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Il dramma di Pasquale Francavilla, moribondo in attesa di operazione sbattuto e morto in prigione in poche ore

A Pasquale Francavilla mancano dieci mesi di pena per scontare la sua condanna definitiva inflittagli nel processo “Apocalisse”. Ma la sentenza è stata peggiore, come accade spesso nelle carceri italiane, e alla fine è morto nel carcere di Cosenza. Da alcune settimane le sue condizioni di salute erano peggiorate e il quadro clinico era stato giudicato incompatibile con il regime carcerario dai sanitari che lo avevano in cura ma il magistrato di sorveglianza non era dello stesso avviso e così appena dimesso dall’ospedale l’ha rispedito in cella.

Pasquale Francavilla soffriva di una grave patologia vascolare che fino a quattro giorni prima della morte l’aveva costretto sul letto dell’ospedale “Sergio Cosmai” di Cosenza: il detenuto aveva riferito ai suoi familiari che una volta dimesso sarebbe stato trasferito in un altro reparto per essere sottoposto a un intervento chirurgico ma una volta protocollate le dimissioni (con il suggerimento di un altro ricovero in ospedale per le cure del caso) per lui si sono aperte ancora una volta le porte del carcere: «Pasquale – ha spiegato il suo avvocato Mario Scarpelli – è stato ricoverato d’urgenza in ospedale, dieci giorni fa, per la presenza di alcuni trombi. Si trovava nel reparto di terapia intensiva. Cinque giorni fa ho avuto modo di sentirlo tramite video chiamata e mi aveva annunciato l’imminente trasferimento in un altro reparto. L’ho visto sofferente, mi ha detto che lo avrebbero dimesso dall’intensiva e ricoverato in un reparto. Tra un mese avrebbe dovuto sottoporsi ad un altro delicato intervento, ma è tornato in carcere ed è morto perché gli è sopraggiunto un trombo alla gamba».

«La mia collaboratrice – ricorda ancora l’avvocato Scarpelli – è andata subito dal magistrato per capire il motivo di quella disposizione, e in tutta risposta la giudice ha detto che non aveva ancora la cartella clinica». Un fatto, secondo l’avvocato, singolare. «Mi chiedo come sia possibile disporre la carcerazione quando ancora non si ha contezza della situazione clinica! Anche se c’era stata una lettera di dimissioni firmata dal medico dell’ospedale, bisogna prima valutare in base alla cartella», chiosa l’avvocato. Ancora più incredibile è il fatto che, come racconta sempre l’avvocato, «anche il direttore dell’istituto penitenziario è rimasto sorpreso quando inspiegabilmente il magistrato di sorveglianza ha disposto il trasferimento del paziente in carcere». E anche il medico del Sergio Cosmai avrebbe «informato il direttore dell’istituto penitenziario dell’impossibilità di trattenere il paziente in cella e della necessità di lasciarlo in ospedale per via della terapia farmacologica alla quale Francavilla avrebbe dovuto sottoporsi». L’avvocato Scarpelli aveva presentato immediatamente istanza per incompatibilità con il regime carcerario, a distanza di 24 ore però sopraggiunge il decesso. «I medici che lo avevano avuto in cura – aggiunge – avevano confessato ai familiari della vittima la presenza di solo il 5% di possibilità di sopravvivenza». Oggi sarà effettuato l’esame autoptico sul corpo di Francavilla – alla presenza del medico di parte, il dottor Arcangelo Fonti – in attesa di nuovi sviluppi delle indagini avviate dalla Procura di Cosenza che ha aperto un’inchiesta sulla morte del detenuto.

L’avvocato Emilio Enzo Quintieri (già consigliere nazionale dei Radicali Italiani, impegnato in Calabria nell’attività di promozione e tutela dei diritti delle persone detenute o sottoposte a misure restrittive della libertà personale) ha raccontato che nei giorni successivi «tutta la popolazione detenuta sta facendo una battitura (i detenuti stanno dando vita a una protesta battendo forte contro le celle e provocando rumori che si sentono distintamente anche a molti metri di distanza, ndr) contro il Servizio Sanitario dell’Istituto ritenuto responsabile di non aver fornito al loro compagno deceduto le cure necessarie» e ha promesso di segnalare la questione al Collegio del Garante Nazionale dei Diritti delle persone private della libertà personale chiedendo una visita ispettiva presso la Casa Circondariale di Cosenza per gli opportuni accertamenti, oltre a un’interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia.

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Dramma in carcere nell’indifferenza, quanti altri ne devono morire?

