro” come se la politica fosse davvero una livella che tiene tutti a cuccia, basta trovare l’uomo giusto per zittire. E questi strani frequentatori della democrazia che ritengono il ruolo dell’opposizione semplicemente come quelli “che sono stati fuori dal giro delle poltrone” incensano lo splendore di un governo in cui tutti diventano potabili, in cui tutte le idee accettano di essere piallate e in cui le differenze vengono dimenticate: sognano uno studio associato di segretari del commercialista da poter rivendere come Parlamento. È il loro obiettivo. Che la Lega in Europa si sia astenuta sul Recovery Fund nel dicembre del 2020, che abbia votato no ai Coronabond, no alla condanna di Putin per il caso Navalny (a settembre 2020) e tanto altro rientra semplicemente nelle “gag” leghiste che ora siamo disposti a tollerare.

Lo scriveva bene ieri il blog satirico Spinoza: «Non condivido le tue idee, ma mi batterò fino alla morte affinché tu possa farmi entrare nel tuo governo». E ora anche Salvini diventa uno statista poiché è stato bacchettato sulle dita da Confindustria e ha deciso di rimettersi a cuccia, ovviamente solo per il tempo di trovare uno spiraglio per scassare tutto appena i sondaggi gli diranno di andare a elezioni.

Qualcuno nel delirio di questa desertificazione che chiamano “responsabilità” in questi giorni tenta anche irresistibili confronti con il passato. Ieri proprio Salvini per giustificare il suo ingresso al governo ha tirato fuori il governo guidato da Alcide De Gasperi dal 10 dicembre 1945 al 14 luglio 1946 che teneva insieme Dc, Pci, Partito d’azione, Psiup, Pli e Partito del lavoro. Peccato che abbia dimenticato di dire che tutti quelli avessero lottato contro il fascismo e ne avessero subito la persecuzione. Ma anche l’antifascismo, se notate bene in giro, è un argomento “disturbante” per l’unità nazionale. Avanti così.

Ma il vero capolavoro politico sono quelli che esultano per l’operazione in corso che poi sono gli stessi che esultavano per la scorsa operazione politica “capolavoro” che ci avrebbe dovuto liberare da Salvini: il capolavoro, lo scrivevamo qualche giorno fa ora è Matteo che ha riabilitato Matteo. Segnatevelo: sono gli stessi che fra poco si stupiranno delle differenze che usciranno in Parlamento e le chiameranno intralci. Del resto qualcuno sogna da tempo una politica senza Parlamento, senza partiti, che semplicemente vada tutte le mattine sullo zerbino di Draghi per lasciare giù i voti e ritirare le comande.

Avanti così.

Buon lunedì.

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Renzi ha fatto saltare Conte “per i contenuti” ma ora prende Draghi a scatola chiusa

Ognuno porta avanti le sue trattative politiche come preferisce. La politica, si sa, è l’arte del possibile e le posizioni si modificano in continuazione, travolte dagli eventi. Però, mentre il presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi si prepara ad affrontare i leader di partito (tanti auguri per questo giro negli inferi sfilacciati), vale la pena registrare fin da subito qualche curioso atteggiamento di chi, fino a poche ore fa, berciava a tutto volume su principi che sembravano inossidabili e che invece ora sembrano dissolti.

Insomma ci tocca parlare di nuovo dei due Mattei, sempre loro, che insistono lesti nel rivendere le fanfaronate come strategia quando invece sono banalotti Giani bifronte che inseguono il proprio piccolo interesse particolare.

Matteo Renzi continua a superare se stesso. Lui e i suoi tifosi imboccati insistono per intestarsi una “vittoria” come se Mattarella fosse l’esecutore di un leader decaduto che stagna al 2% ma soprattutto nelle ultime ore è riuscito sostanzialmente a rimangiarsi tutti i “valori” su cui ha bluffato per tutta la crisi.

Proprio nel momento in cui faceva saltare il tavolo con i suoi ex alleati di maggioranza, durante il mandato esplorativo di Fico, ha ripetuto mille volte in ogni dove che non era “un problema di nomi ma di programmi”.

Con il tweet che suggellava la fine delle trattative era stato chiaro: Mes, Anpal, alta velocità, reddito di cittadinanza, scuola e Arcuri erano i temi imprescindibili su cui si consumava la rottura del governo. E, su quei temi, loro di Italia Viva non erano disposti a fare nemmeno un passo indietro, provocando piuttosto la crisi che hanno provocato.

