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Ritorno a scuola, è caos totale: il governo litiga e ogni regione fa come gli pare…

Ora almeno ci sono anche dei numeri, pochi, pochini e perfino poco chiari. Dopo mesi in cui tutti chiedevano aggiornamenti l’altro ieri l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato il suo rapporto per il periodo dal 31 agosto al 27 dicembre sui contagi a scuola mettendo nero su bianco che si tratta di 3.173 focolai di coronavirus pari al 2% del totale. Si tratta di bambini e ragazzi in età scolare (dai 3 ai 18 anni): la maggior parte dei casi, ben il 40%, si è verificata negli adolescenti dai 14 ai 18 anni. Si potrebbe partire da qui ad aprire un serio dibattito sul futuro, sul presente e sul passato recente delle scuole italiane in tempo di pandemia se non fosse che l’Iss non sa dire nulla sul fatto che il contagio avvenga in classe oppure nei (troppo pochi) trasporti prima e dopo le ore di lezione. Il nodo dei mezzi pubblici rimane un grosso punto interrogativo. Stesso discorso sulla reale efficacia della chiusura delle scuole per frenare la diffusione del Covid: «Tuttavia, l’impatto della chiusura e della riapertura delle scuole sulle dinamiche epidemiche rimane ancora poco chiaro», si legge nel rapporto.

E quindi? E quindi sulla scuola si continua con l’indecente balletto di favorevoli e contrari, di opposte tifoserie che si scontrano per opposte fazioni spesso dimenticando di proporre soluzioni. In mezzo un governo che sulla questione continua a balbettare e appare piuttosto disunito: la ministra alla scuola Lucia Azzolina pretenderebbe un rapidissimo rientro in presenza mentre altri membri del governo, Dario Franceschini in testa, propendono per la linea della cautela a oltranza. La sintesi non c’è. Meglio: la sintesi è una sbiadita mediazione che per ora dal Consiglio dei Ministri dà il via libera in presenza al 50% per le scuole secondarie di secondo grado dal prossimo lunedì 11 gennaio mentre per le scuole primarie e secondarie di primo grado fissa la ripresa dal 7 gennaio in presenza. Peccato che intanto le Regioni vadano ognuna per conto suo con la Liguria che annuncia che non aprirà, la Sardegna che posticipa al 15 gennaio, il Veneto che rimanda al 31 come Calabria, Friuli Venezia Giulia e Marche, tutte in ordine sparso. La sensazione diffusa è che il molto probabile aumento dei contagi nei prossimi giorni cambierà di nuovo le carte in tavola.

«Le Regioni riflettano bene sulle conseguenze per studenti e famiglie», avverte Azzolina ma che il peso della ministra sia debole all’interno dell’esecutivo è molto più di una sensazione.
Poi ci sarebbe anche il pensiero degli studenti, raccolto da un’indagine Ipsos per Save The Children tra ragazzi dai 14 a 18 anni che racconta di come il 42% di loro ritenga ingiusto che agli adulti sia permesso di andare al lavoro mentre loro non possono frequentare la scuola. Il 46% considera quello trascorso finora “un anno sprecato”. Save the Children stima che almeno 34mila studenti delle superiori, a causa delle assenze prolungate, potrebbero trovarsi a rischio di abbandono scolastico. Il 28% degli studenti dichiara che almeno un loro compagno di classe ha smesso di frequentare le lezioni. Ad oggi, più di uno studente su tre (35%) si sente meno preparato di quando andava a scuola in presenza.

Poi si potrebbe parlare dei trasporti che ancora mancano, del tracciamento e dei presidi sanitari e dei tamponi che avrebbero garantito sicurezza e soprattutto di un sistema di ventilazione nelle aule che avrebbe potuto garantire più sicurezza. Ma di visoni strutturate e lunghe sulla scuola non se ne vede l’ombra. Intanto il personale scolastico si arrabatta e resiste, in attesa della prossima decisione poche ore prima di aprire i cancelli.

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Ci avete chiesto sacrifici per 1 anno: ora vaccinate, lavorando giorno e notte. Non ci sono scuse

Hanno chiesto sacrifici a tutti gli italiani e gli italiani, per la stragrande maggioranza, si sono messi a testa bassa a rispettare le regole. Non solo regole di comportamento, come mascherina e distanziamento, ma anche privazioni di libertà personale e enormi danni dal punto di vista lavorativo. Hanno chiesto e continuano a chiedere enormi sacrifici a medici, infermieri e operatori sanitari che hanno lavorato e continuano a lavorare in condizioni vicine allo stremo, con ospedali intasati e con turni massacranti. Il sistema sanitario, depauperato da anni di disattenzione, ha risposto in tutto il Paese.

