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femminismo

Dal bacio di Biancaneve a «è una vergogna signora mia…»

Era inevitabile ed è accaduto: a furia di moltiplicare iperboli per leccare anche l’ultimo clic indignato sul fondo della scatola perfino Enrico Mentana decide di dire la sua sulla “cancel culture” con due righe veloci, di passaggio, sui social paragonandola niente popò di meno che ai roghi dei libri del nazismo, con annessa foto di in bianco e nero di un rogo dell’epoca perché si sa, l’immagine aumenta a dismisura la potenza algoritmi del post.

Una polemica partita da un giornalino di San Francisco

La settimana delle “irreali realtà su cui pugnacemente dibattere” questa settimana in Italia parte dal bacio di Biancaneve cavalcato (in questo caso sì, con violenza amorale) da certa destra spasmodicamente in cerca di distrazioni e si conclude con gli editoriali intrisi di «è una vergogna, signora mia» di qualche bolso commentatore pagato per rimpiangere sempre il tempo passato. Fa niente che non ci sia mai stata nessuna polemica su quel bacio più o meno consenziente al di là di una riga di un paio di giornaliste su un quotidiano locale di San Francisco: certa intellighenzia Italiana si spreme da giorni sull’opinione di un articolo di un giornalino oltreoceano convinta di avere diagnosticato il male del secolo, con la stesa goffa sproporzione che ci sarebbe se domani un leader di partito dedicasse una conferenza stampa all’opinione di un avventore del vostro bar sotto casa. Un ballo intorno alle ceneri del senso di realtà per cui si son agghindati tutti a festa, soddisfatti di fare la morale a presunti moralisti di una morale distillata dall’eco dopata di una notizia locale.

Se la battaglia “progressista” si ispira a Trump

Chissà se i democraticissimi e presunti progressisti che si sono autoconvocati al fronte di questa battaglia sono consapevoli di avere come angelo ispiratore l’odiatissimo Donald Trump, il migliore in tempi recenti a utilizzare la strategia retorica del politicamente corretto per spostare il baricentro del dibattito dai problemi reali (disuguaglianze, diritti, povertà, discriminazioni) a un presunto problema utilissimo per polarizzare e distrarre. Nel 2015 Donald Trump, intervistato dalla giornalista di Fox Megyn Kelly su suoi insulti misogini via Twitter («You’ve called women you don’t like fat pigs, dogs, slobs and disgusting animals…») rispose secco: «I think the big problem this country has is being politically correct». Che un’arma di distrazione di massa venisse poi adottata dalle destre in Europa era facilmente immaginabile ma che si attaccassero a ruota anche disattenti commentatori e intellettuali (?) convinti di purificare il mondo era un malaugurio che nessuno avrebbe potuto prevedere. Così la convergenza di interessi diversi ha imbastito un fantasma che oggi dobbiamo sorbirci e forse vale la pena darsi la briga di provarne a smontarne pezzo per pezzo.

La banalizzazione delle lotte altrui è un modo per disinnescarle

C’è la politica, abbiamo detto, che utilizza la cancel culture per accusare gli avversari politici di essere ipocriti moralisti concentrati su inutili priorità: se io riesco a intossicare la richiesta di diritti di alcune minoranze con la loro presunta e feroce volontà di instaurare una presunta egemonia culturale posso facilmente trasformare gli afflitti in persecutori, la loro legittima difesa in un tentativo di sopraffazione e mettere sullo stesso piano il fastidio per un messaggio pubblicitario razzista con le pallottole che ammazzano i neri. La banalizzazione e la derisione delle lotte altrui è tutt’oggi il modo migliore per disinnescarle e il bacio di Biancaneve diventa la roncola con cui minimizzare le (giuste) lotte del femminismo come i cioccolatini sono stati utili per irridere i neri che si sono permessi di “esagerare” con il razzismo. Il politicamente corretto è l’arma con cui la destra (segnatevelo, perché sono le destre della Storia e del mondo) irride la rivendicazione di diritti.