Non basta la difficile situazione della struttura e le condizioni dei detenuti che per più di un mese sono rimasti senza acqua e energia elettrica nella dodicesima sezione, nel carcere di Sollicciano. L’altro ieri sera intorno alle 22 un detenuto del carcere fiorentino è stato ritrovato morto nella sua cella. La vittima è un tunisino di 43 anni che avrebbe perso i sensi dopo avere infilato la testa nello spioncino della cella riservato al passaggio del cibo.

L’uomo era detenuto nella sezione transito, dove stanno i detenuti appena entrati o trasferiti da un altro istituto o che non devono scontare una pena definitiva. Le prime ipotesi parlano di suicidio o di incidente: spesso i detenuto usano lo spazio per il cibo, largo una decina di centimetri, per vedere il passaggio nel corridoio, un gesto comune anche per chiamare le guardie. Le prime ipotesi parlano di un probabile attacco di panico, dovuto probabilmente al fatto di essersi incastrato e quasi subito avrebbe perso i sensi per poi morire per soffocamento. Certo è che mentre il detenuto era agonizzante nessuno si sarebbe accorto di nulla poiché le guardie erano impegnate in un altra cella dove un detenuto stava dando in escandescenze danneggiando gli interni. La Procura ha aperto un’indagine per cercare di capire come sia successo che quell’are sia rimasta così a lungo incustodita.

“La notizia della morte di un giovane detenuto, avvenuta questa notte nel carcere di Sollicciano, riempie di dolore tutti coloro che hanno come valore primario il rispetto della vita delle persone e l’umanità del carcere. Alla memoria di questo giovane va tutto il nostro pensiero, ed alla sua famiglia tutta la nostra vicinanza di uomini prima che di Istituzioni. A lui auguriamo di riposare con quella pace che probabilmente non ha avuto in vita. Noi attendiamo di conoscere le cause della morte”. Così il Garante dei detenuti della Toscana, Giuseppe Fanfani, appresa la notizia del detenuto trovato morto nella sua cella a Sollicciano. “La sua morte – continua Fanfani – ripropone con durezza rutti i temi inevasi della condizione carceraria che già l’anno passato, con tre suicidi, erano balzati all’attenzione dell’opinione pubblica. In carcere non si muore per caso. Il carcere così come lo conosciamo noi è la precondizione per forme psichiatriche più o meno gravi che quasi sempre portano ad atti autolesionistici, l’anno passato solo a Sollicciano se ne sono contati 700, e spesso portano al suicidio”.

“Se nessuno resta insensibile alla morte di un detenuto, nessuno può esimersi dal denunciare con fermezza che il sistema carcerario quale attualmente è, salvo rare eccezioni, è indegno di un Paese civile”. “In carcere – prosegue il Garante – manca tutto ma soprattutto manca la prospettiva di una vita futura migliore di quella lasciata che non possono garantire da soli né la grande opera del volontariato, né piccoli interventi settoriali delle Istituzioni che rispetto alla dimensione del fenomeno sono piccolissima cosa”. Sollicciano non è da meno, perché accanto ai problemi del sistema carcerario italiano, assomma i difetti di una struttura inadeguata che ormai si pone fuori del tempo”. Il sistema carcerario nel suo complesso, a detta di Fanfani, “avrebbe necessità di una visione umanistica ed antropocentrica che esaltasse il dettato costituzionale, avendo come unica prospettiva il recupero della dignità e umanità dei singoli. Forse in questo modo si eviterebbe qualche morto”.

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Dramma migranti: oltre 1 milione di persone recluse tra torture e stupri in Libia. E Di Maio nega l’evidenza…

Eccoci qua, siamo a un passo dal rifinanziamento del governo italiano alla Libia e ricomincia il solito disgustoso balletto dei distinguo, della voluta cecità e della codardia di governo. Non servirà nemmeno ricordare cosa fece la motovedetta Ras Jadir regalata ai libici durante il governo Gentiloni e utilizzata pochi giorni fa per speronare e sparare contro una barca di disperati.

Si dimenticheranno anche quella, vedrete, sicuro. E fingeranno di non sapere che circa 1,3 milioni di persone in Libia abbiano bisogno di assistenza umanitaria (di cui 348mila bambini) e invece ricevono botte, violenza, stupri, prigionia illegale e talvolta la morte. Fingeranno di non sapere che Amnesty International ha calcolato 11.891 rifugiati e migranti nel 2020 riportati indietro sulle spiagge libiche dalla cosiddetta Guardia costiera libica che noi italiani abbiamo addestrato e rifornito di mezzi per accalappiare come cani in mezzo al mare quelli che riescono a scappare per tenere pulite le coste e le coscienze di questa Italia (e questa Europa a non vigilare dall’alto) che ha subappaltato anche la propria dignità insieme ai confini.

