Vai al contenuto

diritto

Dal Conte 1 al 2 la criminalizzazione della solidarietà delle Ong continua a gonfie vele…

Ci sono molti modi per boicottare i salvataggi in mare. Si può fare smargiassando e usandolo come tema di propaganda politica, come fece a suo tempo il ministro dell’interno Salvini che ancora continua sulla stessa lunghezza d’onda ma si può fare anche sotto traccia, in un modo perfino più subdolo, agitando la clava della burocrazia al posto della clava della paura ma ottenendo il medesimo effetto. Nel secondo caso si deve avere anche un bel pezzo del mondo dell’informazione che accetti di farti passare per il buono, perfino per l’avversario politico delle politiche di Salvini e bisogna contare su una buona dosa di indifferenza cosicché i fatti vengano taciuti, tenuti sotto traccia, sminuiti.

Siamo al governo Conte bis, quello che aveva promesso discontinuità con il governo giallo verde proprio sul tema dei diritti umani dell’immigrazione e siamo ancora qui, più di un anno dopo, a osservare un governo che mantiene le stesse politiche (la mancata abolizione dei decreti sicurezza di Salvini di fatto non ha spostato di una virgola le regole, nonostante le tante belle parole) e negli ultimi giorni stiamo assistendo a un’inquietante ascesa di casi di navi che vengono fermate. Badate bene: non ci sono urlati e minacce, no, no. Qui si tratta di carte bollate. Ma il risultato è lo stesso.

Ieri a rimanere bloccata è stata la Mare Jonio, la nave dell’Ong Mediterranea che ha ricevuto un diniego all’imbarco a bordo di due membri: un paramedico soccorritore e un esperto di ricerca e soccorso in mare del Rescue Team di Mediterranea Saving Humans. Secondo Donato Zito, comandante della Capitaneria, «i loro profili non hanno alcuna attinenza con la tipologia di servizio svolto dalla Mare Jonio». È un furbo escamotage di scartoffie: la Mare Jonio (come praticamente tutte le navi umanitarie) è registrata come mercantile con funzioni di cargo, monitoraggio e sorveglianza e il registro navale italiano le ha riconosciuto una notazione in classe come nave attrezzata per la ricerca e il soccorso. Tutto bene, quindi? No, perché la Guardia Costiera invece non riconosce quello status e ecco che la Capitaneria trova il ganglo per bloccare l’imbarco dei due tecnici. «Inoltre – si legge ancora nel provvedimento – l’imbarco dei soggetti sopra menzionati risulta in netto contrasto anche con le precedenti diffide notificate». Sì, perché dal 9 giugno a oggi sono ben quattro le diffide notificate. La Ong Mediterranea non ha dubbi: «Si tratta, evidentemente, di una mirata persecuzione amministrativa e giudiziaria che nasce da una precisa volontà politica del Governo…».

Qualche giorno fa la Capitaneria di Porto di Palermo ha deciso il fermo amministrativo della nave Sea Watch dopo ben 11 ore di accuratissima ispezione a bordo e uno dei motivi avanzati sarebbe stato «l’eccessivo numero di giubbotti di salvataggio a bordo». Anche allora le parole del responsabile affari umanitari di Medici Senza Frontiere Marco Bertotto fu chiaro: «Le autorità italiane – dichiarò – provano a fermare le organizzazioni umanitarie – che cercano solo di salvare vite in mare come richiesto dal diritto marittimo internazionale – mentre disattendono i loro stessi obblighi di soccorso, con l’assenso se non il pieno appoggio degli stati Europei».

Il fermo della Mare Jonio di ieri è il sesto fermo amministrativo negli ultimi cinque mesi da parte delle autorità italiane. Tutto questo mentre dall’inizio del 2020 quasi 8mila rifugiati e migranti sono stati intercettati in mare e riposatamente nelle prigioni libiche dalla Guardia costiera libica, quella che profumatamente paghiamo per fare il lavoro sporco. Ad agosto sono state dichiarate morte e disperse 111 persone, quasi 400 da inizio anno. In tutto questo la ministra Lamorgese nei giorni scorsi ha dichiarato che le sanzioni alle Ong potrebbero “diventare penali”. Tutto questo mentre l’Europa si arrabatta per costruire una solidarietà tra Stati, dimenticandosi delle persone, con il Migration Pact.