Hanno chiesto di sottoporsi a sacrifici economici enormi interi settori che non hanno mai riaperto e che non sanno nemmeno ora quando potranno ripartire. Hanno compresso gli studenti e il sistema scolastico.

Sappiamo tutti, ormai l’abbiamo imparato bene, che solo con il vaccino si può presumere un graduale ritorno a una vivibile normalità, ma ora è il momento di dimostrare che anche le Regioni e lo Stato si sacrifichino con tutti i mezzi a disposizione per fare l’unica cosa che c’è da fare. È una questione che riguarda il salvataggio urgente di più vite umane possibili ma è anche una questione di credibilità politica, perfino di opportunità elettorale.

Bisogna vaccinare, vaccinare, vaccinare. Fatelo con le primule, fatelo con le canzoncine, metteteci tutti i loghi che volete, fatelo negli ospedali, nei presidi, nelle caserme, nelle scuole, nei municipi, negli ambulatori, fatelo dappertutto. Ma vaccinate. Vaccinate giorno e notte, richiamate medici, infermieri, usate l’esercito, mostrate i muscoli come quando inseguivate con i droni i corridori solitari nelle spiagge, ma non esiste un motivo al mondo, un solo motivo qualsiasi, per non mettere in campo tutte le forze ordinarie e straordinarie per velocizzare il percorso necessario per dimostrare che non venga sprecato un solo minuto, un solo grammo di energia, un solo sorso di credibilità.

È anche e soprattutto una questione etica: ogni vita umana persa per il ritardo sui vaccini è una responsabilità che non si può permettere un Paese che si voglia definire civile. Fatelo di giorno. Fatelo di notte, fatelo 24 ore al giorno ma per favore no, non venite a parlarci di festività, non venite a parlarci di problemi logistici, non raccontateci di problemi organizzativi.

La credibilità del governo si gioca tutta in queste prossime settimane. Il resto sono solo chiacchiere di palazzo che non hanno nessuna incidenza con quel oche accade qui fuori.

Leggi anche: 1. Vaccini Lombardia, la Lega prende le distanze dalle dichiarazioni di Gallera: “Non rappresentano il pensiero del governo della Regione” / 2. Vaccino, l’elenco completo dei centri di somministrazione in Italia “è ancora in divenire”. Il documento di Arcuri

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Il protagonismo di De Luca, che non aspetta il suo turno, fa male alla campagna sui vaccini 

La comunicazione sui vaccini è una cosa terribilmente seria, da strutturare con cura, da gestire con intelligenza e soprattutto da offrire con elementi solidi, con dati scientifici e con le reali proporzioni dell’importanza a livello nazionale. Se davvero la politica ha intenzione di limare le contestazione dei no vax deve riuscire a farlo porgendo un affilato e comprensibile illuminismo che racconti chiaramente come attraverso il vaccino passi inevitabilmente il rialzarsi dalla pandemia e una qualsiasi ripartenza.

L’inizio della campagna vaccinale in Italia, tra primule progettate e stereotipi emozionali svenduti dappertutto, punta inevitabilmente a costruire un clima di fiducia e di speranza che serva a ricompattare un Paese. Sarà facile? No. Serve intelligenza? Sì. E non è una gran mossa intelligente quella del presidente De Luca che ieri si è autoproclamato testimonial inscenando il proprio vaccino a favore di telecamere e con un gran strombazzo di fotografi e interviste.

Non è questione di essere a favore o contro la figura di De Luca come politico ma è qualcosa di più sottile su cui forse varrebbe la pena riflettere: se è vero che un presidente di Stato come Biden che si sottopone al vaccino incarna il senso di comunità di una nazione, è anche vero che sulla distribuzione dei vaccini si giocherà ancora una volta la credibilità del Paese nel soccorrere prima i più esposti, i più fragili e i più bisognosi.

Qualcuno dice “vacciniamo i dirigenti politici per dare il buon esempio”. Va bene. È una decisione presa? Allora avvenga per tutti. Ma che un politico scalzi tutti gli altri inventandosi regole proprie (come avviene con pessimi risultati dall’inizio della pandemia) per illuminare il proprio regno è qualcosa che ha poco senso e che è poco omogeneo con una comunicazione strutturate.