Il capo missione dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), Federico Soda, osserva che se gli ospiti dei campi ufficiali sono circa quattromila, mancano all’appello ottomila dei migranti catturati solo lo scorso anno. Alcuni vengono assistiti nei programmi dell’Unhcr o dell’Oim. Ma ne risultano svaniti ancora troppi. «Dobbiamo pensare che vengano trasferiti in campi non ufficiali, di cui nessuno conosce il numero», dice Soda. Fingeranno di non avere sentito le Nazioni Unite e la Commissione europea che hanno ripetuto fino allo sfinimento che no, la Libia non può essere considerata un porto sicuro e figurarsi se possa essere legittimo perfino finanziarla come palestra di prigionia e morte. Si fingerà di non ricordarsi che tutti i governi italiani che si sono succeduti, al di là delle diverse composizioni politiche, si sono ugualmente concentrati nell’impedire le attività delle navi umanitarie.

Come ha scritto Duccio Facchini su Altraeconomia: «L’Italia continua senza sosta ad assistere ed equipaggiare la cosiddetta Guardia costiera libica per intercettare le persone nel Mediterraneo e respingerle sulle coste nordafricane. Tra la fine del 2020 e i primi tre mesi del 2021, i soli appalti in capo al Centro navale della Guardia di Finanza sono stati oltre 50 per un valore complessivo di circa sette milioni di euro (da aggiudicare o in via di imminente aggiudicazione)». Fingeranno di non avere letto la nota congiunta, Asgi, Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Oxfam e Sea-Watch hanno chiesto al Parlamento di istituire una Commissione di inchiesta, che indaghi sul reale impatto dei soldi spesi in Libia e sui naufragi nel Mediterraneo e di presentare un testo che impegni il Governo a: interrompere l’accordo Italia-Libia, dare l’indirizzo a non rinnovare le missioni militari in Libia, chiedendo la chiusura dei centri di detenzione nel Paese nord-africano, dare mandato per l’istituzione di una missione navale europea con chiaro compito di ricerca e salvataggio delle persone in mare e promuovere la revoca dell’area di ricerca e soccorso libica, poiché solo finalizzata all’intercettazione e al respingimento illegale delle persone in Libia.

E chissà che ne dice il Pd, con la sua presidente Valentina Cuppi che in diverse interviste insiste nel rimarcare la contrarietà al rinnovo del sostegno italiano ricordando come perfino l’Assemblea del partito abbia votato convintamente contro il rifinanziamento. Palazzotto (LeU) e Boldrini (Pd) hanno depositato alcuni emendamenti per bloccare i finanziamenti. Il segretario Letta un po’ plasticamente propone di “responsabilizzare l’UE”, con una mossa che suona di diplomatico scaricabarile facendo infuriare Orfini che ricorda che «collaborare con la cosiddetta guardia costiera libica significa divenire corresponsabili di quei crimini. Poco cambia se chiediamo di farlo all’Europa. Anzi, non cambia nulla». Il ministro Di Maio invece ieri si è svegliato dicendoci che «il governo italiano non ha disposto e non disporrà finanziamenti a favore della guardia costiera libica». Cioè ci siamo inventati tutto, da sempre. Lui la risolve così: negando l’evidenza. Ora siamo al voto, intanto il sangue scorre.

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Il dramma di Domenico Forgione: sbattuto 7 mesi in cella per una omonimia…

Domenico Forgione ha 47 anni e vive a Sant’Eufemia d’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, un paesino di una manciata di migliaia di abitanti in cui si conoscono praticamente tutti. Laureato in Scienze Politiche con un dottorato di ricerca in Storia dell’Europa Mediterranea ha insegnato per molti anni all’università di Messina. Era consigliere comunale e il 25 febbraio 2020 finì in carcere con il sindaco Domenico Creazzo (accusato di voto di scambio), il vicesindaco Cosimo Idà (accusato di essere capo promotore ed organizzatore di una fazione mafiosa all’interno del locale di Sant’Eufemia d’Aspromonte), il presidente del consiglio comunale Angelo Alati. Gli arresti si inserivano nella più ampia inchiesta Eyphemos (a cui ne seguirà anche una seconda) ordinata dalla Dda di Reggio Calabria che ha portato a un totale di ben 76 imputati.

Con il tempo però le basi dell’inchiesta hanno cominciato a sfaldarsi: ad aprile dell’anno scorso il presidente del consiglio comunale Alati è stato rimesso in libertà dopo una sentenza di “inconsistenza indiziaria” del Tribunale del riesame di Reggio Calabria. A novembre è stata la volta di Cosimo Idà: i suoi avvocati, dopo aver richiesto diverse perizie, sono riusciti a provare che “u diavulu” di cui si parla nelle intercettazioni, non è lui. Il nome associato al soprannome in questione, che ai magistrati e agli investigatori era distrattamente sfuggito, non è il suo. «Possiamo dire che il nostro cliente è stato scagionato, sebbene avremo ogni certezza tra qualche giorno con la chiusura dell’indagine», avevano detto gli avvocati di Idà lo scorso novembre. Ulteriore beffa: Idà risulta tutt’oggi nella lista degli imputati.