Intanto quei torturatori che si fanno chiamare Guardia costiera libica continuano indisturbati il loro lavoro e i lager libici mietono vittime. E allora viene da chiedersi: ma siamo sicuri che il problema fosse solo Salvini? O semplicemente bisognava semplicemente imparare a fare il lavoro sporco in modo pulito, sottovoce, senza social? Una cosa è certa: la criminalizzazione della solidarietà continua a gonfie vele.

L’articolo Dal Conte 1 al 2 la criminalizzazione della solidarietà delle Ong continua a gonfie vele… proviene da Il Riformista.

Fonte

A proposito di Dana

Lo scorso 17 settembre all’alba a Bussoleno, in Valsusa, è stata arrestata nella sua abitazione Dana Lauriola attualmente nel carcere Le Vallette di Torino per scontare una pena detentiva di due anni, a seguito di una condanna definitiva per “violenza privata” e “interruzione aggravata di servizio di pubblica necessità” per un’azione dimostrativa pacifica realizzata il 3 marzo 2012 sull’autostrada Torino-Bardonecchia, all’altezza del casello di Avigliana, alla quale parteciparono attivisti del movimento No Tav, in protesta contro la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità.

Cosa ha fatto Dana? Era il 3 marzo 2012 e la tensione in Val di Susa era altissima per l’incidente occorso a un attivista, Luca Abbà, inseguito da un poliziotto e folgorato su un traliccio. Vengono organizzate manifestazioni di protesta e di solidarietà e tra queste circa 300 manifestanti si sono diretti a Avigliana, dice la sentenza del tribunale: «occupando l’area del casello, rendendo inefficienti gli impianti di videosorveglianza e bloccando con nastro adesivo le sbarre di pedaggio in modo da consentire il passaggio continuo dei veicoli in transito». Dana, dice sempre la sentenza «ponendosi alla testa dei manifestanti, con l’utilizzo di un megafono intimava agli automobilisti di transitare ai caselli senza pagare il pedaggio indicando le ragioni della protesta» (così la sentenza 28 marzo 2017 del Tribunale di Torino che ha quantificato in 777 euro il danno patrimoniale riportato dalla società concessionaria dell’autostrada per mancata riscossione dei pedaggi).

Dana Lauriola viene condannata a due anni di carcere. È incensurata per cui si presume che, avendo partecipato a una manifestazione pacifica, possa, come sempre succede, accedere a misure alternative. Qui si entra nell’assurdo. Le vengono negate misure alternative per la mancata presa di distanza di Dana dal Movimento No Tav (pur in un quadro di revisione critica «delle modalità con le quali porre in essere la lotta per le finalità indicate») e il luogo della sua abitazione, prossimo all’epicentro dell’opposizione alla linea ferroviaria Torino-Lione). In sostanza a Dana vengono contestati i suoi ideali politici e il luogo in cui abita. Una cosa mostruosa. Quando ho letto la sentenza mi sono detto che sicuramente i difensori della libertà, quelli che scrivono tutti i giorni sulle proteste in giro per il mondo, si sarebbero preoccupati anche di Dana. Niente.

Amnesty International dice: «Esprimere il proprio dissenso pacificamente non può essere punito con il carcere. L’arresto di Dana è emblematico del clima di criminalizzazione del diritto alla libertà d’espressione e di manifestazione non violenta, garantiti dalla Costituzione e da diversi meccanismi internazionali. È urgente che le autorità riconsiderino la richiesta di misure alternative alla detenzione e liberino immediatamente Dana Lauriola, arrestata ingiustamente per aver esercitato il suo diritto alla libera espressione e a manifestare pacificamente».

Non lo sentite tutto questo silenzio intorno?

Buon venerdì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Lo Ius Soldi

C’è chi deve aspettare anni per ottenere la cittadinanza italiana, e chi 10 minuti

Il calciatore del Barcellona Luis Suarez, l’avrete sentito ieri sicuramente, aveva bisogno della cittadinanza italiana per brigare il suo trasferimento a un’altra squadra e per facilitare la propria carriera. Aveva la parentela giusta ma avrebbe dovuto sostenere l’esame di italiano. Si presenta all’Università per Stranieri di Perugia e ovviamente è un trionfo.

Peccato che secondo la Procura di Perugia l’esame sia stato concordato e addirittura il voto finale fosse stato stabilito prima ancora di sostenere l’esame. Dalle carte dell’inchiesta si legge che «quello non spiaccica ‘na parola, coniuga i verbi all’infinito, ma te pare che lo bocciamo», si dicono i professori, anche perché dicono sempre loro «con 10 milioni a stagione di stipendio, non glieli puoi far saltare perché non ha il B1». Sui social i professori si sono fotografati tutti sorridenti con il celebre studente.

