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Al Saudita non bastano più le visite in Arabia: adesso Renzi è editorialista di Arab News

Quando Matteo Renzi (senatore eletto e capo politico di un partito al governo, vale la pena ricordarlo per spazzare via i “ma anche” che arrivano subito appena si scrive di lui) è stato pizzicato per la prima volta in Arabia Saudita qualcuno ci disse che era lì semplicemente per “coordinare un’intervista” con il principe bin Salman. Sminuire, sminuire, sminuire era la strategia pensata per alleggerire la questione. Missione evidentemente fallita visto che quella partecipazione ha fatto discutere tutto il Paese ed è riuscita perfino a irretire la vedova di Kashoggi, il giornalista ucciso a cui sarebbe stato utilissimo chiedere cosa ne pensasse del “Nuovo Rinascimento” saudita sventolato da Renzi lutante quell’intervista piuttosto inzerbinata.

Più di qualcuno fece notare che ciò che era moralmente sgradevole e politicamente inopportuno era l’utilizzo da parte del regima saudita di un nostro ex presidente del Consiglio (tutt’ora attivo in politica con ruoli istituzionali) come megafono del proprio governo. Il rischio che quella “consulenza” si trasformasse nell’essere megafono del potere è una materia delicata e su cui lo stesso Renzi, se smettesse i panni dell’assediato da tutti, potrebbe concordare: quanto è opportuno che un politico (attivo) italiano che ha rivestito ruoli di prim’ordine diventi testimonial di un altro governo? Quanto sarebbe facile per i sauditi rivendere nell’opinione pubblica le posizioni di Renzi come posizioni del nostro Paese, scambiando un ruolo professionale per il risultato di un’attività diplomatica istituzionale di cui Renzi invece non è mai stato investito? Questo era e rimane il punto critico fondamentale.

Ci ha spiegato il senatore fiorentino che i suoi impegni professionali non intralciano il suo ruolo politico. Benissimo. Ora Renzi diventa editorialista di Arab News, il quotidiano con sede a Riyad molto vicino al regime, e inizia la sua nuova ennesima carriera (da politico in carica, vale la pena ripeterlo all’infinito) con un pezzo di sfegatato elogio della città di AlUla al centro di un progetto urbanistico della Royal Commission (di cui Renzi fa parte).

C’è dentro il solito Renzi: il paragone con Matera, la bellezza che salverà il mondo e tutta la retorica del futuro. Insomma, è il Nuovo Rinascimento sotto altra forma, l’ennesimo spot per il regime, la sua incisività sociale e la sua attenzione per la cultura. Renzi, in sostanza, di lavoro tiene comizi per un principe saudita ora anche su carta. E il dubbio è che il marchio, senza volerlo, siamo un po’ anche noi. Sicuro che vada tutto bene?

Leggi anche: 1. Conflitto d’interenzi (di Giulio Gambino) / 2. Quel rapporto con il principe d’Arabia Saudita: la crociata di Renzi sui servizi ora diventa sospetta (di Luca Telese) / 3. Se Renzi vivesse in Arabia Saudita (di Selvaggia Lucarelli) 4. 5 domande a cui Matteo Renzi deve rispondere (a un giornalista) / 5. Decapitazioni in piazza, attivisti frustati, civili bombardati: ecco l’Arabia Saudita di Renzi “culla del Rinascimento” / 6. Omicidio Khashoggi, la fidanzata Hatice Cengiz a TPI: “Pensavo che l’Occidente si sarebbe battuto, invece ho trovato reticenza”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Rifugiati, dove è la crisi? L’Italia ultima nell’accoglienza tra i big d’Europa

Sono piccoli dettagli ma torneranno presto a essere argomenti. Mario Draghi ha parlato poco, pochissimo, quasi niente di immigrazione se non in una sua replica al Senato lo scorso 17 febbraio e di sfuggita in qualche suo discorso con la solita retorica di un sovraccarico di rifugiati che pesa sull’Italia, eppure appena si placherà la discussione sulla pandemia la politica nostrana si incaglierà ancora lì, c’è da scommetterci. Matteo Salvini, parlando del suo rinvio a giudizio a Palermo per il caso della nave Open Arms, ha già messo il tema sul tavolo annunciando la sua intenzione di confrontarsi con la ministra Lamorgese per “cambiare registro”.