Badate bene: De Luca è quello che ieri diceva che la comunicazione sui vaccini “è stata anche anche troppo sovraccaricata dal punto di vista mediatico, sembrava lo sbarco in Normandia”. È il tempo della responsabilità? Benissimo, De Luca impari la responsabilità di attendere il proprio turno in una graduatoria di priorità che è il fondamento di una società civile, etica e responsabile.

Avrebbe avuto l’occasione di essere un ottimo testimonial di competenza e serietà standosene per una buona volta in silenzio e in disparte senza cercare un palcoscenico, avrebbe comunicato la generosità e l’altruismo dell’aspettare il proprio turno, avrebbe contribuito alla credibilità di un vaccino che no, non è un pranzo di gala. E invece niente.

Leggi anche: 1. V-Day, il presidente De Luca si è vaccinato a Napoli: è polemica / 2. La prima vaccinata in Puglia a TPI: “Una responsabilità grandissima e l’obiettivo di fermare i no vax” / 3. La prima vaccinata di Codogno a TPI: “Punto di svolta. Spero sia d’esempio a chi nega il virus”

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Cosa non cura il vaccino

Bisogna curare le disuguaglianze sociali, la frattura che si è creata in questa pandemia che ha reso i poveri ancora più poveri, i precari ancora più precari, gli sfruttati ancora più sfruttati. Il vaccino va fatto ma c’è molta altra strada da percorrere

Con una gran fanfara è arrivato il vaccino. Sono solo le prime dosi, quelle che il commissario Arcuri definisce “simboliche”, ma non si può non riconoscere la portata storica del momento. Dopo nemmeno un anno dall’inizio della pandemia la scienza ha trovato il primo argine per combattere il virus. Non sarà facile, non sarà breve: c’è un’enorme mole di organizzazione e di lavoro qui dove troppo spesso l’organizzazione del lavoro è risultata deficitaria, c’è un progetto culturale per iniettare credibilità insieme al vaccino che non può essere sminuito a una semplice battaglia tra favorevoli al vaccino (che quegli altri chiamano “pecore” e “servi”) e contrari al vaccino (che quegli altri chiamano “ignoranti” e “irresponsabili”). Bisogna non cedere all’errore (in cui siamo già incorsi) di credere che sia già tutto risolto, tutto finito: ci vorranno mesi, se tutto andrà bene, per raggiungere l’immunità di gregge necessaria a un presumibile ritorno a una parvente normalità. Ci salva la scienza, ci salvano quelli che per anni hanno messo la testa sui libri e si sono dedicati allo studio, ci salvano le competenze. Segnatevelo.

Il vaccino però non cura le disuguaglianze sociali, quelle no. Non cura la frattura ancora più larga che si è creata in questi mesi di pandemia, in Italia e nel mondo, e che ha reso ancora più poveri i poveri, ancora più precari i precari, ancora più sfruttati gli sfruttati, ancora più abbandonati gli abbandonati, ancora più soli i soli. E nella fetta di nuovi poveri ci sono finite famiglie che fino allo scorso febbraio pensavano di avere davanti una vita almeno tranquilla, un futuro almeno immaginabile e ora non hanno più immaginazione.

Il vaccino non cura il sistema sanitario nazionale, quello che ha ceduto troppe volte sotto i colpi di una cronica carenza di mezzi e di persone e che ha fatto scontare le sue falle mica solo ai malati di Covid ma anche a tutti quei malati che non hanno trovato più lo spazio di cui hanno diritto per essere curati. Il vaccino non cura nemmeno la privatizzazione sfrenata. No, non cura.

Il vaccino non cura le serrande abbassate, le partite iva con l’acqua alla gola, le imprese che non ce la faranno a fingersi salvate e vaccinate.

Il vaccino non cura l’odio sociale, fomentato anche in tempi di pandemia, appuntito dalla paura crescente, quello che si è riversato sui soliti disperati che tornano sempre buoni per essere obiettivi fin troppo facili. La disperazione non si sconfigge portando pacchi a Natale.

Il vaccino non cura la risibilità delle politiche ambientali, la pandemia che non vediamo e che non vogliamo vedere e che costerà (sta già costando) molto più di un Coronavirus e che non si risolve trovando una buona fiala ma che ha bisogno di soluzioni strutturate, di pensieri complessi, di visioni strutturate.