Ora lo stesso Renzi, tutto ringalluzzito per avere eliminato l’avversario perché per lui il potere sta semplicemente nel creare l’occasione del fallimento altrui, dice di sostenere a tutta forza Draghi in un momento in cui non si è ancora affrontato nessun punto di un eventuale programma.

Ma come? Una risposta la lascia intendere il suo compagno di partito Scalfarotto, che oggi su Twitter scrive: “Questa volta chi sia, cosa pensi, cos’abbia scritto e fatto e quali successi abbia ottenuto il prossimo PdC è noto a livello planetario. Su quella base penso che ci sia abbondantissimo materiale per votargli la fiducia”.

In sostanza i punti che prima erano insostituibili ora vengono schiacciati dalla biografia. Non male per un partito che vorrebbe stare “nel merito” delle cose.

E così alla fine accade che l’altro Matteo (Salvini) diventi un’indispensabile risorsa “europeista” per dare vita al governo che dovrebbe riportare la politica al suo punto nobile, lontana da sovranismi e populismi. Un capolavoro, davvero.

Leggi anche: 1. Sono grato a Conte. La prospettiva politica dell’alleanza giallorossa non va dispersa (di Goffredo Bettini) / 2. Perché bisogna dire no a Draghi (di Alessandro Di Battista) /3. Il sonno della politica genera tecnici (di S. Mentana)

4. Conflitto d’interenzi (di Giulio Gambino) / 5. Il dilemma Pd: un governo Draghi è possibile. Ma solo governando con la destra sovranista / 6. La verità che nessuno ha il coraggio di dirvi: Renzi oggi vuole solo una cosa. Spaccare il Pd (di Luca Telese)

L’articolo proviene da TPI.it qui

Il senso del lavoro di Sgarbi

Vittorio Sgarbi, da sempre incapace di entrare nel merito nelle sue baldanzose e sconclusionate uscite in cui attacca gli avversari politici di turno, ha pensato bene di criticare Virginia Raggi con una bella provocazione classista delle sue, dicendo: «Secondo me prima di fare il sindaco era una cameriera nell’ufficio di avvocati e guadagnava 600 euro al mese». Essere cameriera e guadagnare 600 euro al mese evidentemente per il critico d’arte è elemento di vergogna e di inettitudine. Del resto, mica per niente, Sgarbi da sempre è l’assiduo frequentatore di immorali imprenditori. Virginia Raggi, da canto suo, ha risposto parlando della dignità dei camerieri e tutto il resto, seguita a ruota da Di Maio.

Ma c’è un aspetto interessante in tutto questo: Sgarbi ha pronunciato la sua infelice frase mentre si candidava come sindaco di Roma (e già cerca di attaccarsi ai pantaloni di Calenda) e praticamente in contemporanea ha annunciato la sua candidatura in Calabria. Del resto che Sgarbi sia terrorizzato dall’idea di dover lavorare senza politica lo racconta benissimo la sua storia politica che Fondazione Critica Liberale ha messo tutta in fila e che letta tutta d’un fiato fa parecchio spavento:

«1) Unione monarchica italiana; 2) Partito comunista italiano, accettando la proposta di candidarsi al consiglio comunale di Pesaro, nel 1990, candidatura poi fallita per avere contemporaneamente accettato anche la proposta di candidato per il Psi; 3) Partito socialista italiano, per il quale è stato eletto nel 1990 consigliere comunale a San Severino Marche; 4) Dc-Msi, alleanza con la quale è stato eletto sindaco di San Severino Marche nel 1992; 5) Partito liberale italiano, per il quale è stato deputato nel 1992; 6) Forza Italia, con la quale è stato eletto deputato nel 1994, nel 1996, nel 2001 e 2018; 7) Partito federalista, che ha fondato nel 1995 e poi lasciato per aderire alla 8) Lista Pannella-Sgarbi; 9) “I Liberal – Sgarbi”, movimento da lui fondato nel 1999; 10) Polo laico, movimento effimero esistito nel 2000 per garantire una rappresentanza alle elezioni dell’anno successivo ai Liberali e ai Radicali Italiani; 11) Lista consumatori, con la quale si è candidato, per le Politiche del 2006, senza essere eletto; 12) Udc-Dc, alleanza con la quale è stato eletto sindaco di Salemi nel 2008; 13) Movimento per le autonomie con il quale è stato candidato alle elezioni europee del 2009 nel cartello elettorale L’Autonomia nella Circoscrizione Isole; 14) Rete Liberal Sgarbi-Riformisti e Liberali nelle elezioni regionali 2010 del Lazio; 15) Partito della Rivoluzione-Laboratorio Sgarbi, movimento politico fondato dallo stesso Sgarbi ufficialmente il 14 luglio 2012; 16) Intesa popolare, partito fondato nel 2013 assieme a Giampiero Catone; 17) i Verdi, in occasione delle elezioni comunali a Urbino del 2014, hanno sostenuto la sua iniziale candidatura a sindaco e poi la proposta al sindaco eletto di nominarlo assessore alla Cultura del Comune di Urbino, a seguito dell’alleanza tra i Verdi e la coalizione di Centrodestra, guidata da Maurizio Gambini; 18) Rinascimento, partito da lui fondato con Giulio Tremonti nel 2017 con il quale inizialmente si candida come governatore alle Regionali in Sicilia; in seguito appoggerà la candidatura di Nello Musumeci per la coalizione di centrodestra, che risulterà eletto. In vista delle elezioni politiche del 2018 il partito si federa con Forza Italia; 19) Alleanza di centro, il 12 dicembre 2019, nel gruppo misto della Camera, sei giorni dopo che Sgarbi ha lasciato il gruppo di Forza Italia, si costituisce la componente “Noi con l’Italia – Usei – Alleanza di Centro”, poi divenuta, il successivo 18 dicembre, “Noi con l’Italia – Usei – Cambiamo! – Alleanza di Centro”».

Eccolo il senso del lavoro per Sgarbi: navigare da un partito all’altro in cerca di un ruolo pubblico. Poi si potrebbe ricordare la condanna in via definitiva a 6 mesi e 10 giorni per truffa aggravata e continuata e falso ai danni dello Stato, per produzione di documenti falsi e assenteismo nel periodo 1989-1990, mentre era dipendente del ministero dei Beni culturali.

Poi, oltre a quello che fa, c’è quello che dice e come lo dice. Ma qui si cadrebbe in un dirupo, sarebbe troppo, anche per un buongiorno.

Buon giovedì.

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Il dramma di Valerio, suicida in cella dove non doveva stare…

Per il suicidio del detenuto Valerio Guerrieri, suicidatosi nel carcere di Regina Coeli il 24 febbraio del 2017 all’età di 21 anni, si dovrà perseguire penalmente anche la direttrice del carcere in quel periodo, Silvana Sergi, e una dirigente del Dap. L’ha deciso il gip Claudio Carini che ha respinto per la seconda volta la richiesta di archiviazione del pm Attilio Pisani. Ora si valutano le accuse di omissione di atti d’ufficio e reato di morte come conseguenza di un altro delitto, oltre all’indebita limitazione di libertà personale. Valerio Guerrieri non doveva essere in carcere, c’era scritto a chiare lettere perfino nella sentenza con cui era stato condannato a quattro mesi di reclusione in cui il giudice indicava chiaramente di trasferirlo in una Rems, la residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza che accoglie chi ha gravi disturbi mentali. Insieme alla direttrice del carcere e alla dirigente del Dap, il procedimento va avanti anche per sette agenti della penitenziaria di Regina Coeli e un medico, tutti già imputati. Il medico è accusato di omicidio colposo per non aver controllato in cella il ragazzo sottoposto «alla misura della grande sorveglianza».

La vicenda di Valerio Guerrieri, ennesimo morto per malagiustizia, inizia alle dieci di sera di venerdì 2 settembre del 2016. Valerio è fermo con la sua moto ai bordi del Grande raccordo anulare di Roma, una pattuglia della Polizia lo nota e accosta ma il ragazzo non risponde e riparte immediatamente: un inseguimento che dura 30 chilometri e che coinvolge cinque volanti della Polizia e che si conclude con la caduta del motociclista. Trasportato d’urgenza all’ospedale Sant’Andrea viene arrestato per «resistenza, lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato». Il ragazzo dice di non ricordare nulla e di non avere la patente. Viene condannato agli arresti domiciliari.
Non è una vita facile quella di Valerio: già a cinque anni i genitori decidono di chiedere aiuto al centro di tutela salute mentale e riabilitazione in età evolutiva di Ostia perché le maestre dell’asilo osservano strani comportamenti.