Correttori del politicamente corretto a caccia di clic

Poi c’è una certa fetta di artisti e di intellettuali, quelli che hanno sguazzato per una vita nella confortevole bolla dei salottini frequentati solo dai loro “pari”, abituati a un applauso di fondo permanente e a confrontarsi con l’approvazione dei propri simili: hanno lavorato per anni a proiettare un’immagine di se stessi confezionata in atmosfera modificata e ora si ritrovano in un tempo che consente a chiunque di criticarli, confutarli e esprimere la propria disapprovazione. Questi trovano terribilmente volgare dover avere a che fare con il dissenso e rimpiangono i bei tempi andati, quando il loro editore o il loro direttore di rete erano gli unici a cui dover rendere conto. Benvenuti in questo tempo, lorsignori. Poi ci sono i giornalisti, quelli che passano tutto il giorno a leggere certi giornali americani traducendoli male con Google e il cui mestiere è riprendere qualche articolo di spalla per rivenderlo come il nuovo ultimo scandalo planetario: i politicamente correttori del politicamente corretto è un filone che garantisce interazioni e clic come tutti gli argomenti che scatenano tifo e ogni presunta polemica locale diventa una pepita per la pubblicità quotidiana. A questo aggiungeteci che c’è anche la possibilità di dare fiato a qualche trombone in naftalina e capirete che l’occasione è ghiottissima. Infine ci sono gli stolti fieri, quelli che da anni rivendicano il diritto di essere cretini e temono un mondo in cui scrivere una sciocchezza venga additato come sciocchezza. Questi sono banalissimi e sono sempre esistiti: poveri di argomenti e di pensiero utilizzano la provocazione come unico sistema per farsi notare e come bussola vanno semplicemente “contro”. Chiamano la stupidità “libertà” e pretendono addirittura di essere alfieri di un pensiero nuovo. Invece è così banale il disturbatore seriale. Tanti piccoli opportunismi che hanno trovato nobiltà nel finto dibattito della finta cancel culture.

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Per il senatore leghista Ostellari “dare del fr*cio a un gay non è un’offesa”

Alla fine non ce l’ha fatta a trattenersi e il leghista Andrea Ostellari, quello che tiene in ostaggio in commissione giustizia al Senato il ddl Zan, si è fiondato in radio ospite di Cruciani e Parenzo a rivendicare il diritto di dare del ”fr*cio” ai gay, con grandi risate di Cruciani al seguito. “Non è offensiva. Dipende dal contesto”, ha detto Ostellari.

Del resto sul diritto costituzionale di dare del “fr*cio” a qualcuno si sta giocando tutta la lercia propaganda leghista da mesi: una volta ci si vergognava, ora diventa un tratto distintivo. Dice Ostellari che non serve “fare una legge nuova speciale per i gay” perché sono “normali”. E anche su questo punto dimostra tutta l’ignoranza poiché le tutele di legge per gruppi religiosi e etnici considerati più esposti esistono circa da trent’anni.

Anche gli oppositori della legge Mancino (nella sua versione del 1975) rivendicavano il diritto all’insulto e evocavano l’incostituzionalità ma una sentenza della corte costituzionale del 2015 (Cass. Pen. 36906/15) dice chiaramente che la libertà di manifestazione del pensiero cessa quando travalica in istigazione alla discriminazione e alla violenza di tipo razzista.

Ma Ostellari evidentemente è troppo preso dal suo essere “Ostellari” per occuparsi di queste quisquilie costituzionali, troppo preso a darsi di gomito con il prode Cruciani. Poi Ostellari si lancia in una considerazione che probabilmente ritiene geniale: “La legge Zan – dice a Cruciani – non è una legge che viene osteggiata dalla Lega o da Ostellari, omofobi e cattivi, è una legge che viene criticata in primis dal mondo femminista, da Arcilesbica”.

Quindi per Ostellari l’opinione di Marina Terragni (“femminismo” utile alla destra per essere usato come clava) improvvisamente assume il diritto di veto al voto. Peccato che il mondo del femminismo sia molto più ampio: altrimenti potremmo dire a Ostellari che il fatto che Alessandra Mussolini sia d’accordo con la legge significhi che “la destra” appoggi il ddl Zan, con lo stesso metodo.

Ma la soddisfazione è sempre la stessa: dire “fr*cio” in pubblico. Poi se quelle parole diventano spranghe o botte a Ostellari non interessa, lui ha avuto nella sua vita i suoi 5 minuti di fama, come sempre sulla pelle degli altri, come capita a chi ottiene luce dal negare diritti perché non sa inventarsene di nuovi.

Leggi anche: Ddl Zan: una grande opportunità per riscrivere le regole della convivenza sociale

L’articolo proviene da TPI.it qui

Abbiamo un piano contro la violenza sulle donne

ActionAid ha predisposto un piano contro la violenza sulle donne che è un punto programmatico già pronto per la politica chiaro, semplice. Un gioiello.