Draghi per formazione professionale e per forma mentis dovrebbe essere un uomo che ragiona sulla base dei numeri e allora conviene ripassarle le cifre di una crisi che non esiste: in Italia ci sono 3,4 rifugiati ogni 1000 abitanti, in Svezia sono 25 ogni 1000, 134 in Germania e 6 in Francia. Queste sono le proporzioni, tanto per capire di cosa stiamo parlando. I dati sono contenuti in una ricerca pubblicata da Eurostat che si riferisce alle richieste di asilo nei Paesi europei nel 2020 e il risultato piuttosto sorprendente rispetto alla retorica da cui siamo circondati dice che l’Italia, con 26.535 domande, sia addirittura all’ultimo posto nell’accoglienza di migranti tra gli Stati più grandi, perfino dietro alla Grecia che, nonostante abbia una popolazione pari a un sesto dell’Italia (e un Pil pari a un decimo del nostro) ha ricevuto 40.560 domande nell’anno appena passato.

La Germania, ad esempio, che viene indicata spesso in Europa come la nazione che “scarica” i rifugiati sugli altri Paesi mettendoli in difficoltà, è la meta privilegiata dei migranti in Europa avendo ricevuto il 20% delle richieste totali. Seguono Francia e Spagna, rispettivamente con 93.475 e 88.525 rifugiati, mentre il Regno Unito con 31.410 domande si pone alle spalle della Grecia e precede l’Italia. Se teniamo conto delle dimensioni dei Paesi risultano sorprendenti anche i dati di Belgio, Svezia e Olanda che hanno circa 15.000 domande ciascuno, sono 13.640 per l’Austria e 11.540 per la Svizzera. Cipro, con una popolazione totale che non raggiunge i 900 mila abitanti ha ricevuto 7.000 richieste di asilo.

Ma se rapportiamo il numero di richieste al numero di abitanti la situazione diventa ancora più lampante: per l’Italia siamo allo 0,04% rispetto allo 0,14% di Svizzera e Francia, lo 0,15% di Germania, Belgio, Austria e Svezia, lo 0,19% della Spagna, lo 0,37% della Grecia e addirittura lo 0,79% di Cipro. L’Italia insomma è uno dei Paesi europei che nel 2020 ha accolto meno richiedenti asilo. Sono numeri da tenere portata di mano, appuntarsi su un foglio da tenere in tasca, almeno per evitare le intossicazioni di un tema che non riesce mai ad essere discusso senza diventare bieca propaganda. E di sicuro il presidente del Consiglio, che da sempre usa i numeri per costruire la sua visione di mondo, non cadrà nella tentazione di valutare un’emergenza in base al volume degli strilli. Speriamo.

L’articolo Rifugiati, dove è la crisi? L’Italia ultima nell’accoglienza tra i big d’Europa proviene da Il Riformista.

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Cassieri, commessi e altri eroi dimenticati: l’insopportabile classismo nella corsa delle categorie ai vaccini

È tutta una questione di priorità, di scelte, di azioni: la trama di un tempo e della sua politica sta nell’agire svestito dalle parole che gli si mettono intorno per condire le sensazioni. Arriva il virus, arrivano i vaccini e decidere le priorità di chi mettere al sicuro è una cartina di tornasole che non consente troppe interpretazioni.

La Fondazione Gimbe, nella sua ultima rilevazione, racconta che oltre ai soggetti over 80 e a quelli ad elevata fragilità nella categoria “altro” dei vaccinati rientrano 572.692 dosi (il 39,6 per cento della categoria) somministrate a persone over 70 considerabili a rischio per fascia anagrafica e 873.787 (il 60,4 per cento) inoculate a soggetti di cui non è possibile rilevare altre indicazioni di priorità. Le percentuali degli “altri” sono addirittura al 19,5 per cento del totale in Sicilia, al 18,3 per cento in Calabria e al 16,4 per cento in Campania. Lì dentro, in base alle indicazioni regionali, ci sono le cosiddette professioni “a rischio” come insegnanti, magistrati, avvocati e così via.