Nel 2009 era stato ricoverato al reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico di Roma dove gli viene diagnosticata «una personalità borderline con lievi tratti psicomaniacali». A quattordici anni comincia a prendere psicofarmaci, viene mandato alla comunità terapeutica Casetta Rossa di Roma e segue un percorso terapeutico che dovrebbe aiutarlo. Poi nel 2010 viene trasferito alla comunità Lilium, in provincia di Chieti, nel 2011 è a Villa Letizia, un centro romano che si occupa di problemi psichiatrici. La sua è una vita passata tra farmaci e le evidenti difficoltà famigliari. Il 1 maggio del 2012 lo arrestano mentre cerca di rubare una Vespa e viene portato al carcere minorile di Casal Del Marmo e poi ai domiciliari a Villa Letizia. Secondo il racconto della madre sarebbe proprio lì che il figlio conosce uno dei capi della banda della Magliana che gli insegna a rapinare i supermercati. La sua vita continua tra ricoveri, arresti e Tso affidato ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), fughe e nuovi arresti.

Nel 2015 gli tocca l’ospedale psichiatrico giudiziario, il manicomio criminale, a Secondigliano. Esce il 1° dicembre del 2015 perché tutti gli Opg in Italia devono chiudere per legge. Finisce in una comunità aperta a Rocca Canterano, nei pressi di Subiaco, ma scappa di nuovo. In quel periodo prende 9 psicofarmaci al giorno. Valerio interrompe le cure, di nuovo, e di nuovo è Tso. È una storia piena di dolore. In un’intervista rilasciata a Internazionale l’anno scorso la madre raccontava che Valerio «passava le giornate ciondolando per casa, pareva uno zombie». Arriviamo alle battute finali di questa storia: dopo l’arresto del settembre 2016, nonostante le disposizioni del giudice, Valerio viene spedito a Regina Coeli, 946 carcerati in quel periodo, il doppio di quelli per cui c’è spazio.

Il 16 febbraio scrive una lettera al fratello: «Ciao frate’ ti scrivo adesso 9.40 del mattino ti scrivo soltanto per dirti che mi dispiace x tutto io qui sto impazzendo non ce la faccio più ma vabbè me la so cercata (…) veramente ora son stanco di mangiare di fare qualunque cosa di scappare basta se io me ne vado x sempre penso che voi non sentirete la mia mancanza voglio andarmene per sempre quindi ora ti lascio con la penna ma non con il cuore ciao fratellone mio ci rincontreremo stai ar ciocco addio!?!?». Otto giorni dopo si uccide impiccandosi in bagno.

I compagni di cella raccontano che aveva preparato il cappio nel giorno precedente. Nella richiesta di rinvio a giudizio a carico di due medici e sette agenti di polizia penitenziaria il pm Pisani chiede la condanna per omicidio colposo per non aver sorvegliato e controllato il ragazzo come bisognava fare, e cioè ogni 15 minuti e con visite psichiatriche quotidiane. Contemporaneamente, Pisani ha provato ad archiviare le indagini sulla direzione del carcere e del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap): secondo il magistrato avrebbero agito con negligenza ma non con dolo ma ora arriva la decisione del gip. Una cosa è certa: il suicidio di Valerio Guerrieri è l’ennesima storia di uno Stato che usa il carcere come discarica sociale, un luogo dove rinchiudere qualsiasi forma di devianza, dai poveri ai tossicodipendenti fino ai malati psichiatrici. E così le carceri scoppiano e si moltiplicano i casi di suicidi di persone che avevano bisogno di cure, prima che di detenzione, e invece sono state lasciate sole. Come racconta la storia di Valerio.

L’articolo Il dramma di Valerio, suicida in cella dove non doveva stare… proviene da Il Riformista.