Il vaccino non cura il disagio psicologico che è sceso come una mannaia e che rende più difficile una situazione già difficile. Non cura la disperanza, non cura l’afflizione, non cura gli scogli che non si riescono a superare.

Il vaccino non cura l’impianto economico che arricchisce pochi, sfrutta molti e tutela troppo poco.

Il vaccino non cura dall’avere una classe dirigente spesso imbarazzante, quasi mai all’altezza, troppe volte incapace di leggere la realtà.

Il vaccino non cura dalle macerie che vanno ricostruite, seriamente e in fretta.

Il vaccino va fatto, va distribuito ma c’è molta altra strada da percorrere: discutere della “normalità” a cui si vuole tornare è uno dei momenti più delicati e importanti di tutti questi ultimi anni. La scienza è stata all’altezza, il resto è tutto da vedere.

Buon lunedì.

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Uomini che ammazzano donne

Nei primi dieci mesi del 2020 sono 91 le vittime di femminicidio. Una ogni tre giorni. E le misure restrittive imposte dall’emergenza pandemica hanno aggravato il fenomeno

I numeri emergono dal VII Rapporto Eures sul femminicidio in Italia. Nei primi dieci mesi del 2020 sono 91 le vittime di femminicidio. Qualcuno oggi strumentalmente vi dirà che sono meno delle 99 donne dello scorso anno ma in realtà sono diminuite le vittime femminili della criminalità comune (da 14 a 3 nel periodo gennaio-ottobre 2020) mentre risulta sostanzialmente stabile il numero dei femminici di familiari (da 85 a 81) e, all’interno di questi, il numero dei femminici di di coppia (56 in entrambi i periodi); in aumento (da 0 a 4) anche le donne uccise nel contesto di vicinato. Per dirla facile facile: nel 2020 l’incidenza del contesto familiare è dell’89%, superando l’85,8% dell’anno scorso.

La coppia continua a rappresentare il contesto relazionale più a rischio per le donne, con 1.628 vittime tra le coniugi, partner, amanti o ex partner negli ultimi 20 anni (pari al 66,2% dei femminici di familiari e al 48,7% del totale delle donne uccise) e 56 negli ultimi dieci mesi (pari al 69,1% dei femminici di familiari e a ben il 61,5% del totale delle donne uccise). Gli autori sono “per definizione” nella quasi totalità dei casi uomini (94%), con valori che nel corso dei singoli anni oscillano tra il 90% e il 95%. Le misure restrittive imposte dall’emergenza pandemica hanno fortemente modificato i profili di rischio del fenomeno: osservando i dati relativi ai femminicidi familiari consumati nei primi dieci mesi di quest’anno si rileva come il rapporto di convivenza, già prevalente nel 2019 (presente per il 57,6% delle vittime), raggiunga il 67,5% attestandosi addirittura all’80,8% nel trimestre del dpcm Chiudi Italia. Quando, tra marzo e giugno, ben 21 delle 26 vittime di femminicidio in famiglia convivevano con il proprio assassino.

L’omicidio però è spesso solo l’atto finale di una violenza che si consuma. Il femminicidio all’interno della coppia è spesso soltanto il culmine di una serie di violenze pregresse: violenze psicologiche (20%), violenze fisiche (17,7%), stalking (13,3%) e violenze note a terzi (11,1%). Violenze però denunciate solo nel 4,4% dei casi.

Poi c’è la violenza delle parole, sì anche quella. Nel suo rapporto Barometro dell’odio Amnesty International ha analizzato i commenti sui social. Le donne continuano a essere vittime di una società profondamente maschilista e sessista, nei luoghi pubblici, all’interno delle mura domestiche e anche sul web. Guardando al dibattito in modo ampio, su oltre 42.000 post e tweet analizzati, più di 1 su 10 (il 14%) è offensivo, discriminatorio o hate speech. Di questi il 18% rappresenta un attacco personale a un influencer, uomo o donna, tra quelli osservati; nel caso delle influencer, tale incidenza sale al 22%. Un terzo di questi ultimi commenti è sessista e si concretizza in attacchi contro i diritti di genere, la sessualità, il diritto d’espressione. Comuni gli insulti di carattere “morale” che bollano la donna come immorale o “prostituta”, che la classificano per il modo di vestire o per la sua vita sentimentale. A partire dalla presa di posizione di queste donne contro la discriminazione di genere, a favore del diritto all’aborto, o alla parità tra i sessi o alla libera espressione delle proprie scelte sessuali.