L’essere umano è furbo in momenti di pace e diventa addirittura feroce in tempi di pandemia, quando c’è da correre per mettersi in salvo prima di tutti e in queste settimane abbiamo assistito alle diverse rivendicazioni (talvolta ridicole) delle diverse categorie professionali che smanacciano per superare la fila. 

Ora facciamo un passo di lato. Negli ultimi giorni solo a Roma sono morti due addetti alla vendita di supermercati: Rudy Reale era direttore di un Todis e prima di lui è mancato Riccardo, commesso di Carrefour. Qualche giorno prima era morta una commessa dell’IperSimply di Brescia.

Solo il 30 marzo, soltanto nella città di Roma, sono stati ufficializzati 20 nuovi contagi tra lavoratori di supermercati. E questi sono i dati ufficiali, quelli che sappiamo: «Faccio parte del Comitato Covid e nell’ultimo periodo mi hanno indicato 15 casi alla Coop di Roma Eur e altri 15 alla Coop di Roma Casilino. C’è omertà sui positivi ma questo non aiuta. E poi è saltato il tracciamento. Chi lavora nei supermercati non si ferma mai, neanche con la zona rossa. Per Pasqua rischiano di essere degli agnelli sacrificali», spiega Francesco Iacovone dei Cobas a Il Messaggero.

Ve li ricordate? Erano tra gli “eroi” della zona rossa (e lo sono ancora) eppure non vengono mai citati come priorità, non esistono nemmeno nella narrazione. Perché in fondo ci dicono che classismo sia una parola superata ma il concetto rimane sempre modernissimo: troppo poco nobili per essere prioritari.

Leggi anche: La pandemia economica non ha bollettini quotidiani, ma in Italia ci sono un milione di poveri in più (di G. Cavalli) // I lavoratori “indispensabili” ai tempi del Coronavirus sono quelli sottopagati e meno considerati (di G. Cavalli) // Sabino Cassese a TPI: “I magistrati chiedono il vaccino, ma gli autisti dei bus non mi pare abbiano mai pensato di sospendere il lavoro” // Vaccini, in Abruzzo il governatore Marsilio fa saltare la fila ai magistrati: “Voi potete vaccinarvi”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Le domande illegittime a un colloquio di lavoro

Ciclicamente qualcuno se ne ricorda e ne scrive ma in fondo sembra non cambiare mai niente. In nome di una certa apprensione (se non disperazione) nel cercare un lavoro spesso ci si ritrova di fronte a domande che violano la sfera personale e che potrebbero essere considerate offensive dal candidato eppure ci sono leggi come il Codice delle pari opportunità o lo Statuto dei lavoratori che da tempo le vieterebbero.

In un’epoca in cui ci si è schiacciati sull’idea che il datore di lavoro sia una sorta di benefattore universale, come se non fosse uno scambio di prestazioni ma addirittura una salvezza, si moltiplicano le domande che i candidati si ritrovano mentre dall’altra parte si apre una vera e propria inchiesta sulla vita privata.

Ci sono le donne, innanzitutto, e quella solita questione di vedere la maternità come un inghippo alla produttività. Sono forti questi capi d’azienda: si lamentano della bassa natalità in Italia (che gli deve garantire sempre nuove generazioni di consumatori) ma vorrebbero che a fare figli siano le dipendenti degli altri, mica le loro. Così la domanda sulla situazione sentimentale di una candidata (che non accetteremmo nemmeno dalla nonna durante la cena di Natale) diventa un episodio ricorrente. A ruota c’è il solito “vuole avere figli?” che qualcuno prova a mimetizzare dietro il più vago “come si vede tra 5 anni?” (temendo la risposta “mamma”): peccato che per l’articolo 27 del decreto legislativo 198 del 2006, il Codice delle pari opportunità fra uomo e donna, «È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale». Il secondo comma dell’articolo spiega che la discriminazione è proibita anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza.