Azzerare la violenza sulle donne è prima di tutto una battaglia culturale: probabilmente la più importante, capace di trasformare l’intera società. È possibile se la si assume come una priorità di tutti noi, a tutti i livelli, non solo relegata a una politica, a un dipartimento, a un Ministero, ma come sfida e impegno per tutto il Paese, in cui ciascuno di noi, a partire dai gesti più semplici che scandiscono la nostra quotidianità, può fare la differenza. Nessun candidato che ambisce a rappresentarci dovrebbe chiamarsi fuori da questo impegno, nessun partito può esimersi dall’identificare azioni chiave per perseguire questo ambizioso, ma realizzabile obiettivo. Un Ministero per le Pari Opportunità, con potere di spesa e coordinamento di azioni interministeriali è il minimo requisito per un Governo che dichiara di accettare la sfida per una società meno diseguale e meno discriminatoria.
Non può esserci vittoria nella battaglia alla violenza sulle donne senza una strategia ben chiara, definita nelle attività e programmata nel tempo. Per questo, ActionAid chiede l’attuazione del Piano Nazionale Antiviolenza 2017-2020, e che esso sia seguito da Piani successivi negli anni a venire, finanziati e monitorati, per assicurare stabilità in termini di azioni strutturali e finanziamenti. Il Piano attuale dovrebbe ispirare l’azione di istituzioni, cittadini, scuole, media per i prossimi 3 anni. I fondi sono stati annunciati e sono in aumento rispetto a quanto stanziato finora. È importante che il Piano e i finanziamenti procedano di pari passo, il più possibile in maniera integrata nella pianificazione degli interventi e nella loro valutazione. Il Piano dovrà essere conosciuto e al centro dell’azione coordinata tra i Ministeri, in uno sforzo di alto livello di impegno istituzionale.
Quote significative degli ultimi stanziamenti non sono state utilizzate. Inoltre è difficile ricostruire la filiera di spesa di larga parte delle risorse. Questa situazione fa perdere fiducia agli attori e alle attrici che lavorano contro la violenza nella capacità del sistema di usare a pieno le risorse disponibili. Affinché i fondi siano utilizzati efficacemente e le azioni tracciate e valutate, serve che entrambi questi elementi siano costantemente monitorati tramite un sistema che garantisca accesso ai dati amministrativi e finanziari, così come trasparenza e puntualità nella rendicontazione.
ActionAid chiede l’attivazione di nuove e più efficienti forme di assistenza e sostegno alle donne che subiscono violenza e ai/alle loro figli/figlie. A partire dal sostegno ai Servizi territoriali (sociali e di inserimento lavorativo) dei Centri antiviolenza e degli altri attori sociali (imprese, forze dell’ordine, sindacati) che entrano in gioco in queste circostanze, in particolare per facilitare l’empowerment economico delle donne. L’accesso al mondo del lavoro, il sostegno al reddito durante il percorso di uscita dalla violenza, strutture di accoglienza di secondo livello e il rafforzamento dei centri nella loro capacità di interpretare bisogni economici e fornire orientamento alle donne che hanno subito violenza sono azioni prioritarie sulle quali investire con determinazione.
La prima cosa di cui c’è bisogno dopo aver subito una violenza, è protezione. Per questo ActionAid chiede il rafforzamento delle reti che uniscono e mettono in collaborazione tra di loro tutte le istituzioni, le associazioni e gli organismi del privato sociale operanti nel sostegno e nell’aiuto alle donne che subiscono violenza e ai loro figli. Più sinergia, più coordinamento, più efficienza, in poche parole: più protezione.
Le nuove generazioni, i nostri figli, devono imparare fin da subito a relazionarsi in modo inclusivo, rispettoso e non discriminatorio nei confronti degli altri. Spetta alla scuola educare fin da piccoli gli adulti di domani, sensibilizzando e formando gli studenti per prevenire la violenza nei confronti delle donne e la discriminazione di genere. Le scuole e gli attori del privato sociale possono essere incoraggiati nella promozione di percorsi educativi che coinvolgano bambini, adolescenti e ragazzi oltre al personale docente e alle famiglie. Finanziamenti adeguati a tal fine vanno previsti per non far sì che restino azioni isolate o lasciate alla buona volontà delle istituzioni scolastiche.
Rifiutare gli stereotipi e non tollerare sessismo anche nella politica è una condizione imprescindibile per costruire un dibattito pubblico rispettoso, inclusivo, che sia di esempio per il dialogo tra cittadini e cittadine.
Le mutilazioni genitali femminili devono tornare a essere una priorità dell’azione di contrasto alla violenza, in un’ottica di dialogo e di integrazione delle comunità migranti presenti in Italia. Si stima che diverse migliaia di donne e ragazze abbiano subito nei paesi d’origine la mutilazione degli organi genitali. Bambine e giovani donne possono essere a rischio di subire le suddette mutilazioni al loro rientro nei paesi d’origine: un’azione di prevenzione nei luoghi educativi e nei presidi della salute e dell’istruzione italiani è cruciale. Per continuare a combattere questa pratica, chiediamo al futuro Governo italiano di assicurare azioni strutturali e continuative nel tempo per prevenire le mutilazioni femminili, con risorse adeguate e certe, valorizzando in particolare le attività che mirano al coinvolgimento delle comunità provenienti da Paesi dove il fenomeno è ancora diffuso.

Trovate tutto il materiale della campagna qui.

«Ci estingueremo per femminismo»: sulle molestie l’arroccamento patetico degli omuncoli continua

Su Il Giornale di oggi Pier Luigi del Viscovo impugna l’alabarda e corre in soccorso degli uomini che, poveretti, hanno paura di finire nello scandalo delle molestie e temono di dover rispondere a un atteggiamento che, nonostante sia storicizzato, un pezzo di mondo non è più disposto ad accettare. “Senza più molestie ci estingueremo – scrive la fine penna del difensore dei maschietti spaventati -, avances vietate ci estingueremo per femminismo”: del resto a questi non entra proprio in testa a questi piccoli intellettuali da medioevo che il consenso da entrambe le parti sia condizione necessaria della relazione tra uomo e donna, insistendo nel giochetto di chiamare molestie e atteggiamenti indesiderati come “avances” per sminuire la discussione.

