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editori

Metti che un giorno l’Italia sia guerrafondaia e filonucleare: giocare d’anticipo, stavolta

Lo scorso ottobre durante una riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che trattava di disarmo e questioni di sicurezza internazionale, 123 nazioni hanno votato a favore della Risoluzione L.41,  mentre 38 (compresa l’Italia) hanno votato contro e ci sono stati 16 Paesi astenuti. La risoluzione votata (la trovate qui) si proponeva di fissare una conferenza programmatica di tutti gli Stati membri per individuare uno “strumento giuridicamente vincolante per vietare le armi nucleari, che porti verso la loro eliminazione totale”.

Il voto contrario dell’Italia (a braccetto con gli USA) scatenò nei mesi scorsi un folto coro di polemiche indignate. Brevi e postume, come al solito. Ovviamente. Fu piuttosto triste assistere anche al malcelato silenzio (o al massimo qualche editorialino sdraiato) da parte di una certa stampa che di quei tempi (era ottobre ma sembra un secolo fa) aveva la preoccupazione di non disturbare il manovratore Renzi.

E non fu un errore o una decisione presa d’improvviso: quel voto è avvenuto dopo una chiara risoluzione del Parlamento Europeo che invitava tutti gli Stati membri Ue a partecipare in modo costruttivo ai negoziati ma nemmeno questo era bastato.

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Mi terrorizza la ferocia di questi, oltre al terrore

Questa mattina, se mi permettete, non scriverò il mio consueto buongiorno. Quindi non mi dedicherò alle notizia di oggi (da Londra alla bagarre sui vitalizi fino alla prossima celebrazione dei trattati europei) ma vi racconto una sensazione.

Nella casella di posta stamattina molto presto mi è arrivato un messaggio, ovviamente da un profilo Facebook che non è riconducibile a nessuna persona reale: la foto del profilo è un soldato ripreso di spalle e il “nome” una semplice sigla “Dem Ken”. Dice, il messaggio, letteralmente:

«cara zecca, prenditela con gli extracomunitari terroristi, volevi anche tu l’europa dell’accoglienza? eccoti servito!»

Mi sono sforzato di immaginare quale strana connessione possa scattare nell’animo di qualcuno per prendersi la briga di scrivere una frase del genere a un insignificante editorialista, quale sia quell’organo così peloso che possa vomitare in una frase del genere gli accadimenti di Londra.

Poi, per immergermi nella meglio nel cassonetto a toccare con mano il percolato della ferocia, mi sono fatto un giro sulle pagine dei fomentatori professionisti (niente nomi, oggi nessuna pubblicità), ancora:

“Ennesimo attentato terroristico islamico a Londra ci conferma che l’Europa è ormai una fabbrica del terrorismo islamico.
Continuiamo ad importare “arricchimento” culturale…i risultati sono questi”

“QUANDO C’ERA IL FASCISMO MIO PADRE DICEVA SEMPRE TUTTI AVEVANO UN LAVORO E NON C’ERA DELIQUENZA!”

“adesso ho capito perche’ la boldrini vuole dare la cittadinanza ha tutti quelli che arrivano nel nostro paese , cosi risultano italiani quando uccidono qualcuno”

“E adesso ?… I buonisti quale caxxata si inventeranno per l’ennesimo attentato facendo passare per un squilibrato un paranoico ecc. senza ragionare un attimino che questi signori perbene attentatori stanno dichiarando guerra ai fessi della UE fallimentare?”

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Il colonialismo digitale e l’ultimo libro dell’ultima libreria

Su Doppiozero si è aperto un dibattito partendo dal libro Contro il colonialismo digitale di Roberto Casati e vale la pena leggere tutti gli interventi e possibilmente allargare il campo della discussione e gli interpreti (trovate tutto qui).

Il punto di partenza è un mondo (e una scuola, una cultura e le loro leggi) che ha a che fare con nativi digitali disabituati alle occasioni di concentrazione e di lettura come per la nostra infanzia. Si parla molto di libri, ebooks e di editoria calante in questi anni ma quasi sempre dalla voce dei produttori (siano scrittori o editori) e sempre troppo poco dei consumatori. L’eccessiva fascinazione del cartaceo o del digitale mi ha sempre destato qualche sospetto (sono del 1977, ho vissuto l’epoca del vinile poi cd poi mp3) ma credo che un cambiamento (che non debba per forza essere un’apocalisse) sia da leggere il prima possibile. Anche in questo siamo un paese che deve riuscire a svecchiarsi senza depauperarsi per forza e che non può accontentarsi delle lavagne elettroniche.

Scrive Dino Baldi:

In una parte significativa del suo pamphlet Casati affronta il tema dell’utilizzo delle nuove tecnologie nell’educazione. Se questa parte fosse tutto il libro applaudirei senza riserve o quasi. La scuola anche su questo fronte attraversa un periodo delicato, di disorientamento, confusione e qualche illusione. Nel libro di Casati, il rifiuto di quella che viene chiamata “innovazione automatica” e del principio, contrario ad ogni buon senso logico e pedagogico, secondo il quale la scuola deve replicare il mondo esterno e assecondare i gusti dei discenti anche sul piano del nuovo digitale, è giusto e ben argomentato. Allo stesso modo la rivendicazione della scuola come ambiente protetto (o per meglio dire “altro”) nel quale il mondo esterno viene interpretato, discusso, messo alla prova per imparare a farci i conti da pari a pari e non a subirlo acriticamente, è io credo il punto focale di qualunque riflessione in proposito, ben oltre i confini di un dibattito sulle tecnologie. Gli interventi legislativi che ad oggi regolamentano il digitale scolastico (per ultimo il decreto Profumo, sulla scia di decreti analoghi degli anni passati) tendono a far passare l’idea che l’innovazione a scuola sia una mera questione di travaso da fuori a dentro. Scarseggiano riflessioni non accademiche sulla didattica, che devono essere di necessità critiche, e quindi sul ruolo degli strumenti nei diversi ambiti, dei formati, dell’ecosistema a tendere; mancano ragionamenti sul valore dell’autorialità e del “progetto” editoriale, rispetto alla sciagurata convinzione che fuori, nella rete, ci sia già tutto quello che serve e basti solo impacchettarlo (e questo al di là della polemica sul libro di testo, che è perlopiù strumentale da qualunque parte venga condotta); mancano infine dibattiti maturi e ampi (non di nicchia) sulle opportunità che il digitale offre anche in questi ambiti, al di là delle sperimentazioni dei privilegiati. Sarebbe, questa, una discussione non inutile e anche piuttosto nuova, se fatta uscire dalla cerchia degli addetti ai lavori, per la quale il libro di Casati pone ottime basi.

La discussione è aperta, eh.

Gli stand e le bancarelle al Salone del Libro.

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Sono al Salone del Libro. Tutti gli anni ci dicono che è morto e che comunque non sta molto bene. Tutti gli anni balza all’occhio la differenza tra gli stand arredati come autogrill puliti prima ancora del primo cliente e le bancarelle un po’ scalcinate, sgarruppate per le unghie di tutto l’amore e la passione che ci sono appese e con i prezzi scritti a penna con il tratto del cartellino sul polso al primo nipote maschio della famiglia.
Ci sono amori di cui ti fidi solo se riescono a rimanere artigianali. Come il cibo con la nonna e le industrie.