A casa di Domenico Forgione le forze dell’ordine arrivano alle 3 di notte. Gli agenti gli chiedono di seguirli in Questura, lui è convinto che sia qualcosa di risolvibile nel giro di poche ore e avvisa sua madre che sarebbe stato di ritorno da lì a poco. Non andò esattamente così: il capo di imputazione è gravissimo. In alcune intercettazioni tra mafiosi ad un certo punto uno saluta il suo interlocutore con un “ciao Dominic” e “Dominic” è anche il soprannome di Forgione. Gli inquirenti non hanno dubbi. Inizia l’odissea. Due giorni dopo Forgione si ritrova di fronte al Gip, respinge tutte le accuse e fa notare la sua fedina penale assolutamente pulita e la sua vita specchiata, lui scrittore di saggi, studioso e apprezzato da tutti. Resta in carcere. Con il suo avvocato preparano una perizia fonica di parte da consegnare al Tribunale del Riesame, lui è convintissimo dell’evidenza di una voce completamente diversa dalla sua. La pratica viene valutata solo l’11 aprile ma i giudici respingono la perizia affermando che la qualità dell’audio non è buona. Capito? La qualità dell’audio è abbastanza “buona” per un arresto ma non è abbastanza “buona” per dimostrare la propria innocenza.

L’avvocato di Forgione non si arrende, chiede che sia un perito della Procura a fare tutti gli accertamenti che ritiene opportuni. Nel frattempo Forgione viene trasferito nel carcere di Santa Maria Capua Venere, ammanettato mentre si reca in autogrill come un pericoloso criminale. Forgione rimane anche sconvolto per le situazioni in cui si ritrovano le carceri, racconta di avere visto acqua marrone scendere dalle docce, di avere avuto problemi alla pelle perfino mesi dopo la sua scarcerazione.

In cella insegna l’italiano a un arrestato nella sua stessa operazione. La scarcerazione avviene il 16 settembre, dopo 7 mesi: non è lui quell’uomo intercettato, non è sua quella voce. 7 mesi di carcere da mafioso per un innocente sulla base di un’omonimia detta veloce durante un saluto. Ora Forgione è libero, innocente ma la sua vita è cambiata: ha deciso di dedicarsi ai casi di malagiustizia con l’associazione “Nessuno tocchi Caino” e intende usare la sua voce per denunciare un sistema che in un secondo può stravolgerti la vita. È l’ennesimo caso, ancora. Dice di sentirsi tradito dallo Stato ma in fondo con la sua storia siamo stati traditi tutti, anche noi.

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Il dramma di Moussa: pestato in strada e incarcerato, si toglie la vita a 23 anni

Innanzitutto diamogli un nome, perché ieri per quasi tutto il giorno il ventitreenne proveniente dalla Guinea Moussa Balde che si è suicidato domenica 23 maggio nel Centro permanenza rimpatri di Torino è stato solo un “immigrato”, per alcuni “un clandestino”, un “irregolare”, comunque “uno straniero” e come cappello di ogni cronaca della sua vicenda si leggeva di quanto fosse depresso, malato, dedito all’alcol e un’altra decina di altre caratteristiche che tornavano utile a cannibalizzarlo, a trasformarlo in “altro” così quel morto suicida poteva essere facilmente disinnescato, interessarci solo di sguincio, una notizia del solito straniero fuori di testa da mettere in pagina.

Invece la storia di Balde Moussa va raccontata per intero perché c’è dentro tutto il fallimento di questo Paese (e questa Europa) che non solo non tende la mano ai morituri ma non si prende nemmeno la briga di salvare i salvabili, che getta nel sacco dell’umido tutti i periferici che non hanno nemmeno una porta a cui bussare per diventare visibili.
Il 9 maggio Balde Moussa ha fatto capolino nei giornali per essere stato massacrato di botte nei pressi del Carrefour di Ventimiglia. Tranquilli, anche in quel caso è andato tutto come previsto: nonostante girasse un filmato chiarissimo in cui si vedeva il bastone sulla carne, si sentivano le urla terrorizzate dalle finestre, si scorgeva una donna chiedere aiuto urlando “lo ammazzano” mentre tre baldi uomini si accanivano su di lui anche in quel caso la notizia è stata trattata come si tratta un pestaggio di uno straniero: “era ubriaco”, si sono affrettati a scrivere tutti, “aveva litigato qualche minuto prima con uno dei tre”. Come se da qualche parte esistesse una legge (anche morale) che consenta la lapidazione come legittima difesa.