E dov’è lo scandalo?, direte voi. Semplice. In Italia per prendere la cittadinanza ci vogliono fino a quattro anni, normalmente. Merito, neanche a dirlo, anche del decreto sicurezza del fu Salvini che ha allungato da due a quattro anni i tempi del procedimento. Suarez in 15 giorni ha fatto quello che una persona normale riesce, se riesce, a fare in quattro anni con pratiche molto macchinose che spesso richiedono l’ausilio perfino di un avvocato.

Scrive una professoressa: «In qualità di docente di italiano L2 conosco le lungaggini burocratiche, legate alla richiesta della cittadinanza, le quali inducono spesso molti stranieri a evitare di farne richiesta; fatto salvo il caso di taluni che pare godano di corsie preferenziali».

Poi c’è l’esame: quello di Suarez è durato qualche decina di minuti. Un mostro, in pratica. Scrive Gavin Jones, corrispondente Reuters in Italia che l’ha sostenuto: «Leggo che #Suarez ha ottenuto il certificato B1 di conoscenza dell’italiano ieri in mezz’ora. Per caso anch’io ho dato lo stesso esame ieri (per ottenere la cittadinanza). Dura 2 ore e 45’. Farlo in mezz’ora è impossibile – anche per Dante, ma sicuramente per Suarez».

E quindi cosa è successo con Suarez? Semplice: l’attaccante del Barcellona ha ottenuto lo Ius Soldi, ovvero un diritto che, come troppo spesso accade, non viene attribuito per merito ma per interesse economico. E non capita solo agli stranieri, e non capita solo nelle questioni di cittadinanza. E sarebbe interessante aprire un dibattito sulla ricchezza (e la notorietà) che unge i gangli della burocrazia. Siamo sempre lì. Siamo sempre qui.

Buon mercoledì.

(la geniale definizione di Ius Soldi è di Matteo Grandi)

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il caso Suarez ci dice che in Italia gli immigrati ricchi si accolgono e quelli poveri si odiano

È la fotografia della distorsione di un paese e, per questo, la vicenda del calciatore del Barcellona Luis Suarez va raccontata per bene e va tenuta a memoria. Non tanto per le dimensione di un’indagine, quella della Procura di Perugia, che forse ha scovato i soliti furbi fare i furbi per mettersi a disposizione del luccicante mondo dei ricchi, ma perché le disuguaglianze sono talmente evidenti che basta mettere in fila i fatti per comprendere come in Italia ci siano diverse velocità (e forse anche regolarità) di procedura per ottenere un diritto.

E cosa c’è di più schifoso di un diritto che dovrebbe universale e invece è accessibile solo a chi può permetterselo? Un calciatore del Barcellona nato in Uruguay briga per ottenere la cittadinanza italiana (ha sposato un’italiana) in poche settimane. È la stessa cittadinanza che, lo dicono le statistiche, tanti attendono in media in quattro anni. Anni contro settimane, tanto per rendere l’idea.

Suarez doveva ottenere la cittadinanza per firmare per venire a giocare in Italia e sostiene, come tutti, un esame di italiano. Secondo le intercettazioni Suarez “non coniuga i verbi”, “parla all’infinito” e quindi concordano l’esame “perché con 10 milioni a stagione di stipendio non glieli puoi far saltare”, dicono gli esaminatori e quindi il calciatore “sta memorizzando le varie parti d’esame” e addirittura il voto finale è stato comunicato in anticipo al candidato. Prima di un esame che è durato una manciata di minuti quando di solito dura circa due ore e mezza.

Così ora la Procura di Perugia indaga, tra gli altri, il Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, Giuliana Grego Bolli, e il direttore Generale dell’università, Simone Olivieri. Ma in fondo, se ci pensate bene, Suarez ha dimostrato di avere tutte le carte in regola per diventare un italiano, un italiano di quelli che sono convinti che questo Paese appartenga ai furbi, ai ricchi, agli amici degli amici, alle raccomandazioni, al servilismo di certi funzionari, al seguire gli interessi prima ancora delle regole e alla prepotenza di chi può permettersi di comprare risultati che andrebbero conseguiti per merito.

In questa sua predisposizione Suarez ha dimostrato di essere perfetto per diventare un italiano di quelli. Resta solo da spiegare ai tanti che sono italiani di fatto, ma che lottano per anni per vedersi riconosciuti, che gli immigrati qui pesano in base al loro reddito. Si accolgono i ricchi e si odiano i poveri, semplice semplice. E così quella che era già una farsa ora diventa ancora più vergognosa.