Scrive Amnesty: «In sostanza, si aggredisce la donna che si presenta come autonoma e libera nelle proprie scelte, o perché la stessa si esprime a favore della altre categorie fatte oggetto d’odio, come accade con migranti e musulmani. Una vera e propria catena di montaggio dell’odio, che mette insieme idee, comportamenti, identità, scelte che rappresentano i diritti e le libertà delle persone, per farle oggetto di pubblico ludibrio e di discriminazione violenta».

Buona giornata contro la violenza sulle donne. Con i numeri in mano.

Buon mercoledì.

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Calabria, tutti attaccano Morra: così, però, non si parla più dell’arresto di Tallini

Possiamo tornare al punto, gentilmente? Perché l’arresto di Mimmo Tallini e il quadro indiziario che emerge dall’ordinanza del gip Giulio De Gregorio (che ha accolto la richiesta della Direzione distruttale antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri) disegna un contesto, al di là di quello che dirà l’eventuale processo, su cui varrebbe la pena riflettere. Perché ora sotto la lente dei Ros ci sono anche le comunali di Catanzaro del 2017, le politiche del 2018 e le elezioni regionali del 2020. Nelle carte di legge del Consorzio Farma Italia e della collegata Farmaeko che sono tenute in pugno dalla cosca Grande Aracri di Cutro, nate e subito fallite, come immagine di una regione in cui la malapianta continua a raccogliere frutti.

“Tutto ciò avverrà – scrive il gip De Gregorio – perché l’enorme profittabilità prospettata inizialmente non era riferita a particolari capacità imprenditoriali dei criminali che la dovevano governare, ma allo sfruttamento dei contatti con politica ed economia, all’accesso a risorse finanziarie illecite senza dover corrispondere interessi, alla sostanziale irregolarità delle condizioni di lavoro, ai metodi truffaldini di approvvigionamento”.

C’è un antennista vicino alla cosca come Domenico Scozzafava, legato a Grande Aracri ma anche a Pierino Mellea, il nuovo boss dei Gaglianesi, che votava e faceva votare Domenico Tallini: uno che andava in giro a piazzare bottiglie incendiarie con un pistola con matricola abrasa ed è diventato uomo vicino al presidente del consiglio regionale Tallini. Sono le solite commistioni che raccontano di funzionari in regione che se non eseguono gli ordini del politico di turno vengono rimossi in favore di qualcuno più accondiscendente. L’abbraccio perverso tra economia, politica e ‘ndrangheta è un tema che, al di là degli esiti giudiziari, esce con forza dal punto di vista etico.

Quindi, al di là del caso Morra e della sua infelice uscita, cosa hanno da dire su questo i leader del centrodestra? Oltre alle parole del grillino hanno qualcosa da dirci su un politico già segnalato dalla commissione antimafia diventato così facilmente presidente del consiglio regionale? Salvini che ora lo scarica sa che sono i suoi alleati con cui governa la Calabria? Giorgia Meloni, tutta ordine e disciplina, che ne pensa della fotografia che emerge? Perché tra poco in Calabria si vota e dalle parti del centrodestra qualcuno ha il coraggio di pensare al sindaco di Catanzaro Sergio Abramo come candidato, un uomo vicinissimo proprio a Mimmo Tallini.

Leggi anche: ‘Ndrangheta, arrestato presidente del Consiglio regionale della Calabria, Domenico Tallini

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La Calabria ha bisogno di qualcuno senza scopi di lucro: proprio come Gino Strada

La Calabria ha bisogno di qualcuno senza scopi di lucro: come Gino Strada

Non va proprio giù ai leghisti della Calabria l’ipotesi (che per ora rimane solo un’ipotesi) di Gino Strada commissario straordinario della sanità regionale. Ci mette il carico il presidente ad interim Nino Spirlì, uno che in poche settimane è riuscito nella mirabile impresa di mostrarsi in tutta la sua inadeguatezza, dopo la morte della presidente Jole Santelli, che sul fondatore di Emergency dice: “Gino Strada? Ma cosa c’entra, dobbiamo scavare pozzi? Non abbiamo bisogno di medici missionari africani”. Peccato che Gino Strada non si occupi di pozzi, ma sia un medico chirurgo che è stimato in tutto il mondo, uno che, per dire, ha lavorato nelle università di Stanford e di Pittsburgh e che ha lavorato nel più importante ospedale del Regno Unito (l’Harefield Hospital).