Le forze dell’ordine, rispettando questo infame ordine delle cose che ha preso piede dalle nostre parti, si sono premurati di verificare l’irregolarità del ragazzo nel territorio italiano e hanno raccontato il pestaggio estraendo dal cilindro il presunto movente del presunto furto del presunto telefono di uno dei tre aggressori. Capito? Allora tutto a posto, allora la violenza criminale condita con un po’ di razzismo è passata in secondo piano. Lui, Balde Moussa, raccontava ai compagni di cella del Cpr di Torino (perché noi abbiamo carceri per persone non condannate sul nostro territorio, un abominio giuridico che continuiamo a fingere di non vedere) che in realtà era tutto un tentativo di zittirlo e invisibilizzarlo. Ora vai a sapere la verità, tanto è morto e si è risolto il problema. Il comunicato ufficiale dice che Balde Moussa sia stato trovato morto impiccato con delle lenzuola mentre si trovava in isolamento nella sua cella. Nel Cpr era stato con alcuni compagni di cella e poi (senza una motivazione specifica) in isolamento per non meglio precisati “motivi sanitari”. Qualcuno parla di una depressione: che per i depressi sia meglio star soli deve essere una nuova scintillante teoria che sarebbe curioso farsi raccontare.

Di certo alcuni testimoni raccontano che gli erano state negate richieste di aiuto e di soccorso per i dolori e che, nonostante la prognosi rilasciata dai medici dell’ospedale, quelle botte erano state ignorate dagli operatori, dalle guardie e dallo staff medico del centro di detenzione. Non è difficile crederlo: al di là del caso specifico che nei Cpr non vengano rispettati i più basilari diritti è una non notizia che ogni volta coglie impreparati solo coloro che fingono (male) di non sapere. Il girone infernale dei Cpr è fatto di militarizzazione estrema, di mancanza delle più basiche regole di igiene, di nessuna comunicazione ai detenuti (che non conoscono nemmeno i propri diritti), di udienze su fascicoli che spesso non sono mai nemmeno stati letti e, poiché il sistema dei rimpatri è completamente farlocca, di “liberazioni” con inviti a tornarsene al proprio Paese autonomamente.

Balde Moussa ha affrontato il viaggio per arrivare in Europa, non riusciva a passare il confine a Ventimiglia (non voleva rimanere in Italia, voleva andare verso nord), è stato pestato ed è finito in un carcere dopo essere stato vittima di un reato. Tecnicamente si è suicidato, certo, ma siamo sicuri di non sapere chi siano i mandanti e i fiancheggiatori?

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La bugie di Conte sui migranti: “Con me porti mai chiusi”

Riposizionarsi in politica, si sa, costa fatica, richiede spalle molto larghe e soprattutto una credibilità che va trattata con cura. Se dovessimo pensare al principe del riposizionamento di questi ultimi anni non potremmo che cadere sulla figura di Giuseppe Conte, l’ex due volte presidente del Consiglio che è riuscito nell’impresa di governare con la Lega di Salvini per poi, nel giro di qualche mese, essere addirittura indicato come “il punto di riferimento dei progressisti” dal Partito democratico. Merito anche della liquidità di un’epoca politica in cui una buona narrazione conta molto di più degli ideali, Conte è riuscito a imbastire una drammaturgia perfettamente pop e magistralmente funzionale.

Cambiare opinioni e posizioni non è un peccato, in politica può essere un pregio se l’evoluzione è motivata e risulta credibile a vecchi e nuovi elettori ma Conte sceglie per riposizionarsi la svilente strada della negazione e questo no, non è accettabile: «con i miei governi i porti non sono mai stati chiusi» ha detto l’ex presidente del Consiglio al webinar delle Agorà a cui ha partecipato con il segretario del Pd Enrico Letta. Un’affermazione (furbescamente accettabile dal punto di vista giuridico) che cozza furiosamente con il primo Conte, quello con Salvini al ministero dell’Interno e con tutta la fanfara dei “taxi del mare” e le Ong finite in decine di inchieste che si sono tutte dissolte. Basterebbe un’immagine per raccontare quel Conte: c’è il futuro leader del Movimento 5 Stelle che sorride sornione con il suo ministro Salvini reggendo un foglio con l’hashtag #decretosalvini e la dicitura “sicurezza e immigrazione”. Quello è stato il punto più alto (o più basso, a seconda dei punti di vista) della piena condivisione della linea leghista. Quel testo era stato approvato il 24 settembre 2018: il comunicato stampa del Consiglio dei ministri precisa che ci si riunì «alle ore 11.41 a Palazzo Chigi, sotto la presidenza del presidente Giuseppe Conte».