Sembrerebbe una difesa fuori tempo massimo su un dibattito che, nonostante campeggi in prima pagina sul Time,  qui da noi qualcuno crede di essere riuscito ad affossare utilizzando Brizzi come sineddoche di tutti gli italici molestatori e fingendo di non sapere che sotto la brace sta covando (per fortuna) una sequela di denunce, episodi, nomi, ulteriori testimonianze su nomi già scritti, che presto diventeranno fiamma.

“In effetti, se lasciamo fare ai moralisti chic – scrive Il Giornale – quelli che la-donna-non-si-tocca-neppure-con-lo-sguardo, finiremo per estinguerci come specie. Mettere alla gogna un uomo perché ci ha provato (di questo si tratta, per parlar semplice), ma proviamo a essere coerenti e conclusivi. A volte l’uomo riesce, a volte meno. Chi più, chi meno”. Fingono di non capire che le decine di storie che sono uscite (e le decine che usciranno, purtroppo per loro) raccontano piuttosto di donne in condizione di inferiorità e bisogno di fronte a uomini di potere che non ricevono “approcci” ma piuttosto si trovano di fronte allo scambio sessuale come ineludibile merce di scambio per accedere a opportunità di lavoro (o, in alcuni casi, semplicemente per mantenerlo, il proprio lavoro) e che proprio in questo abuso di potere e di posizione stia il nodo che è necessario sciogliere: che poi l’abuso del potere di certi piccoli omuncoli passi sempre e per forza dal loro pisellino è la perfetta fotografia del loro spessore, che poi sia quasi sempre l’uomo ad essere il “potente” tra i due è la perfetta fotografia di un’epoca che si fatica a sradicare.

Così ancora una volta l’Italia, il suo giornalismo e i suoi maschietti riescono a segnare la distanza con il resto del mondo per vilipendio di un dibattito che altrove è già diventato cultura sociale. Ma tranquilli, succede sempre così: l’eccesso di difesa è la prima, inconsapevole, reazione dei colpevoli. Sempre.

Buon venerdì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2017/12/08/ci-estingueremo-per-femminismo-sulle-molestie-larroccamento-patetico-degli-omuncoli-continua/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

Gli uomini che spiegano le cose

If I were a boy, Se fossi un ragazzo, si intitola così un recente intervento di Rebecca Solnit pubblicato dal Guardian. La scrittrice, giornalista e attivista americana, scrive che era solita scherzare con la madre sul fatto che fosse un figlio perfetto. Non una figlia: perché da loro, dai maschi, ci si aspettano carriere accademiche e lavorative brillanti, successi pubblici e riconoscimenti. Se si nasce donna, invece, si dovrebbe rispondere a ben altre aspettative. E lei, Rebecca Solnit, continua ammettendo di essere ben più “capace di sistemare un tetto che di rincuorare un’anima”.

“Il successo racchiude un fallimento per le donne: ci si aspetta che il loro successo derivi dal far sentire gli uomini infallibili”, aggiunge l’autrice nell’articolo.

Nata nel 1961 in Connecticut e cresciuta in California, Rebecca Solnit ha spesso riflettuto sul rapporto tra uomini e donne anche sul sito Literary Hub, dove scrive di letteratura e attualità, senza tralasciare interventi legati alla politica americana. Accanto al suo interesse per femminismo e letteratura, la giornalista si occupa anche di antropologia e viaggi, argomenti su cui ha scritto anche alcuni saggi. Tra l’altro, scrive per la rubrica Easy Chair della rivista Harper’s Magazine.

Nel 2008, grazie a un post sul suo blog, pubblicato in seguito a un suo articolo per il Los Angeles Times, Rebecca Solnit ha dato un nome all’atteggiamento di alcuni uomini che sentono la necessità di dover spiegare qualcosa a una donna, nonostante la loro interlocutrice non ne abbia bisogno perché esperta di quel determinato argomento.

La stessa Solnit, in almeno un’occasione, si è trovata a dover ascoltare la spiegazione di un argomento che era stato tema di un suo saggio – e su cui quindi era molto preparata – da parte di un uomo che si sentiva in dovere di esporre le sue conoscenze in materia.

Da questo evento è nata una lunga riflessione che ha portato Rebecca Solnit a scrivere e raccogliere sette brevi saggi sul fenomeno del mansplaning in Gli uomini mi spiegano le cose, ora in libreria anche in Italia edito da Ponte alle Grazie nella traduzione di Sabrina Placidi.

Il sottotitolo è eloquente: riflessioni sulla sopraffazione maschile. Il bisogno di spiegare le cose, a prescindere dalla propria conoscenza, infatti, è definito da Solnit come una sorta di abuso di potere che gli uomini esercitano nei confronti delle donne.