Fonte

Vitalizi in Calabria. E si arrabbiano pure

I consiglieri regionali della Calabria fanno marcia indietro sul privilegio per loro stessi introdotto all’unanimità pochi giorni fa. Ma non chiedono scusa, anzi

I consiglieri regionali della Calabria fanno marcia indietro sul privilegio per loro stessi introdotto all’unanimità pochi giorni fa. Ma non chiedono scusa, anzi

In piena crisi pandemia il Consiglio regionale calabrese ha definito una fondamentale priorità: la modifica dell’articolo 7 comma 4 della legge regionale numero 13 del 2019 con cui si abolivano i vitalizi per i consiglieri regionali. Con la modifica, un consigliere regionale che decade per qualsiasi motivo, anche con un solo giorno di legislatura, si guadagnerebbe un trattamento di fine mandato. In sostanza si ottiene un trattamento pensionistico anche senza avere maturato contributi e solo per avere ricoperto una carica. Non lo vogliono chiamare vitalizio ma è un vitalizio, de facto, una vincita al lotto, una garanzia per la vecchiaia.

Interessante anche come sia stata votata la legge: Giuseppe Graziano dell’Udc (sì, da queste parti esiste ed è viva l’Udc) alla richiesta del presidente Domenico Tallini di spiegare la norma prima di metterla ai voti, ha risposto: «Si illustra da sé». Voto all’unanimità. Due minuti in tutto.

Qualcuno fa notare che in quella legge c’è qualcosa che non va. I politici calabresi come prima cosa, accade spesso quando fai notare a un politico di avere fatto una cretinata, negano: sulla Gazzetta del Sud il presidente del Consiglio Domenico Tallini spiega che «i vitalizi in Calabria sono stati aboliti da tempo. Non vedo dov’è lo scandalo: a fronte di 38mila euro di contributi versati in una legislatura, si maturerebbe un’indennità di fine mandato, a 65 anni, da 600 euro netti al mese» dimenticandosi che si sta parlando di quelli che decadranno dal mandato. I consiglieri del Pd parlano di tempesta in un bicchiere d’acqua.

Poi? Poi fanno marcia indietro, ovviamente. Quindi evidentemente avevano ragione quelli che criticavano la scelta, uno si aspetta che chiedano scusa e invece niente. «Solo ai calabresi dobbiamo delle scuse per l’errore commesso» dice Tallini di Forza Italia. Secondo lui quelli che hanno criticato sono «ex candidati a presidente della Regione, paladini dell’antipolitica, nostalgici della prima Repubblica, antimeridionalisti a pagamento» e «giornalisti che si cimentano in fantasiosi racconti e gialli su manine che fanno proposte e poi scompaiono». Gli altri dicono di avere votato una proposta che era diversa da quella che gli era stata illustrata: hanno votato a loro insaputa, insomma. Il consigliere del Pd Nicola Irto è più o meno sulla stessa linea: «Qui resta un fatto, tra populismo e verità io scelgo sempre la verità e la trasparenza. Comprendo la reazione di molti calabresi. Non giustifico gli attacchi e il clima di odio».

Intanto il privilegio viene abrogato. E loro si lamentano pure.

Buon venerdì.

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Colloquio per Ryanair: racconto semiserio di una giornata di ordinaria precarietà

(Sandro Gianni racconta la sua esperienza per Clap, qui)

A giudicare dagli annunci nei portali per la ricerca di lavoro, sembra che sul mercato esistano solo tre tipi di occupazioni disponibili: sistemista Java, dialogatore e operatore call-center. Se non conosci Java e hai zero voglia di vendere il tuo tempo per delle chiacchiere con degli sconosciuti, al telefono o dal vivo, la ricerca pare senza possibili sbocchi. Aggiungi che la percentuale di risposta ai curriculum inviati rasenta lo zero e che la laurea e/o i master di cui sei in possesso non sono particolarmente quotati nella borsa degli skills… il quadro si complica parecchio.

Perciò, quando qualcuno ha finalmente risposto alla mia “iscrizione a un’offerta di lavoro” ho provato una strana sensazione, di affetto quasi. Ho pensato di dover ricambiare, presentandomi al colloquio. Ho detto “qualcuno”, ma in realtà avrei dovuto dire “qualcosa”: un algoritmo, un dispositivo automatico di risposta alle mail, un bot del portale. Non posso saperlo, ma l’invito a comparire in un hotel nella zona di Tor Vergata è arrivato pochi millesimi di secondo dopo l’invio della mia iscrizione. Ciò esclude la mediazione umana e, dunque, una seppur minima selezione del curriculum, che avrebbe potuto equivalere a qualche decimale in più nella stima probabilistica di un’assunzione .

Il lavoro non era proprio quello dei miei sogni, ma provavo a vederci delle sfumature positive: la possibilità di viaggiare, avere un contratto decente, ricevere uno stipendio non troppo basso. Ovviamente, mi sbagliavo.