Le parole sono importanti. Vale la pena ricordare anche come Conte, rispondendo al Pd (in quel caso nella veste di oppositore) sul caso Aquarius, appoggiò in toto la linea dura di Salvini: usare il divieto di sbarco per mostrare i muscoli contro l’Europa. Poi la Sea Watch e la comandante Carola Rackete. «È stato – disse Conte – un ricatto politico sulla pelle di 40 persone». Insomma, non proprio le parole di chi vuole prendere le distanze dalla politica di Salvini. A luglio 2018 anzi proprio l’allora premier rivendicava (sta ancora sul suo profilo Facebook) il risultato della spartizione dei migranti ottenuto lasciandoli in mare per giorni: «Francia e Malta prenderanno rispettivamente 50 dei 450 migranti trasbordati sulle due navi militari. A breve arriveranno anche le adesioni di altri Paesi europei». Come dire: se non li facciamo sbarcare gli altri si muovono, quindi il nostro agire è utile e chi se ne frega dei diritti.

L’ultimo atto del Parlamento prima della caduta del primo governo Conte? Agosto 2019, decreto sicurezza bis che stringeva ancora di più i lacci dell’immigrazione: il governo pose la fiducia per farlo passare. E anche i 159 migranti sulla nave Open Arms a cui fu impedito per 19 giorni l’accesso ai porti italiani nell’agosto del 2019 sono figli del governo gialloverde. Che Conte oggi ci dica di non avere “mai chiuso i porti” è una presa in giro alla memoria e alla verità. Potrebbe dirci di avere sbagliato, potrebbe dirci di essersi accorto che i diritti sono più importanti degli slogan, potrebbe perfino dirci di essere sceso a compromessi per tenere salda la propria posizione ma la narrazione per invertire il passato questa volta è miseramente fallita e che il Pd non alzi nemmeno un’osservazione aggiunge desolazione: se la prossima alleanza nasce sulle frottole non è un buon inizio.

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Sono già in campagna elettorale

Il governo dei migliori incassa le bordate di alcuni scienziati, dice il professor Galli che «Draghi non ne ha azzeccata una sul virus» e dice Andrea Crisanti che «purtroppo l’Italia è ostaggio di interessi politici di breve termine, che pur di allentare le misure finiranno per rimandare la ripresa economica» definendo le riaperture una «stupidaggine epocale» ma su queste questioni ci si accorge di chi aveva ragione sempre dopo. E quindi tra qualche mese qualcuno potrà dire “l’avevo detto”.

Intanto però la maggioranza freme perché la politica, l’abbiamo ripetuto più volte anche qui, è una continua ricerca di consenso, più della responsabilità di governo e così Matteo Salvini (dopo essersi intestato il merito delle progressive aperture) ora spinge ancora di più sull’acceleratore chiedendo ancora di più. È normale, il suo elettorato gli chiede questo, per esistere lui deve fare questo: spingere, spingere, spingere e non dare il tempo di ragionare. Così ora la richiesta è di aprire anche i locali al chiuso e di togliere il coprifuoco. Sia chiaro: la discussione è legittima ma non chiedete a Salvini di dare delle indicazioni in base ai dati in nostro possesso. Il suo ragionamento non esiste e quindi la giustificazione è sempre quella del “buonsenso”. A ruota, ovviamente, ci sono i renziani che chiedono di riaprire le palestre (anche al chiuso) e gli impianti sportivi prima del termine di giugno fissato dal governo. È una guerra ad accalappiarsi ognuno il proprio settore. Avanti così.

Salvini intanto riesuma Berlusconi per parlarci del suo rinvio a giudizio sulla vicenda Open Arms: «Silvio ha dovuto affrontare 80 processi, io per ora solo 5-6 … Ma è evidente che la sinistra vuole vincere in tribunale le elezioni che perde nelle urne. In nessun Paese al mondo si mandano un processo gli avversari politici». Intanto ne approfitta per leccare un po’ anche Eni e Finmeccanica: «In Italia – dice – si fanno tante inchieste che poi finiscono nel nulla. Come quelle che hanno riguardato grandi società come Eni e Finmeccanica. Difendere gli interessi dell’Italia significa anche difendere le aziende italiane». Per lui difendere le aziende italiane significa non indagare. Chiaro, no?