Semplicemente Gino Strada si è innamorato delle vittime della guerra quando ha visto con i suoi occhi quegli orrori e si è dedicato tutta la vita alla cura delle persone senza nessuno scopo di lucro. Che sarebbe, a pensarci bene, proprio quello di cui la Calabria avrebbe bisogno, se ci pensate. Ma su Gino Strada si è espresso anche Domenico Furgiuele che ieri a Montecitorio ha dichiarato: “Nominare un ulteriore commissario rispetto a quello che è stato nominato nel primo governo Conte, con la paventata nomina di Gino Strada, suggerito anche dal movimento delle Sardine, porta soltanto a problemi di ordine pubblico”. Ha parlato proprio di ordine pubblico. Anzi, ha aggiunto: “Volete che scoppino i moti? Accomodatevi, ci saranno i moti della Calabria 2020”.

Domenico Furgiuele è lo stesso deputato di Lamezia Terme indagato dalla Dda di Reggio Calabria per concorso in turbativa d’asta. Domenico Furgiuele e altri imprenditori, infatti, nel maggio 2015, secondo l’accusa, “con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso” e “con mezzi fraudolenti e collusioni, turbavano la gara d’appalto” indetta dal Comune di Polistena per la realizzazione di un eliporto a supporto dell’ospedale”. In particolare il deputato del Carroccio, legale rappresentante della Terina Costruzioni, avrebbe messo “a disposizione” la sua società “per la presentazione di un’offerta concordata con le altre imprese partecipanti al cartello, al fine di condizionare il risultato della gara in loro favore”. L’inchiesta “Waterfront” in cui risulta indagato Furgiuele ha portato all’arresto di 63 persone tra cui 11 funzionari pubblici e al sequestro di beni per 103 milioni di euro.

Ce ne sarebbero mille di motivi per i moti della Calabria 2020. E forse ci tornerebbe utile, un Gino Strada.

Leggi anche: 1. “Se scoppia la Calabria è la fine. Qui il piano Covid mai attivato: realizzate solo 6 terapie intensive”: il racconto di un medico del 118 / 2. Calabria, il Governo non usi Gino Strada per nascondere i suoi vergognosi errori / 3. Esclusivo: Cotticelli a TPI: “Davo fastidio alla massoneria. Volevano eliminarmi, non potendo uccidermi mi hanno screditato” / 4. Calabria, il commissario della Sanità Cotticelli si dimette: “Il piano Covid dovevo farlo io? Non lo sapevo” | VIDEO; / 5. Per gestire la Sanità della Calabria ora si fa il nome di Gino Strada / 6. Calabria, il nuovo commissario alla Sanità Zuccatelli: “Le mascherine non servono a un ca**o”

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Kamala Harris

Trump ha perso. Insieme a Trump perde anche quel sovranismo populista condito di niente che ha attraversato il mondo, quel modo muscolare di fare politica pescando nel torbido per non affrontare i problemi, quella politica che ancora si innamora dell’uomo forte per potersi concedere di non occuparsi dei deboli che sono da sempre i nemici di certa destra. Diritti e dignità, forse, ce lo auguriamo tutti, trovano almeno uno spazio nel dibattito pubblico dopo essere stati oscurati come inutili lamentosi che avrebbero solo potuto rallentare la produttività del Paese.

Dagli Usa arriva anche la storia della prima vicepresidente donna, finalmente, una donna che non è moglie di qualche ex vicepresidente e che ha una storia da portare con fierezza. Kamala Harris è donna, nera, figlia di una biologa indiana e di un economista giamaicano, sposata con un bianco ebreo. Qualcuno dice che potrebbe “oscurare” Biden. Ma magari.

In lei molti elettori e elettrici democratici hanno intravisto il futuro di un Paese che sta diventando sempre più diversificato dal punto di vista razziale, sognando un’America inclusiva, integrata e progressista. Ex procuratore distrettuale di San Francisco, è stata la prima donna nera a essere procuratorice generale della California. Quando è stata eletta senatrice degli Stati Uniti nel 2016, è diventata la seconda donna nera nella storia della Camera. Una donna di legge che contraria alla pena di morte, favorevole ai diritti gay, sostenitrice della sanità pubblica, impegnata nel movimento Black Lives Matter.«Ogni volta che ho corso ero la prima a vincere. La prima persona di colore. La prima donna. La prima donna di colore. Ogni volta», diceva nel 2019.