Leggi anche: Suarez, cittadinanza italiana ottenuta con truffa: il punteggio attribuito prima della prova

L’articolo proviene da TPI.it qui

Dramma di Caivano, il diritto di amarsi di Ciro e Paola e le donne vissute come proprietà privata

È stata Cira, anzi no, è stato Ciro che però era Cira e che era una trans, poi si correggono è stato un trans, poi qualcuno che scrive che fosse un amore gay, addirittura un telegiornale nazionale in prima serata, quello spicchio di tempo che dovrebbe essere pedagogico oltre che informativo e l’attenzione di troppi giornali e telegiornali e troppi commentatori va a finire tutta lì, sulla transizione di Ciro Migliore e la morte di Maria Paola Gaglione, morta a causa di un inseguimento che ha ribaltato la motocicletta su cui Maria Paola viaggia finisce quasi in secondo piano, è troppo ghiotto il piatto del trans per fermarsi alla cronaca e alla narrazione dei fatti e così, ancora una volta, oltre al lutto si aggiunge il dolore e la sofferenza di una stampa che sembra non avere le parole per raccontare la realtà che ci circonda, che ancora incespica nel raccontare il presente e che ancora punta il dito sulla vittima piuttosto che sul presunto colpevole.

I fatti, intanto: Maria Paola Gaglione, 22enne di Caivano, ama Ciro Migliore, un uomo trans, nato biologicamente donna ma in transizione verso il sesso maschile. I due sono in motorino e il fratello Michele comincia a inseguirli. Il fratello non sopportava la relazione tra i due: «Non volevo ucciderla, ma solamente darle una lezione», dice il fratello agli inquirenti che lo accusano di morte in conseguenza di altro reato e di violenza privata. Ieri il gip ha convalidato l’arresto. «L’aveva infettata», dice lui parlando della sorella e del suo amore. Mentre li inseguiva urlava minacce di morte. Quando avviene l’incidente (le cause sono tutte ancora da accertare e al vaglio degli inquirenti) Maria Paola Gaglione rimane uccisa sul colpo mentre Ciro è sanguinante a terra e comincia a essere pestato dal fratello. A completare il quadro ci sono poi le voci della famiglia, i genitori di Maria Paola giustificano il fratello dicendo in diverse interviste che il giovane sicuramente non voleva speronare ma che il gesto era di “aiuto” per quella sorella e la sua relazione non accettata.

Si tratta, per l’ennesima volta, di una donna che viene vissuta come proprietà privata (in questo caso dal suo fratello maggiore) e che non viene considerata libera di vivere la sua relazione perché l’amore che nutriva per il suo compagno non rientrava nei canoni tradizionali di una famiglia che, lo dice bene don Patriciello che conosce i protagonisti, «non avevano gli strumenti culturali» per affrontare una situazione del genere. Siamo di fronte, una volta ancora, a un femminicidio (quanto preterintenzionale e quanto volontario lo deciderà ovviamente il processo) in cui perde la vita una donna che è stata giudicata da un contesto che non ha l’educazione sentimentale per affrontare la complessità dell’amore che spesso segue linee ben diverse dai canoni tradizionali.

Per questo in molti in queste ore continuano a chiedere che arrivi al più presto quella legge contro l’omotransfobia che giace da mesi in commissione (e che ha diviso il Parlamento): le associazioni Lgbt locali tra l’altro sottolineano come Ciro fosse vittima dell’odio e delle minacce da parte della famiglia di Maria Paola. Il tragico evento accaduto qualche giorno fa è solo la coda di un odio che parte da lontano e che si è perpetrato per mesi. Poi c’è la questione, sempre poco raccontata e spesso raccontata in modo piuttosto distorto di queste famiglie che si ritengono proprietarie della vita e delle scelte dei propri figli: Sana Chhema, una 25enne pakistana viveva a Brescia dove aveva studiato e dove lavorava ed è stata uccisa dal padre e dal fratello che non accettavano il fatto che si fosse innamorata di un ragazzo italiano, era l’aprile del 2018 e nel 2016 Nina Saleem, ventenne pakistana, venne sgozzata dal padre, dallo zio e da due cugini perché aveva un fidanzato italiano e perché vestiva troppo all’occidentale. In quel caso fu facile addossare le colpe degli omicidi all’arretratezza delle famiglie straniere e sentirsi assolti come se fossero fatti di cronaca lontani da noi eppure la trama, il nocciolo della storia anche in questo caso è lo stesso, con cognomi italianissimi.