Avallando le conoscenze delle loro interlocutrici, gli uomini che si macchiano di mansplaining ingigantiscono il loro ego minimizzando invece le conoscenze e l’attendibilità delle opinioni delle donne che si trovano di fronte. E così ritorniamo a quel fenomeno un po’ antiquato, ma ancora esistente, non neghiamolo, che Solnit ha descritto per il Guardian. Ossia che, ancora oggi, in alcuni momenti e in alcuni ambiti l’unico vero successo delle donne sia “far sentire gli uomini infallibili”.

Il mansplaining è l’arroganza tipicamente maschile che frena le donne, non solo nella vita privata, ma soprattutto nella carriera professionale, insegnando loro che forse è meglio stare in silenzio, perché nel mondo non c’è ancora spazio per loro.

Per fortuna, di donne disposte a farsi sminuire a favore dell’ego maschile sembra ce ne siano sempre meno.

Ma, come scrive Rebecca Solnit nel saggio che dà il nome alla raccolta: “La battaglia delle donne per essere trattate come esseri umani con un diritto alla vita e alla libertà e a perseguire il coinvolgimento nelle arene della cultura e della politica continua, e talvolta si tratta di una battaglia molto dura”.

(fonte)

Macron, il sessimo e la lezione del The Guardian

Zoe Williams per “The Guardian

Non desidero fare una analisi femminista del matrimonio di Emmanuel Macron, l’ultimo non fascista delle elezioni francesi, ma si sta esagerando con la storia dei 25 anni di differenza e del candidato all’Eliseo che sembra accompagnato dalla madre. Il “Daily Mail” ha scritto una bassezza tipo: «Il mondo non può prendere sul serio un cocco di mamma”, il Times parla di “First cougar all’Eliseo”.

Lei, Brigitte, 64 anni, lui, Emmanuel, 39. Quella che era la sua insegnante di francese è diventata sua moglie. Stanno insieme venti anni e i sentimenti sono autentici, non sono il risultato di una posizione di autorità dell’uno rispetto all’altro. Né del controllo dell’uno sull’altro. Questo gran parlare della loro relazione prova che sessismo e discriminazione su base anagrafica sono vivi e vegeti.

Qui i generi sono ribaltati (spesso è l’uomo ad accompagnarsi a donne più giovani e non scatena troppe chiacchiere) ma la donna, invecchiando, non ha vantaggi, al contrario, diventa la parte più debole. Se si disapprova una simile disparità di età, lo si deve fare per entrambi i sessi. La Macron sta lottando contro l’idea che una donna sia attraente solo se ha intorno ai 18 anni. Il cuore vuole ciò che vuole e di questi tempi dobbiamo combattere i fascisti.

Dovremmo essere tutti femministi

(Terrorizzato dall’idea di essere oggi l’ennesimo uomo che si infila nella retorica dell’8 marzo lascio lo spazio del mio buongiorno alle parole che la scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie pronunciò nel 2013 durante una TED Talk. Molto meglio lei, credetemi.)

 

Dovremmo essere tutti femministi.

Dunque, mi piacerebbe iniziare parlandovi di uno dei miei più grandi amici, Okuloma Mmaduewesi. Okuloma viveva nella mia strada e si prendeva cura di me come un fratello maggiore. Se mi piaceva un ragazzo, chiedevo l’opinione di Okuloma. Okuloma è morto nel tristemente noto incidente aereo di Sosoliso, in Nigeria, nel dicembre del 2005. Esattamente quasi sette anni fa. Okuloma era una persona con cui potevo discutere, ridere e parlare apertamente. È stata anche la prima persona a chiamarmi femminista. Avevo circa quattordici anni, eravamo in casa sua, discutevamo. Entrambi infervorati con informazioni a metà prese dai libri che avevamo letto. Non mi ricordo su cosa vertesse questa discussione in particolare, ma ricordo che mentre continuavo ad argomentare, Okuloma mi guardò e disse: “Sai, tu sei una femminista.” Non era un complimento. Potevo capirlo dal suo tono, lo stesso tono che si usa per dire cose del tipo “Sei una sostenitrice del terrorismo.” Non sapevo esattamente cosa questa parola “femminista” significasse e non volevo che Okuloma capisse che non ne avevo idea. Allora l’ho messa da parte e ho continuato a discutere. E la prima cosa che avevo intenzione di fare, quando sono tornata a casa, era di cercare la parola “femminista” nel dizionario.