Nell’atrio dell’hotel di lusso, nella periferia sud-est di Roma, una quarantina di ragazzi e ragazze tirati a lucido, con la barba fatta, il vestito e la cravatta siedono in silenzio. Tra loro, io. Alcuni si muovono sicuri nei completi eleganti, camminano come se nulla fosse, bevono il caffé senza bisogno di sistemarsi di continuo la giacca, muovono le mani sullo smartphone senza domandarsi perché la camicia faccia capolino solo da una delle due maniche. Altri sono impacciati, si toccano insistentemente la cravatta temendo che il nodo si sciolga, cercano delle tasche in cui infilare le mani senza trovarle, provano a controllare la continua fuoriuscita della camicia dalla giacca senza alcun successo. Evidentemente, non sono abituati a conciarsi così. Tra loro, sempre io. C’è anche un ragazzo che deve aver letto male le istruzioni per l’uso: si è presentato in jeans e camicia a quadrettoni, rossi e blu. È imbarazzato, ma resta. Sembra simpatico.

In sala nessuno fiata. Quasi che taller e vestiti abbiano trasmesso per metonimìa un certo dovere di contegno, di formalità. «Dicono che l’abito non fa il monaco, ma non è vero» – argomenta il Totò ladro vestito da carabiniere, nei Due marescialli – «Io a furia di indossare indegnamente questa divisa, marescia’… mi sento un po’ carabiniere».

Ci chiamano e andiamo tutti insieme nel seminterrato dell’albergo, in una sala conferenze. Eliminata la prima decina di candidati con un test di inglese da seconda media, la selezione entra nel vivo. O meglio, nel video. Proiettano una presentazione del lavoro, divisa per sezioni: informazioni tecniche sulle diverse mansioni; procedure di inizio; questioni retributive e contrattuali; possibilità di carriera; criteri di premialità; caratteristiche dell’azienda che offre il lavoro e dell’agenzia di recruitment che assume (due cose diverse: una è Ryan; l’altra una fusione tra Crewlink e Workforce International… sì, si chiama proprio così!). In questa seconda fase, si rivolgono a noi come fossimo già assunti. L’uomo sulla cinquantina, inglese o irlandese, responsabile del reclutamento, allude più volte a quanto staremmo bene con indosso le nuove divise da hostess e steward.

Dalle immagini del video e dagli interventi del selezionatore si capisce che ci sono soprattutto tre caratteristiche importanti per fare questo lavoro: essere disponibili alla relocation immediata; parlare inglese; essere flessibili-e-sorridenti (insieme). Le immagini mostrano giovani di tutti i colori, che sembrano felici e raccontano la loro esperienza con Ryan di fronte a un bastone per i selfie. In particolare, insistono su quanto sia utile e divertente il corso di formazione per diventare personale di bordo. Si nuota, si spengono incendi, si salvano bambolotti, si incontrano persone. «You grow up like a man, not just cabin crew».

Ma è più avanti che le orecchie dei candidati si aguzzano: quando si inizia a entrare nel dettaglio del salario e dei tempi di lavoro. La retribuzione è organizzata secondo una serie di premi e possibili punizioni, un incrocio tra un videogioco e una raccolta punti del supermercato. «Your performance is continually monitored and assessed». Monitorare e valutare. Punire solo come ultima ratio. Soprattutto premiare: per far rispettare le regole, per aumentare la produttività, per migliorare le prestazioni. I like dei clienti danno diritto a delle ricompense: monetarie, ma soprattutto relazionali. Ad esempio, la penna nel taschino è indice di un certo numero di apprezzamenti. Costituisce dunque, tra i colleghi e nell’azienda, l’indicatore di uno status particolare.

Si viene pagati un po’ in base all’orario e un po’ a cottimo. Nel senso: un fisso non esiste; sono retribuite solo le ore di volo; si percepisce il 10% su ogni prodotto venduto (…adesso lo capite il perchè di tanto rumore?). Il contratto è registrato in Irlanda o UK. Si hanno delle agevolazioni sui viaggi in aereo.

Il salario mensile dovrebbe oscillare tra 900 e 1.400 euro lordi, in base al luogo di ricollocamento. «We try to keep the wages homogeneous among our workers». Bella l’uguaglianza, quando non schiaccia tutti verso il basso… penso io. Viene poi fatto cenno a un periodo annuale in cui non si lavora e non si ricevono soldi: da uno a tre mesi. Ma il selezionatore ci assicura che questa pausa non supera (quasi) mai i 30 giorni.