E a proposito di arretratezza forse sarebbe il caso anche di ricordare che Caivano, luogo in cui si è consumata la tragedia, è uno dei luoghi con i più alti indici di dispersione scolastica e con il più basso indice di presenza di nidi a tempo pieno d’Italia. Perché forse oltre alla legge servirebbe anche un’educazione sentimentale e una formazione culturale di cui si continua a discutere e che continua a non essere un serio progetto politico. Serve la legge, certo, ma serve la cultura. E ancora una volta siamo qui a ripetercelo.

E allora ci si chiede se non sia il caso di allargare lo sguardo, al di là del brutto giornalismo che si ferma su Cira che è diventato Ciro, e domandarsi quanto tempo ancora debba passare perché il diritto di amare, amare senza creare nessun danno agli altri, diventi finalmente una libertà da praticare senza paura e senza ritorsioni. Comunque vada a finire la vicenda giudiziaria.

L’articolo Dramma di Caivano, il diritto di amarsi di Ciro e Paola e le donne vissute come proprietà privata proviene da Il Riformista.

Fonte

Il linguaggio di certi giornali sul caso di Caivano rivela l’arretratezza italiana sull’omotransfobia

I fratelli proteggono le sorelle. E, badate bene, i fratelli non proteggono le sorelle dalle azioni con cui loro non concordano, i fratelli difendono le sorelle dai pericoli e amare non è un pericolo. Anche se Maria Paola Gaglione amava un uomo che, essendo trans, risultava inconcepibile all’ignoranza e alla sopraffazione che diventa spirito di proprietà, dove la sorella diventa un bene provato che viene concesso solo grazie alla disponibilità della famiglia.

Che il fratello di Maria Paola Gaglione, quello stesso che ha dato vita a un inseguimento finito così tragicamente, ora ci dica, con l’appoggio di anche tutta la sua famiglia, che volesse solo dare una lezione a quella sorella che si era infettata per colpa di quell’amore fuori dai miopi canoni dell’amore è già grave ed è già il senso della violenza e dell’ignoranza che questo Paese continua a sventolare come tradizione e che invece è e continua a essere un’incapacità di leggere il presente.

E che il parroco dica ai giornali che la famiglia di Maria Paola era “solo preoccupata” racconta ancora una volta, per l’ennesima volta, che l’omofobia in questo Paese è qualcosa che ha bisogno urgentemente di una legge, certo, ma anche di una cultura che sia capace di vedere quello che accade qui intorno, qui fuori. E qui c’è anche tutto lo schifo che certa stampa ieri ha vomitato per tutto il giorno: “due ragazze lesbiche”, Ciro che è diventato “Cira”, in molti si sono dimenticati di raccontare le minacce e le botte subite dal ragazzo perché trans (il fratello di Maria Paola ha infierito su di lui mentre era ferito per terra e mentre la sorella moriva) e la differenza tra identità di genere e orientamento sessuale che sembra essere tornata al secolo scorso.

Un linguaggio rivoltante che ha reso questa storia ancora più indecente e non parliamo solo di giornali locali ma addirittura di telegiornali nazionali (di Stato) in prima serata. Da Il Mattino al Tg1, passando per Repubblica e altri. E basta parlare di ignoranza: la stampa non può permettersi di essere ignorante quando racconta la contemporaneità e ha l’obbligo di perseguire un’ecologia lessicale e sentimentale che già è troppo deturpata da troppa politica.

Perché ogni volta non si perde l’occasione di fare schifo? Perché ogni volta si tende a normalizzare seguendo semplificazioni che sono un’ossessione contro una comunità che non riesce nemmeno ad avere il diritto di essere descritta? Si dice che le parole siano importanti e creino le azioni: in questa storia ci sono un mucchio di parole sbagliate.