Ora, andando velocemente avanti, arriviamo a qualche anno più tardi. Ho scritto un romanzo su un uomo che, tra le altre cose, picchia la moglie e la cui storia non finisce molto bene. Mentre stavo promuovendo il romanzo in Nigeria, un giornalista, un uomo gentile, ben intenzionato, mi ha detto che voleva darmi un consiglio. E, mi rivolgo ai nigeriani qui, sono sicura che abbiamo tutti familiarità con la velocità con cui le persone forniscono consigli non richiesti. Mi disse che la gente riteneva che il mio romanzo fosse femminista e il suo consiglio per me – e stava scuotendo la testa tristemente mentre parlava – era che non mi sarei mai dovuta definire una femminista, perché le femministe sono donne infelici che non riescono a trovare marito. Così ho deciso di definirmi una “femminista felice.” Poi una docente, una donna nigeriana, mi disse che il femminismo non era la nostra cultura, che il femminismo non era l’Africa e che mi definivo una femminista perché ero stata corrotta dai libri “occidentali.” E mi ha divertito, perché un sacco della mie prime letture erano decisamente non-femministe. Penso di aver letto ogni singolo romanzo rosa della Mills & Boon prima ancora di avere sedici anni. E ogni volta che provo a leggere quei libri chiamati “classici femministi”, mi annoio e faccio davvero fatica a finirli. Ma ad ogni modo, dal momento in cui il femminismo era non-africano, ho deciso che mi sarei definita una “felice femminista africana.” Ad un certo punto ero una felice femminista africana che non odiava gli uomini, che amava i lucidalabbra e che indossava i tacchi alti per se stessa, ma non per gli uomini. Naturalmente molte di quelle cose erano ironiche, ma la parola “femminista” ha un bagaglio così pesante, un bagaglio negativo. Odiate gli uomini, odiate i reggiseni, odiate la cultura africana, quel genere di cose.

Ora, eccovi una storia della mia infanzia. Quando ero alle elementari, la mia insegnante disse all’inizio del quadrimestre che avrebbe dato alla classe un test, e chi avrebbe realizzato il punteggio più alto sarebbe diventato capoclasse. Bene, essere capoclasse era una cosa importante. Se diventavi capoclasse, dovevi scrivere i nomi di chi faceva rumore, e già soltanto questo dava un grande potere. Ma la mia insegnante dava anche un bastone da tenere in mano mentre si camminava in giro e si controllava la classe da chi faceva rumore. Ecco, naturalmente non era permesso usare il bastone, ma era una prospettiva entusiasmante per la bambina di nove anni che ero. Volevo così tanto essere capoclasse, e ottenni il punteggio più alto nel test. Poi, con mia sorpresa, la mia insegnante disse che il capoclasse doveva essere un ragazzo. Si era dimenticata di fare prima questa precisazione perché riteneva fosse ovvio. Un ragazzo aveva avuto il secondo punteggio più alto nel test e lui sarebbe diventato capoclasse. La cosa ancora più interessante di questa faccenda è che il ragazzo aveva uno spirito dolce e gentile e non aveva alcun interesse nel pattugliare la classe con un bastone. Mentre io, ero piena di ambizioni per farlo. Ma ero femmina e lui era maschio, e così divenne il capoclasse. E non ho mai dimenticato quell’episodio.

Mi capita spesso di fare l’errore di pensare che se qualcosa che è ovvio per me, lo è altrettanto per chiunque altro. Ora, prendete il mio caro amico Louis , ad esempio. Louis è brillante uomo progressista, e facevamo delle conversazioni in cui mi diceva : “Io non so cosa intendi quando dici che le cose sono diverse o più difficili per le donne. Forse in passato, ma non adesso.” E non capivo come Louis non riuscisse a vedere qualcosa che sembrava così evidente. Poi una sera, a Lagos, Louis ed io siamo usciti fuori con degli amici. E per le persone qui che non hanno familiarità con Lagos, ci sono quei meravigliosi soggetti tipici di Lagos, una manciata di uomini energici che si ritrovano fuori dagli edifici e molto platealmente vi “aiutano” a parcheggiare la vostra auto. Ero rimasta colpita dalla particolare teatralità dell’uomo che ci aveva trovato un posto auto quella sera. E così, mentre ce ne stavamo andando, ho deciso di lasciargli una mancia. Ho aperto la mia borsa, ho messo la mano dentro la mia borsa, tirato fuori i soldi che avevo guadagnato facendo il mio lavoro, e li ho dati all’uomo. E lui, quest’uomo molto riconoscente e molto felice, ha preso i soldi da me, ha guardato Louis e ha detto: ” Grazie, signore! ” Louis mi ha guardato sorpreso e ha chiesto: “Perché mi ringrazia ? Non gli ho dato io i soldi”. Poi ho visto che Louis stava cominciando a rendersi conto. L’uomo credeva che, qualsiasi soldi avessi, in fin dei conti provenissero da Louis, perché Louis è un uomo.

Ora, gli uomini e le donne sono diversi. Abbiamo ormoni diversi, abbiamo diversi organi sessuali, abbiamo diverse abilità biologiche; le donne possono avere bambini, gli uomini non possono. Almeno, non ancora. Gli uomini hanno il testosterone, e sono in genere fisicamente più forti delle donne. Ci sono leggermente più donne che uomini nel mondo. Circa il 52% della popolazione mondiale è di sesso femminile. Ma la maggior parte delle posizioni di potere e prestigio sono occupate da uomini. La Premio Nobel per la Pace, recentemente scomparsa, Wangari Maathai, lo ha descritto in termini semplici e efficaci quando ha detto:

“Più alto si va, meno donne ci sono.”