Nel suo discorso inaugurale ha detto: «Penso alle donne, alle donne nere, asiatiche, bianche, ispaniche, nativo americane, che nel corso della storia di questo paese hanno aperto la strada per questo momento, si sono sacrificate per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia per tutti noi; penso alle donne nere che troppo spesso non sono considerate, ma sono la spina dorsale della nostra democrazia. Penso a tutte le donne che hanno lavorato per garantire il diritto di voto e che ora nel 2020 con una nuova generazione hanno votato e continuano a lottare per farsi ascoltare. Stasera voglio riflettere sulle loro battaglie, la loro determinazione, la loro capacità di vedere cioè che sarà a prescindere da quello che è stato. E questa è una testimonianza della personalità di Joe, che ha avuto il coraggio di buttare giù uno dei muri che continuavano a resistere nel nostro paese scegliendo una donna come vicepresidente. Anche se sono la prima a ricoprire questa carica, non sarò l’ultima. Ogni bambina, ragazza che stasera ci guarda vede che questo è un paese pieno di possibilità. Il nostro paese vi manda un messaggio: sognate con grande ambizione, guidate con cognizione, guardatevi in un modo in cui gli altri potrebbero non vedervi. Noi saremo lì con voi».

È un buon vento, quello di Kamala Harris.

Buon lunedì.

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Fallisce la crociata di Zuccaro contro le Ong (appoggiata da Travaglio e Di Maio): ora il PM andrà a processo?

“Non lasciamo solo Zuccaro” intitolava il Blog Delle Stelle, sì, proprio lui, il magazine politico del Movimento 5 Stelle che si era schierato a testa bassa al fianco del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro nella sua ennesima battaglia contro le Ong. Furono i grillini e furono i salviniani a cadere nel solito giochetto infimo della politica quando si appoggia alla magistratura per annaspare e trovare conferma delle proprie tesi. Il pensiero politico breve e debole ha sempre bisogno di un’indagine, di un rinvio a giudizio, di qualche carta processuale per certificare la propria visione del mondo.

Nel 2017 fu Zuccaro a denunciare il tentativo delle Ong di «destabilizzare l’economia italiana» attraverso il massiccio sbarco di migranti sulle nostre coste al fine di «trarne vantaggi». Zuccaro aveva anche aggiunto che, a suo avviso, «alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti» perché, disse, «so di contatti» e inoltre si tratta di un «traffico che oggi sta fruttando quanto quello della droga». Si alzò un gran polverone e le parole del procuratore vennero agitate come una sciabola per affettare la discussione su diritti e immigrazione, le parole di Zuccaro vennero sventolate ai quattro venti, lui ebbe anche l’onore di essere audito dal Parlamento, i Zuccaro boys infestavano i social tutti fieri di avere scoperto che i “buoni erano cattivi” e quindi, per la proprietà inversa, i presunti “razzisti” sarebbero stati quelli che ci avrebbero salvato. Peccato che di quelle pesantissime affermazioni non rimase niente, non ci fu una controprova, non ci fu niente e tutto finì nel dimenticatoio per un anno, anche se ormai il rumore di fondo era stato generosamente sparpagliato e il governo Conte (il primo Conte, quello che non si era ancora travestito da “buono”) quando salì in carica nel 2018 con la sua formazione gialloverde poté ripetere le tesi di Zuccaro come condimento delle proprie decisioni politiche.

Arriviamo quindi al 2018, marzo, quando Carmelo Zuccaro torna a occuparsi dell’emergenza migranti nel Mediterraneo e lo fa a modo suo: mette sotto indagine il comandante della nave Open Arms, Marc Reig Creus, il capo della missione della Ong, Ana Isabel Montes Mier, e il coordinatore Oscar Camps. L’accusa ovviamente è di associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. La Ong Proactiva Open Arms, secondo il teorema Zuccaro, opera nel disprezzo più totale degli accordi internazionali e del codice di comportamento firmato con il governo italiano, cercando in tutti i modi di far sbarcare migranti sulle nostre coste. Open Arms aveva soccorso 218 migranti al largo delle coste della Libia rifiutandosi di consegnarli alla cosiddetta “Guardia costiera libica” per via delle violenze e dei maltrattamenti che avrebbero potuto subire in quello che tutta la comunità internazionale ritiene un porto “non sicuro”. I migranti vennero poi fatti sbarcare nel porto di Pozzallo, in provincia di Ragusa, dopo l’autorizzazione da parte del governo italiano.