Leggi anche: 1. Investe e uccide la sorella perché aveva una relazione con un ragazzo trans: 22enne uccisa nel Napoletano/ 2. Maria Paola Gagliano, il messaggio del compagno Ciro: “Amore mio non posso accettarlo, ti amerò per sempre” / 3. Legge contro l’omotransfobia: cosa prevede e perché fa discutere

L’articolo proviene da TPI.it qui

Liliana Segre è una farfalla appoggiata sul filo spinato

(Ho avuto l’onore di scrivere la prefazione di un libro di Liliana Segre, “Scegliete sempre la vita – La mia storia raccontata ai ragazzi”, Edizioni Casagrande, e oggi ho pensato che forse fosse il caso di appoggiarne l’inizio qui, perché Liliana Segre è una persona che dobbiamo coltivare con cura, perché ieri ha festeggiato il suo compleanno sotto scorta e perché la memoria è un muscolo che va allenato con cura)

Liliana Segre è una farfalla appoggiata sul filo spinato e per questo è preziosa, è un fiore da preservare con cura e dovrebbe essere un gioiello non solo per i contenuti ma anche per i modi, per la visione d’insieme e per l’insegnamento di “cura del nostro tempo” che da anni impartisce in mezzo ai ragazzi. È anche un personaggio pubblico profondamente normale che ci costringe a riflettere sul ruolo dei testimoni in un tempo in cui tutto si fa spettacolo, tutto diventa tifo organizzato e tutto viene smisuratamente impugnato come clava per diventare arma bianca contro l’avversario politico di turno. Leggendo queste sue parole ai ragazzi, parole talmente lucide e misurate da sembrare un testo scritto recitato a memoria e non il contrario, ci si accorge di un’ecologia lessicale oltre che intellettuale a cui siamo completamente disabituati e che è il modus da cui ripartire per fronteggiare lo sbiadimento di un periodo storico che non ha a che vedere solo con il passato ma è l’antidoto a un presente che si ripresenta con altre facce, con un’alta capacità di simulazione e con punte ammorbidite degli stessi becchi che hanno portato una bambina, che era Liliana ma erano milioni di persone allo stesso modo, ad essere colpevole di essere nata.

Ciò che colpisce, innanzitutto, di Liliana Segre è la delicatezza che non si è fatta inquinare da ciò che ha vissuto: è la sua lezione più grande, quella che sarebbe da smontare per osservarne i meccanismi e i bulloni e capire come sia possibile rimanere ferocemente umani in questo tempo in cui riflettere sulla sentimentalità della vita (ovvero di come la vita sia spesso una questione di pressioni che la Storia sembra volere mettere nel cassetto delle cose passate e concluse) viene considerato un segno di debolezza. Liliana Segre è la prova vivente che ci sono purezze di sguardo e saldezza di valori (che ultimamente vengono chiamati in senso dispregiativo “buonismo”) che riescono ancora a essere le fondamenta su cui costruire uno sguardo diverso del presente e del futuro. Lei bambina, lei separata dal padre, la sua speranza di fuga che si infrange contro i calcoli sbagliati di chi sperava di salvarsi sono la metafora di un mondo in cui il “diritto a salvarsi” sembra ormai essere solo una concessione da dare a determinate categorie umane come se non esistesse un’unica razza umana.

Buon venerdì.

*-*

Per approfondire:

Liliana Segre, il futuro della memoria, Left dell’11 settembre 2020

La forza di Liliana Segre, Left del 15 novembre 2019

Liliana for President, Left del 7 giugno 2019

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Cecilia Strada ha ragione: i negazionisti del Covid non si meritano il servizio sanitario nazionale

No, la questione dei negazionisti che manifestano a Roma contro la dittatura sanitaria, la combriccola di quelli che ci dicono insistentemente che il Covid non esiste, che è tutta un’invenzione, il patetico ritrovo di quelli che vorrebbero abolire l’ordine dei medici e poi ne cercano in fretta e furia uno perché un manifestante viene colto da un malore (un contrappasso da film, roba che nemmeno un drammaturgo riuscirebbe a scrivere così tragicamente comica), non è solo questione di virus, di poteri forti e di complotti orditi da un misterioso ordine mondiale.

Si tratta subito di un attacco frontale al sistema sanitario nazionale, quello stesso sistema che garantisce la cura e la salute esattamente anche a loro, indipendentemente dai loro atteggiamenti irresponsabili e dal loro ammassarsi senza mascherine. L’ha scritto lucidamente Cecilia Strada (che di cure e di salute se ne intende, avendoci dedicato una vita intera): “Ho visto la manifestazione dei negazionisti a Roma. Ammassati, senza mascherine. Non ve lo meritate il Sistema sanitario nazionale. Vi cureranno sempre, ogni paziente ‘con eguale scrupolo e impegno, indipendentemente dai sentimenti che esso mi ispira’, ma non ve lo meritate”. E tanto per bloccare qualsiasi mala interpretazione Cecilia Strada ha anche aggiunto: “Oh, chiariamoci, ché forse sono stata ambigua: non dico che non dovrebbero ricevere cure. Chiunque ha diritto alle cure. Anche se non rispetta chi lo cura e la comunità che lo circonda. In questo senso, ‘non se lo meritano’: perché non lo rispettano, né il SSN, né la comunità”·