Nelle recenti elezioni americane abbiamo sentito più volte della legge Lilly Ledbetter. E se andiamo oltre il bel nome allitterativo di questa legge, vedremmo che trattava di un uomo e una donna che fanno lo stesso lavoro, ugualmente qualificato e dove l’uomo viene pagato di più perché è un uomo. Così, in modo letterale, gli uomini governano il mondo. E questo aveva senso migliaia di anni fa. Perché gli esseri umani vivevano allora in un mondo in cui la forza fisica era l’attributo più importante per la sopravvivenza. La persona fisicamente più forte era la più adatta a comandare. E gli uomini in generale sono fisicamente più forti; naturalmente, ci sono molte eccezioni. Ma oggi viviamo in un mondo molto diverso. La persona con più probabilità di comandare non è la persona fisicamente più forte, è la persona più creativa , la persona più intelligente, la persona più innovativa, e non ci sono ormoni per questi attributi. Un uomo ha le stesse probabilità di una donna di essere intelligente, di essere creativo, di essere innovativo. Ci siamo evoluti, ma mi sembra che le nostre idee sul genere non si siano evolute.

Qualche settimana fa sono entrata nella hall di uno dei migliori alberghi nigeriani. Ho pensato di dire il nome dell’hotel, ma probabilmente non dovrei. E un guardiano all’ingresso mi ha fermato e mi ha rivolto delle domande irritanti. Poiché si suppone automaticamente che se una donna nigeriana cammina in un albergo da sola, allora è una prostituta. E, a proposito, perché questi hotel si concentrano sull’apparente offerta, piuttosto che sulla domanda, di prostitute? A Lagos, non posso andare da sola in molti bar rinomati e nei club. Semplicemente non ti lasciano entrare se sei una donna sola. Devi essere accompagnata da un uomo. Ogni volta che entro in un ristorante nigeriano con un uomo, il cameriere saluta l’uomo e ignora me. E qui qualche donna avrà detto: “Sì, anch’io l’ho pensato!” I camerieri sono prodotti di una società che ha insegnato loro che gli uomini sono più importanti rispetto alle donne. E so che i camerieri non intendono fare uno sgarbo, ma una cosa è saperlo razionalmente, e un’altra è sentirlo emotivamente. Ogni volta che mi ignorano, mi sento invisibile. Mi sento turbata. Voglio dire loro che sono tanto umana quanto un maschio, che sono altrettanto meritevole di riconoscimento. Queste sono piccole cose, ma a volte sono le piccole cose che pungono di più.

Non molto tempo fa ho scritto un articolo su cosa significa essere una giovane ragazza a Lagos e un conoscente mi ha detto: “Era così rabbioso.” Certo che era rabbioso. Io sono arrabbiata. Il genere, per come funziona oggi, è una grave ingiustizia. Noi tutti dovremmo essere arrabbiati. La rabbia ha una lunga storia nell’apportare un cambiamento positivo, ma oltre ad essere arrabbiata, io sono anche fiduciosa perché credo profondamente nella capacità degli esseri umani nel rinnovare se stessi per il meglio.

Il genere conta ovunque nel mondo, ma voglio concentrarmi sulla Nigeria e sull’Africa in generale, perché la conosco e perché è dove sta il mio cuore. E vorrei chiedere di cominciare adesso a fare sogni e progetti per un mondo diverso. Un mondo più giusto. Un mondo di uomini più felici e donne più felici, più onesti verso se stessi. Ed è così che bisogna iniziare. Dobbiamo crescere le nostre figlie in modo diverso. Dobbiamo crescere anche i nostri figli in modo diverso. Facciamo un pessimo lavoro con i ragazzi, nel modo in cui noi li alleviamo. Noi soffochiamo l’umanità dei ragazzi. Definiamo la virilità in modo molto limitato. La virilità diventa questa piccola gabbia rigida e noi mettiamo i ragazzi dentro la gabbia. Insegniamo ai ragazzi ad essere spaventati dalla paura. Insegniamo ai ragazzi ad essere spaventati dalla debolezza, dalla vulnerabilità. Noi gli insegniamo a mascherare la loro vera essenza, perché devono essere, come dicono in Nigeria, ” uomini duri!”.

Alle scuole superiori, se un ragazzo e una ragazza, entrambi adolescenti, entrambi con la stessa quantità di soldi, uscissero fuori, ci si aspetta che sia sempre il ragazzo a pagare, per dimostrare la sua virilità. E ancora ci chiediamo perché i ragazzi sono più propensi a rubare i soldi dai loro genitori. Che cosa accadrebbe se sia i ragazzi che le ragazze venissero educati a non collegare la virilità con i soldi? Cosa succederebbe se l’atteggiamento non fosse: “Il ragazzo deve pagare “, ma piuttosto: “Chi ha di più, dovrebbe pagare.” Ora, naturalmente a causa del vantaggio storico, sono quasi sempre gli uomini ad averne di più oggi. Ma se cominciamo a crescere i figli in modo diverso, allora in cinquant’anni, in un centinaio di anni, i ragazzi non sentiranno più la pressione di dover dimostrare questa virilità.