Poi ha un’illuminazione: una commissione d’inchiesta sulla pandemia (che in effetti potrebbe fare luce su molte responsabilità che meritano di essere indagate) ma anche qui riesce a buttarla in caciara sparando sulle «responsabilità del ministro Speranza», come al solito trasformando tutto in guerriglia ad personam, la stessa di cui si lamenta. E a chi pensa per trovare i voti di un’operazione del genere? Lo dice lui stesso: il centrodestra e Italia Viva di Renzi. E intanto getta l’amo.

Vi ricordate quando si diceva che Draghi li avrebbe tenuti tutti in riga? La riga si è già spezzata e vedrete che basterà che si abbassino i numeri drammatici del contagio perché inizi subito la campagna elettorale. In testa, ovviamente, i due Mattei che stanno già muovendo le code sotto traccia.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Draghi dì qualcosa: ora abbiamo bisogno di una data (e di una soglia) per sapere quando ne usciremo

Se mancano i dati, se mancano i riscontri reali, se mancano le spiegazioni precise allora diventa facile governare e farsi governare dall’emozione. Al netto di chi in questi mesi continua a lucrare sulla disperazione della gente con vergognose operazioni di sciacallaggio si può dire che in questo anno di pandemia abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a comunicazioni contraddittorie, confuse e molto spesso lacunose.

È un tema tutto politico: se continuano a mancare informazioni precise sulle misure prese e sugli impatti attesi dalle limitazioni che vengono imposte, l’aspetto emozionale (e il lucrare sulla limitazione di libertà) riuscirà sempre a trovare terreno fertile. 

Per capirci: le scuole sono state riaperte con dati peggiori rispetto a quando erano state chiuse e il ministro Speranza ha dichiarato, riconoscendo la cosa, che la scelta è stata fatta in correlazione con le vaccinazioni fatte (vaccinazioni ad insegnanti che sono state sospese) e per “investire sui giovani”.

La risposta, legittima, però cozza con le iniziative che non sono mai state prese sui trasporti, sulla ventilazione meccanica in classe e soprattutto con un rischio in ambito scolastico che non è mai stato spiegato lucidamente. Abbiamo ascoltato tutto e il suo contrario e la scuola è solo uno dei tanti esempi possibili.

Chi per lavoro ha viaggiato in questi mesi di pandemia sa benissimo che le distanze che vengono imposte sui treni a lunga percorrenza sono molto diverse rispetto ai protocolli di un semplice volo aereo, per non parlare della drammatica situazione del trasporto locale. 

Qui non si discute, sia chiaro, dell’importanza di arginare il virus e di non mandare in tilt il sistema sanitario ma avere un chiaro e periodico flusso di dati a disposizione permette una lucida valutazione delle proporzioni delle restrizioni: se non c’è chiarezza e accesso ai dati viene difficile anche valutare la bontà delle decisioni prese dalla politica.

USA e Gran Bretagna hanno fissato date per le riaperture sulla base di dati chiari e sottoposti ai cittadini. Non si tratta di aprire tutto e subito come chiedono gli sconsiderati ma forse Draghi dovrebbe sentire il dovere di fissare un’asticella (di contagi, di pressione ospedaliera, di numero totale di infetti) sotto la quale allentare i divieti.

Non è solo una questione di virus, è questione di controllo della democrazia, di trasparenza e responsabilità: comunicare con chiarezza tiene in equilibrio il patto sociale, altrimenti diventa solo una questione di pancia.

Leggi anche: Italia, cinema chiusi: ma va bene se un parroco apre la sala per trasmettere in streaming la messa pasquale

L’articolo proviene da TPI.it qui

Quante Malika ci sono in giro?

Sta facendo (per fortuna) molto rumore la storia di Malika, la ragazza di Castelfiorentino (Firenze) che nei giorni scorsi ha rilasciato la sua drammatica testimonianza a Fanpage.it in cui racconta di essere stata cacciata di casa, di essere stata umiliata e di essere minacciata di morte dalla sua famiglia dopo avere raccontato di essersi innamorata di una donna.

La storia ha tutti gli ingredienti della famosa “famiglia tradizionale” che si preoccupa molto più dell’orientamento sessuale dei propri figli che dei figli stessi. «Ti auguro un tumore», «Meglio una figlia drogata che lesbica», «Mi parli di altra gente? Son fortunati perché hanno figli normali, e solo noi s’ha uno schifo così», sono solo alcune delle frasi che la madre di Malika le ha rivolto con dei messaggi vocali. Il fratello da mesi – racconta Malika – la minaccia promettendole di tagliarle la gola. Lei è uscita con niente, solo quello che aveva addosso e da gennaio cerca di volta in volta una sistemazione di fortuna. Ha provato anche a ripresentarsi a casa della madre almeno per recuperare i suoi effetti personali ma la madre, di fronte agli agenti che accompagnavano la ragazza, l’ha addirittura disconosciuta.