Fino a qui, niente di eccezionale. Ma il rapporto premi-punizioni è più complesso e configura per intero il sistema di retribuzione. Ovviamente, se i diritti diventano premi e i doveri debiti, tutto cambia. Non si parla di tredicesima e/o quattordcesima, ma di bonus, che si ricevono solo il primo anno. 300 euro il primo mese di lavoro, altrettanti il secondo, il doppio il sesto. Chi va via prima della conclusione dei primi 12 mesi, però, deve restituire questi bonus. Inoltre, la divisa (quella bella di cui sopra) costituisce un costo esternalizzato al lavoratore: il primo anno sono 30 euro al mese scalati direttamente dalla busta paga; successivamente pare si ricevano dei soldi, ma non si capisce bene per cosa, se per lavarla o non perderla. Per ultimo, il famoso corso di formazione per diventare hostess o steward si rivela qualcosa di più di un parco giochi in cui fare festini con altri esponenti multikulti della generazione Erasmus. Principalmente, si rivela un’enorme spesa. Se all’inizio era stato comunicato che, in via eccezionale, le registration fees del corso erano dimezzate a 250 euro, è alla fine che viene fuori il vero prezzo da pagare. Ci sono due modalità differenti: 2.649 euro se paghi prima dell’inizio e tutto in un colpo; 3.249 se decidi di farti scalare il costo dallo stipendio del primo anno (299 euro dal secondo al decimo mese, 250 gli ultimi due).

Si aprono le domande. Dopo alcune irrilevanti su sciocchezze burocratiche, alzo la mano. «Ci avete parlato di un massimo di ore di volo a settimana, ma mai delle ore totali di lavoro. Quante sono?», chiedo. «Voi siete pagati in base alle block hours, cioé le ore calcolate dalla chiusura delle porte prima del decollo, all’apertura dopo l’atterraggio. I tempi di preparazione dell’aereo, prima e dopo il volo, possono variare». Varieranno pure, ma di sicuro non vengono pagati, nonostante siano tempi di lavoro.

Alza la mano quello dietro di me. «Scusi la domanda, ma ho bisogno di fare dei conti. Diciamo che uno stipendio per una destinazione non troppo cara è di 1.000 euro. Ve ne devo restituire 330 al mese tra corso e divisa. Ne rimangono 670. Dovrò prendere una stanza in affitto, diciamo 300 euro. Ne rimangono 370. In più avrò bisogno di pagare un abbonamento ai mezzi per raggiungere l’aeroporto e coprire almeno le spese della casa anche nella pausa annuale in cui non si lavora. Diciamo che, se va bene, rimangono 300 euro. E non ho scalato le tasse, perché non so come si calcolano in Irlando o UK. Secondo lei, con questi soldi si può vivere?». Sbem.

Il selezionatore della società di recruitment, fino a quel momento cordiale e spiritoso, accusa il colpo. Deglutisce. Tossisce. Arrosisce. Si butta sulla fascia, prova un diversivo. «With this work you don’t get rich, but it’s in accordance with your capacity and affords your lifestyle». Alla fine, anche qui le nostre capacità valgono poco più di un pacchetto di sigarette al giorno. Chissà, invece, come ha calcolato il nostro stile di vita!

Finito il video, io e gli altri candidati usciamo e andiamo a mangiare insieme. Da come siamo vestiti, sembriamo un gruppo di giovani businessmen in carriera, lanciati alla conquista del mercato e pronti a scalare colossi finanziari. Invece siamo lì per un colloquio che, se va bene, ci farà guadagnare meno della persona che ci serve la pizza.

Comunque, i calcoli veloci del ragazzo che ha fatto la domanda dopo di me hanno sciolto l’iniziale freddezza tra i candidati. In molti hanno perso interesse per questo lavoro. Anche per questo, si scherza e si chiacchiera. Alcuni hanno appena finito la scuola superiore, altri l’università. Altri ancora hanno già diversi anni di precarietà e i capelli brizzolati. Tra loro…

Rimango fino all’intervista, per sport. Mi capita la collaboratrice del selezionatore. Legge il mio curriculum. Niente di eccezionale, però insomma… neanche da buttare. Tutti i titoli di studio con il massimo dei voti, laurea e due master, cinque lingue, numerose esperienze di lavoro materiale e immateriale, in Italia e all’estero. «Are you sure you want to do this work?», mi chiede. Bleffo: «Eeeeeh. Why not?». «Do you know people working for us?». «No». «So, what do you know about this work?». «What you told me today», rispondo. Lei arriccia il labbro inferiore e muove la testa dal basso verso l’alto e poi in senso inverso, fissandomi con gli occhi corrucciati. Ho l’impressione che stia pensando sardonicamente “devi essere proprio una volpe, tu!”.