Cosa accadde poi? Il teorema di Zuccaro venne smontato dal Gip di Catania che nel confermare il sequestro aveva fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere tenendo in piedi l’accusa di immigrazione clandestina e di violenza privata. Il fascicolo passa al Gip di Ragusa per competenza territoriale e viene disposto il dissequestro immediato della nave perché, scrive il Gip, l’Ong aveva agito «in uno stato di necessità» regolato dall’articolo 54 del codice penale (in cui si scrive di chi è «costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave»).

Ben due anni dopo quei fatti ora arriva la decisione del Tribunale di Ragusa che ha deciso il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste per il reato di violenza privata e perché non punibile per stato di necessità per il reato di favoreggiamento. L’ha deciso il Gup al termine dell’udienza preliminare. Open Arms, in una sua nota, scrive che «ancora una volta è stato dimostrato che il nostro agire è sempre stato dettato dal rispetto delle Convenzioni internazionali e dal Diritto del Mare, quello che ci muove è la difesa dei diritti umani e della vita, principi fondativi delle nostre Costituzioni democratiche».

E quindi? Quindi per l’ennesima volta molto rumore per nulla. Per l’ennesima volta sulla pelle dei migranti (e degli elettori e della dignità della politica) si è consumata una battaglia che non aveva basi giuridiche eppure ha dato l’occasione di sentenziare giudizi che si sono rivelati infondati. Ancora una volta è andata male a chi cercava un appiglio per poter essere feroce con il supporto della legge fingendo di non sapere che il gancio non c’è, fingendo di non sapere (come accade tutt’ora) che la “Guardia costiera libica” è il viatico di sofferenze che non hanno nulla a che vedere con i diritti e fingendo di non sapere di avere appaltato proprio a loro quel pezzo di Mediterraneo. La polvere si è posata e non è rimasto niente, niente di più del vociare sconsiderato di cui nessuno pagherà pegno.

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Caro Toti, è veramente così difficile dire: “Ho sbagliato”?

Alla fine ha pure fatto la sua intervista d’ordinanza al Corriere della Sera per provare a rettificare e c’è riuscito malissimo, e non c’erano dubbi. Il presidente della Liguria, intervistato sul suo tweet in cui definiva gli anziani “non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese” non ha affatto rimediato alla gaffe, forse perché in fondo la sua idea è proprio quella, quella di un’utilità sociale che sia fermamente ancorata all’utilità di produzione, secondo il feroce schema “nasci, produci, consuma, muori” che fa tanto comodo a una certa politica. Quella politica che vorrebbe appiattire tutta la questione sanitaria al semplice fatturato, come se non esistesse un’emergenza sociale, un’emergenza affettiva, un’emergenza mentale. Niente.

Ridurre tutto all’eugenetica di chi produce e di chi invece non produce è il crinale in cui Toti si è avventurato tralasciando, come al solito, la complessità a favore di una banalizzazione che come tutte le banalizzazioni risulta feroce nella sua semplicità. Poi ci sono le scuse, sempre quelle, sempre allo stesso modo: dice Toti che la colpa è del suo social media manager (che è il nome altisonante per definire spesso coloro che, sottopagati, si occupano di tutta la comunicazione e che alla fine risultano determinanti per costruire il personaggio politico). Gli sfugge che il fatto che sui suoi profili social ci sia la sua faccia, e ciò implica necessariamente che sia sua tutta la responsabilità di quello che esce da quei canali.

Non ce la fanno proprio a dire semplicemente “scusate ho sbagliato, ho fatto una cazzata” e così accade addirittura che la sua responsabile dei social, Jessica Nicolini, si metta a cianciare in un’intervista di “chi non vede l’ora di far licenziare qualcuno in un momento come questo o gode sugli errori degli altri”, come se alla fine anche l’indignazione fosse colpa nostra, scemi noi che ci siamo permessi di farci irretire dal suo orrido messaggio. Ma il punto principale è che questi sono disabituati alla cura, alla cura delle parole, alla cura della memoria, alla cura delle persone nella loro totalità e così appaiono sempre impreparati ogni volta che si ritrovano a doversi occupare delle cose umane, loro così attenti solo agli algoritmi e ai flussi della preferenza elettorale, loro sempre così attenti al gradimento. E Toti si è anche dimenticato di guidare la regione più anziana di uno dei Paesi più anziani del mondo. Pensa a volte il destino.

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