Se ci sono figli si accavallano anche le domande come “Hai la nonna che li gestisce?”, “Ma quanti anni hanno i tuoi figli?”, anche queste illegittime. Chi cerca lavoro si organizza gli impegni famigliari senza il bisogno della consulenza o dei timori del suo capo personale. Grazie no, no grazie.

Anche sapere che lavoro facciano i propri genitori non è interessante ai fini di un colloquio, come dice il decreto 198 del 2006. Poi c’è, importante, l’articolo 8 dello Statuto lavoratori, secondo cui: «È fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore». Lo stesso Statuto dei lavoratori vieta la domanda su un’eventuale iscrizione a un eventuale sindacato, con buona pace di qualche nuovo idolo del liberismo. Un datore di lavoro non può basare le sue decisioni su una persona in base alla sua nazionalità. Chiedere a qualcuno le sue origini viola il decreto legislativo 215 del 2003 “Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica”.

Ci sono regole già chiare (e giuste) scritte per evitare discriminazioni. Ogni tanto capita di rileggerle e accorgersi che il mondo là fuori invece non si è modificato per niente come sperava il legislatore. E allora vale la pena ricordarle.

Buon lunedì.

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Luigi de Magistris: «La Calabria non sarà più la periferia d’Europa»

Luigi de Magistris, a pochi mesi dalla fine del suo doppio mandato come sindaco di Napoli, è pronto a ributtarsi in un’altra sfida politica che appare impossibile: diventare presidente della Calabria così sempre uguale a se stessa e farlo da ex magistrato che proprio lì, in Calabria, ha vissuto i suoi momenti più difficili. Gli abbiamo chiesto sensazioni e prospettive.
De Magistris, perché questa decisione di candidarsi come presidente proprio in Calabria?
È stata una scelta imprevedibile e imprevista. Non era nei programmi. Poi, a dicembre dell’anno scorso, sono arrivate una serie di sollecitazioni da persone che conosco e che mi hanno conosciuto nel corso degli anni, da amici, e hanno cominciato a chiedermi se fossi disponibile. Devo ammettere che all’inizio non ci pensavo molto, poi ho cominciato a rifletterci. La condizione vera è il mio amore per la Calabria: una terra a cui sono legato fin da bambino, in cui ho vissuto dieci anni e in cui per nove anni ho lavorato come pubblico ministero. È una scelta di passione e di amore legata a un progetto politico, all’idea di un laboratorio che possa realizzare la rottura di un sistema e la costruzione di un buon governo credibile attraverso storie e persone con le quali ci stiamo connettendo giorno dopo giorno. La definirei una scelta di profondo amore legato alla Calabria.
Però vista anche la sua vicenda personale, ciò che la Calabria le ha portato in passato, vedendo anche i risultati delle tornate regionali, non le viene il dubbio, come dicono alcuni, che sia una terra irredimibile?
No. È una terra fertile che una certa politica ha voluto desertificare rendendola arida e incoltivabile. Io credo che la Calabria – l’ho visto con i miei occhi e quindi ne sono testimone – sia ricca di storie personali e collettive straordinarie; penso al mondo della cultura, dell’impresa, dell’agricoltura, dell’artigianato. Penso all’impegno forte nel campo dell’ambientalismo e della lotta alle mafie. È una ricchezza che non ha mai trovato, soprattutto a livello regionale, un’adeguata rappresentanza politica.
A proposito di lotta alle mafie, c’è in corso in Calabria un processo storico come Rinascita-Scott e la sensazione è che ci sia intorno un evidente calo di attenzione non solo da parte dei media ma anche da parte dei cittadini. L’antimafia è passata di moda?
Che ci sia un calo di attenzione lo registro soprattutto a livello politico nazionale, il tema non fa parte più di un’agenda prioritaria. Rinascita-Scott è un processo molto importante. Che per tanti anni si sia abbassata l’attenzione, lo dimostra il fatto che uno dei principali imputati di quel processo, l’avvocato Pittelli, fu da me coinvolto in maniera forte nelle due indagini che mi furono sottratte illegittimamente, Poseidone e Why not, e anche all’epoca avevamo ricostruito il suo ruolo di anello di collegamento tra settori della criminalità e settori delle professioni, delle istituzioni, della politica e della magistratura. Ora siamo a 13 anni dopo. Pensate quanto questo personaggio avrà fatto in questi 13 anni. Se 13 anni fa ci fu un potere che ci fermò significa che c’è stato un clima…