Saluto, me ne vado. Sulla vespa faccio i conti: due caffé al bar dell’albergo = 3 euro; un pezzo di pizza e una bottiglia d’acqua = 4 e 50; giri vari alla ricerca di vestito, cravatta e scarpe e poi fino al colloquio = almeno 5 euro; stirare la camicia = 2 euro; stampare 7 fogli di curriculum dal cristiano-copto su via di Torpignattara, che sembra sapere quando non puoi dirgli di no = 2,10 euro. Barba e capelli costo zero, taglio autoprodotto in casa. Alla fine, non mi è andata nemmeno tanto male. Qualcuno è arrivato in treno da lontano, spendendo molto di più. Per l’ennesima offerta di lavoro precario e sottopagato.

Almeno una cosa l’ho capita: nella compagnia aerea, quel low che precede il cost non è riferito soltanto ai prezzi dei biglietti, ma anche al costo del lavoro.

Indovina con chi va il Pd? Con Angelino Alfano. A Palermo, intanto

Nonostante sia un copione liso e scontato, provoca il sorriso la testardaggine con cui questi si ostinano a smentirla: a Palermo, in vista delle prossime elezioni amministrative, il Pd sosterrà l’attuale sindaco Leoluca Orlando (a cui, dicono, hanno fatto opposizione dura in questi ultimi cinque anni, per dire) insieme agli alsaziani (quel che ne resta) e ai rimasugli dell’Udc.

Ne esce una lista (dal nome appetitosissimo “Democratici e Popolari”) che richiama lontanamente i colori e le grafiche del Partito Democratico e di Alternativa Popolare (la neonata creatura di Angelino Alfano) senza però citarli; Leoluca Orlando, del resto, da mesi continua a spiegare un po’ dappertutto che Fassino ha perso proprio per “colpa” del partito. Quindi? Quindi tutti civici per finta con la pretesa di riuscire a darcela a bere. Democratici e popolari. Appunto.

 

(continua su Left)

Un regalo (se vi piace): leggo il secondo capitolo

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Come promesso, ‘Mio padre in una scatola da scarpe’ diventa podcast con la lettura a voce alta. Ha qualcosa di magico, la lettura di un libro, perché mi tiene in bilico tra i miei diversi lavori, tra la scrittura e il palco, e per questo ci tengo moltissimo. Quindi pian piano aggiungeremo tutti i capitoli, un cammino svolto insieme, una compagnia prima di dormire. Eccoci al secondo, “le botte in piazza”, che rientra personalmente tra i miei preferiti.
Il podcast è anche facilmente scaricabile da iTunes qui (oppure abbonarvi via mail qui). Ma tra qualche giorno vi racconto anche come le portiamo sul palco. Restiamo in contatto. Buon ascolto.

Memento Bersani (e CL) semper

“Se vuole rifondarsi, la sinistra deve partire dal retroterra di Cl. La vera sinistra non nasce dal bolscevismo, ma dalle cooperative bianche dell’800, il partito socialista arriva dopo, il partito comunista dopo ancora. E i movimenti del Sessantotto sono tutti morti, solo l’ideale lanciato da Cl negli anni Settanta è rimasto vivo, perché è quello più vicino alla base popolare, è lo stesso ideale che è alla base delle cooperative, un dare per educare”

Parole di Pierluigi Bersani al meeting di Rimini nel 2003.

Poi, sempre al meeting questa volta nel 2006, disse: “Quando nel 1989 Achille Occhetto volle cambiare il nome del Partito comunista italiano, per un po’ pensò di chiamare il nuovo partito Comunità e libertà. Perché tra noi e voi le radici sono le stesse”

Per chiarire meglio si può leggere il pezzo di Gianni Barbacetto. E, in fondo, è quello che spiegavo già nella mia intervista.