Se i negazionisti nostrani credono davvero che l’opera di medici e di infermieri in questi ultimi mesi in Italia sia un’orrida messa in scena per controllare il popolo e se davvero credono che le mascherine non siano dispositivi di protezione ma museruole utilizzate per silenziare la libertà dei cittadini allora ci dicano, se ne prendano la responsabilità, che nel caso in cui si ammalano non si consegneranno nelle mani del nemico ma addirittura rifiuteranno le cure. Non accedano al servizio sanitario che con tanta fatica questo Paese e tutti i suoi cittadini tengono in piedi e si affidino alle cure dei loro falsi profeti. Questo sarebbe coerente. Questo sarebbe normale. Senza poi vederli stipare ospedali (spesso di gran lusso) per combattere il male che non avrebbe dovuto esistere.

Leggi anche: Lettera ai negazionisti: “Venite a Lodi a tenere i vostri comizi davanti a orfani del Covid”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Referendum, Nespolo (Anpi) a TPI: “Tagliare i parlamentari per risparmiare? No, si riducano gli stipendi”

Carla Federica Nespolo, 77 anni, ex parlamentare del Pci e del Pds, è la prima donna a presiedere l’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia). Con lei discutiamo del referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari, in calendario il 20 e 21 settembre. L’Anpi si è schierata per il No.
Nespolo, come risponde al movimento anti-casta, secondo cui il No è la posizione dell’arroccamento?
Più che di “movimento anti-casta” io parlerei esplicitamente e francamente di pensiero populista. Al fondo del quale, inutile girarci attorno, c’è il rifiuto della democrazia come partecipazione e diritto del popolo a scegliersi i propri rappresentanti. Se per “uomini rinchiusi nei palazzi” i fautori del Sì intendono anche i 183 costituzionalisti italiani che si sono dichiarati per il No, dimostrano di non aver capito nulla di quello che, nel colpevole silenzio di tanti, oggi è in gioco.

Cosa c’è in gioco?
Si tratta, sostanzialmente, di un attacco alla democrazia rappresentativa. Non dimentichiamoci che uno dei primi atti del Governo, dopo il 25 Aprile 1945, fu quello di dare a tutti (uomini e donne) il diritto di voto. E dopo 75 anni si vorrebbe tornare indietro e privare persino alcune Regioni del diritto di essere pienamente rappresentate in Parlamento? Inaccettabile. Altro che “casta”: la “casta” è proprio dei “notabili” di partito che, non a caso, sembrano tutti uniti  – ma con molti problemi interni – a votare Sì.

I motivi principali per cui l’Anpi ha deciso di esprimersi per il No: quali sono i valori da difendere?
La difesa della democrazia per cui, 75 anni fa, un’intera generazione si è sacrificata, ha combattuto e vinto. E oggi troppi se ne dimenticano. Mi lasci citare un terribile verso di Giorgio Caproni: “I morti per la Libertà, chi l’avrebbe mai detto, i morti. Per la Libertà, Sono tutti sepolti”. Ecco. L’Anpi è in campo per questo. Perché la democrazia, che tanto sacrificio e tante lotte è costata, non venga oscurata e vilipesa da chi la considera un ostacolo alla propria ascesa politica.

Si insiste molto sul risparmio dei costi, come già avvenuto nell’ultimo referendum costituzionale. Non teme che questo argomento possa essere una spinta difficile da arginare?
Quella dei costi è una sciocchezza che non merita neppure una risposta. Vogliono davvero ridurre i costi del Parlamento? I parlamentari si riducano lo stipendio. Punto e basta. Ma non possiamo nasconderci che questo tema ne nasconde un altro. E cioè la poca stima che l’opinione pubblica ha verso un certo ceto politico. In questo senso condivido la frase del comandante De Falco: “Non voglio essere rappresentato meno, voglio essere rappresentato meglio”.

Il Pd sembra non volersi esprimere o esprimersi molto blandamente a proposito di questo referendum. Che consiglio darebbe al partito di governo?
Non è compito dell’Anpi dare un consiglio ad alcun partito. E tanto meno al Pd. Certo la contraddizione tra aver votato per tre volte contro e ora votare a favore è lampante. Insomma, non sempre sacrificare sull’altare della governabilità la propria coerenza è un buon calcolo. Comunque ho grande rispetto per il travaglio che sta attraversando il Pd. Ma non è un tema che ci vede protagonisti.