Dopo l’uscita della notizia la mobilitazione è stata altissima: il sindaco della città si è subito attivato per aiutare la ragazza, molti cittadini si sono fatti avanti e Malika ha ricevuto anche qualche offerta di lavoro. Intanto la procura di Firenze, dopo 3 mesi e solo dopo l’enorme pubblicità che si è creata intorno all’evento, ha deciso di aprire un’inchiesta. La storia di Malika ha anche riacceso i fari sul Ddl Zan.

Insomma potrebbe sembrare una storia a lieto fine se non fosse che rimane addosso quella sensazione che c’è ogni volta che qualcosa si risolve dopo avere fatto rumore: quante Malika ci sono in giro? E la domanda giusta la pone proprio Malika intervistata da Fanpage quando dice: «Purtroppo ho dovuto sperimentare sulla mia pelle la lentezza della burocrazia italiana, che contribuisce a creare un clima di isolamento intorno a chi è vittima di odio omofobico, di bullismo, di stalking o di qualsiasi altro genere di violenza. Ho sporto denuncia contro i miei genitori il 18 gennaio 2021, ma fino a ieri l’altro non è stato fatto praticamente nulla di concreto. Ho dovuto ricorrere alla stampa per farmi sentire, sono felice che alla fine la mia richiesta di ascolto sia arrivata, ma mi chiedo: quante grida di aiuto si perdono nelle maglie della burocrazia italiana? Io ho dovuto urlare per vedere riconosciuto quello che è un mio diritto, se non l’avessi fatto sarei ancora invisibile».

Eccola, è questa la domanda.

Buon lunedì.

Nella foto un frame dell’intervista a Fanpage.it

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La pandemia economica non ha bollettini quotidiani, ma in Italia ci sono un milione di poveri in più

La pandemia economica non ha bollettini quotidiani, ma in Italia ci sono un milione di poveri in più

Scusate se insisto ma c’è una pandemia parallela, figlia di quell’altra, che infesta tutto il territorio nazionale ma che non ha bollettini quotidiani a puntellare il dibattito e l’informazione, che non crea allarmi pruriginosi convenienti per vendere la paura e che viene declinata al massimo in qualche singola storia per coprire qualche ospitata.

Qualche giorno fa sono state rese pubbliche le stime preliminari Istat sulla povertà per il 2020 e sono numeri che sanguinano: ci sono 2 milioni di nuclei famigliari in povertà, 5,6 milioni di individui, 1 milione in più di contagiati dall’indigenza rispetto all’anno precedente.

Visto che vanno di moda le percentuali si potrebbe scrivere così: nel 2019 il 7,7 per cento della popolazione era “povero” e ora siamo al 9,4 per cento. Nel Nord Italia ci sono 720 mila nuovi poveri e 184 mila al Sud. A pagare lo scotto sono le famiglie più numerose, quelle con almeno cinque componenti nel nucleo famigliare in cui l’incidenza è aumentata di quattro punti arrivando al 20,7 per cento.

E poiché va di moda parlare, spesso con vanveristiche banalizzazioni, di futuro allora vale la pena ricordare che le più colpite sono persone tra i 35 e i 44 anni, per la metà operai o assimilati, un quinto sono lavoratori in proprio. Sempre a proposito di giovani: i bambini e i minorenni in povertà assoluta sono aumentati in maniera drammatica toccando quota 1,3 milioni, sono 209 mila in più rispetto all’anno precedente.

Questi numeri, anche questo vale la pena ricordarlo, sono limitati dal reddito di cittadinanza e dal Rom (il reddito di emergenza introdotto a maggio), quelle misure che più di qualcuno al governo sta mettendo sotto accusa dimenticandosi però molto spesso di dirci come abbia intenzione di risolvere un problema che sta assumendo proporzioni che avranno bisogno di soluzioni tempestive e urgenti.

Per rimanere sui numeri vale la pena anche sottolineare come la spesa media delle famiglie sia diminuito del 9,1 per cento rispetto al 2019, rimangono stabili solo le spese alimentari e per la casa mentre diluiscono del 19,2 per cento quelle per tutti gli altri beni e servizi. Qui non si tratta solo di riaprire le attività, c’è da mettere in condizione le persone di poter spendere e sopravvivere.

C’è un tema enorme che qualcuno vorrebbe fare passare come priorità della futura ripresa e invece è presente e straziante qui, ora, subito e che ha bisogno della stessa tempestività che si adopera per l’emergenza. La pandemia economica è già qui e miete le sue vittime.

Leggi anche: L’allarme dell’Fmi: “Col Covid bruciati 22mila miliardi di dollari, 90 milioni di persone verso la povertà estrema”

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