 

(continua su Left)

Il signor M. e il femminismo. Una storia al contrario e un discorso di parità.

(Nel numero di Left che trovate in edicola o in digitale qui c’è un mio racconto per il prossimo 8 marzo. Al di là del fatto che un settimanale italiano che dedica pagine a un racconto è un’ottima notizia per me è stata una bella soddisfazione. Questo che segue ne è l’inizio. Il maglio, come al solito, è nel finale.)

C’era bava sul colletto. La prima sensazione fu quell’umidiccio scivoloso che gli leccava il collo, poi ci fu la bocca bolsa, tutta stracciata, da ricomporre in un morso che fosse almeno civile. Quando aprì gli occhi il Signor M. la prima cosa che fece fu di controllare se fosse stato visto da qualcuno; l’idea di essere stato inconsapevolmente osservato in quel suo sonno gocciolante e piegato in due lo metteva terribilmente a disagio. Pensò anche che, forse, il disagio si potesse vedere.
Poi si disse di smetterla.
Fuori dal finestrino c’era un’alba piuttosto stantia con le luci ancora troppo buie. I campi che passavano in fila con solo qualche curva di una vecchia strada provinciale non suggerivano nessun posto in particolare: avrebbe dovuto arrivare alla stazione di Roma alle otto e undici minuti secondo la tabella ferroviaria e, con un calcolo a spanne, pensò di essere nell’ultima Toscana, forse Umbria.
Due file più avanti la controllora chiacchierava a bassa voce con un’elegante signora. M. ne scorgeva i capelli ramati dal poggiatesta, tenuti insieme da una molletta color avorio. Dalla voce seppur bassa si sarebbe detto che potesse avere una quarantina d’anni. Di certo era presa da qualche preoccupazione.
«Era una decisione che prima o poi si sarebbe dovuta prendere», diceva la controllora, marziale in una divisa che aveva qualcosa di militaresco più che ferroviario.
Dal suo sedile, sporta verso il corridoio centrale in cui sbucavano solo le dita, la signora seduta continuava a ripetere che comunque era importante non arrivare allo scontro, fare tutto con intelligenza e misura. Intelligenza e misura, continuava a ripetere. Anche se ogni volta il tono si faceva più cupo, intenso, infine quasi commosso.
«Certo», le disse la controllora con il tono di chi non vuole disturbare ma comunque farsi sentire, «ma la pazienza ha un limite. Anzi, non è questione di limite. È questione di dignità. Prossima fermata: dignità!» disse in un crescendo che si ruppe dentro una risata chiassosa. Durò qualche minuto, con tutti i rivoli. M. provò un brivido di imbarazzo per quel tono che l’avrebbe svegliato se non fosse stato sveglio.
Dall’altro lato, sulla coppia di sedili oltre al corridoio, una ragazza lo fissava con un libro tenuto sulle gambe solo per posa. A vederla si sarebbe detto che fosse lì dall’inizio del viaggio a vivisezionarne i centimetri di pelle: M. tentò di sostenere lo sguardo, qualche secondo, poi si abbassò. «Cosa guardi» fu il pensiero che fece accompagnandolo con le labbra. Non che non fosse abituato agli sguardi, M., per carità: nel suo lavoro di “selezione del personale” gli capitava di rovistare tutto il giorno in mezzo agli occhi degli altri. Imploranti, arresi, speranzosi, stanchi, liquidi, torvi: la sua carriera era stata tutto uno sfilare di occhi. Ora che l’azienda affrontava la crisi invece si ritrovava a porgere con ferma cortesia la proposta di cassa integrazione, mobilità e tutte quelle altre fregole per camuffare il licenziamento e gli occhi, alla fine, erano diventati tutti spenti. Tutti uguali. I licenziati hanno tutti lo stesso colore addosso, anche in faccia. Pensò. Sbirciò ancora a lato: la cacciatrice era sempre in punta. Per quel poco che riuscì a tenerle lo sguardo si accorse della sua immagine di preda riflessa. Provò imbarazzo. Il caldo gli salì dalla schiena diventando rossore a macchie su per il collo. Pur non vedendosi M. avrebbe potuto disegnarsi il rosso che aveva addosso. Sentiva il fiato di quella che gli evaporava nel naso. Gli venne da allargarsi il colletto del maglione nonostante non fosse stretto. Si sarebbe sbucciato, pur di non essere lì. Ebbe anche l’istinto di sfidare quegli occhi sconci ma quando riguardò la donna se la ritrovò con un’espressione tronfia di chi sapeva che sarebbe tornato. Rinunciò.

(Il racconto prosegue sul numero di Left in edicola. Il sommario è qui. Il numero digitale si può acquistare qui)