In questi giorni circola molto un’intervista in cui Nilde Iotti dichiara che il numero dei parlamentari italiani è eccessivo e dal fronte del Sì sono in molti a ripetere che la riduzione del numero dei parlamentari sia una battaglia storica della sinistra. Come risponde?
Alla citazione di Luigi Di Maio rispetto alla posizione di Nilde Iotti ha già risposto esaurientemente Livia Turco, presidente della Fondazione Iotti. Quello che la presidente Iotti proponeva era un intero nuovo impianto istituzionale, a cominciare da una nuova legge elettorale. Separare la rappresentanza dalla sua funzione è quanto di più volgarmente tattico si possa fare. Mai la presidente Iotti lo avrebbe affermato.

Come ha intenzione l’Anpi di occuparsi di questa campagna referendaria? Con quali mezzi? Come arrivare a più gente possibile, tra l’altro in un periodo difficile come questo in piena pandemia?
L’Anpi sta facendo il suo dovere. Le nostre sezioni territoriali stanno illustrando in ogni parte d’Italia le nostre ragioni e il 10 settembre alla Sala della Protomoteca in Campidoglio, a Roma, faremo il punto con importanti giuristi sulle ragioni del nostro No. Prevediamo anche un intervento di un rappresentante delle Sardine. Inoltre, siamo e saremo attivi anche sui social network. Invitiamo tutti ad andare a votare No. E mi lasci chiudere con una nota di ottimismo.
Prego.
Ce l’abbiamo fatta nel 2016. Ce la faremo anche nel 2020.

Leggi anche:  1. Taglio parlamentari, il costituzionalista Ceccanti a TPI: “Chi votò Sì alla riforma Renzi dovrebbe rifarlo oggi. Ma preferisce attaccare il M5s” / 2. La politologa Urbinati a TPI: “Taglio dei parlamentari? Così il M5S favorisce la casta” / 3. Taglio dei parlamentari: ecco cosa prevede la riforma e come funziona il referendum

L’articolo proviene da TPI.it qui

La discocrazia

È l’immagine di questa destra che si è involuta nel tempo, che è invecchiata male ballando al Billionaire e al Twiga, allo Smaila’s e al Papeete che negli anni hanno voluto trasformare come simbolo di un Paese che esiste solo nelle loro tasche, nelle loro teste e nella loro ristretta cerchia di amicizia che non ha niente a che fare con il mondo reale e nemmeno con la situazione reale.

Se c’è qualcosa di più stupido di quelli che temono di avere in futuro un microchip sotto pelle iniettato con un vaccino allora è sicuramente questa discocrazia che viene proposta, tra l’altro, mica da giovani che reclamano la propria libertà, ma da attempati signorotti della politica, che di politica hanno vissuto e continuano a vivere, che vorrebbero risultare giovanili e invece sono semplicemente patetici. Daniela Santanchè che balla per fare opposizione è una scena da film dell’orrore che tra qualche anno riguarderemo con disgusto.

È la destra che da anni si propone come il partito del “rispetto delle regole” e invece ora vorrebbe crescere nei sondaggi invitando gli altri a non rispettarle. Badate bene: non propone una nuova regolamentazione e non propone nemmeno una soluzione strutturale a un problema strutturale (perché il virus chiede un nuovo paradigma piuttosto che una serie di interventi tardivi e isolati), no, la destra italiana chiede il “diritto di ballare” dimostrando tutta la sua distanza dalla realtà.

Agli elettori della discocrazia non interessa poi nemmeno troppo in fondo ballare, vivono questa battaglia di resistenza culturale perché qualcuno gli dice che si comincia così, vietando i balli, imponendo le mascherine e poi togliendo i diritti civili. E i leader della discocrazia hanno pensato bene che essere liberi significhi praticare la propria libertà di ammassarsi in nome della loro nuova rivoluzione.

Dalla mignottocrazia di Berlusconi alla discocrazia di Meloni e Salvini il passo è stato breve e, se guardate bene, i protagonisti sono sempre gli stessi.

A un mese dall’apertura delle scuole, nel pieno della discussione sul Mes, mentre si dovrebbe discutere di come ripensare il Paese con i soldi che arrivano dall’Europa, qui si continua a discutere da giorni di discoteche. Nell’anno di una pandemia mondiale.

Ma vi sembra normale?

Buon mercoledì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.