L’articolo prosegue su Left del 26 marzo – 1 aprile 2021

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Produci, consuma, crepa: siamo liberi di andare a lavoro e rinchiusi in casa nel tempo libero. È coerente?

L’argomento è terribilmente scivoloso e si gioca su un filo poiché la tossica presenza di no vax e di strillatori che vedono “dittatura sanitaria” dappertutto rende difficile avventurarsi in questa selva però ci provo, perché appiattirsi in nome della paura è uno stato sociale che dovremmo comunque cercare di evitare, perché se per cautela e protezione ci sono limitati i movimenti non si vede perché dovrebbero essere smussate anche le opinioni.

Da un anno abbiamo imparato a nostre spese che il virus che sta condizionando il mondo si combatte modificando i nostri comportamenti, usando dispositivi e cautele e adottando distanze fisiche (perché “distanziamento sociale” era e continua a essere una pessima definizione) che aiutano nella prevenzione del contagio.

Un anno fa abbiamo scelto che la nostra vita sociale e professionale venisse messa in pausa confidando che venissero prese tutte le iniziative utili per predisporre il contrasto: tamponi, tracciamento, trattamento sanitario, potenziamento del trasporto pubblico, rafforzamento della medicina di base, approntamento della campagna vaccinale, messa in sicurezza di scuole e di uffici, controllo serrato dei protocolli negli ambienti di svago e di lavoro.

Alcuni di questi punti sono stati disattesi o affrontati con forze inadeguate. Ma non è questo il punto, ora non si discute delle responsabilità. Un anno dopo ci ritroviamo in una situazione non molto dissimile dal primo lockdown: ospedali in sofferenza, i vaccini mancano, i contagi crescono e le nuove varianti colpiscono nuove fasce di popolazione.

La strategia del governo però appare sempre la stessa: libertà di movimento per quel movimento che serve appena per spostarsi nei luoghi di lavoro e per gli approvvigionamenti che servono per sopravvivere. Le ultime voci parlano di un lockdown “morbido” durante la settimana e di un pugno più duro durante il week-end. Per semplificare: lavorate, consumate e poi, solo poi, proteggetevi. Il modello è “produci, consuma, crepa”.

Decidere cosa chiudere e cosa tenere aperto significa comunque proporre un modello di priorità. Siamo sicuri che queste priorità non possano essere messe in discussione? C’è qualcuno che abbia l’autorità politica di aprire una riflessione sul disegno di Paese in piena pandemia? È possibile contestarne il modello? Davvero vogliamo lasciare tutto lo spazio delle critiche ai populisti destrorsi e ai complottisti? Perché forse ci farebbe bene a tutti pensare alle priorità di un Paese, anche in piena pandemia.

Leggi anche: Prima si lamentavano per la “dittatura sanitaria”. Ma ora che le chiusure le fa Draghi va tutto bene (di G. Cavalli)

L’articolo proviene da TPI.it qui

Fa uccidere l’ex moglie e usa la figlia come alibi: l’orrore del femminicidio di Ilenia Fabbri a Faenza

Contiene tutti i caratteri che ci sono in tanti ex mariti assassini e per questo la storia di Ilenia Fabbri, l’ennesimo femminicidio avvenuto a Faenza lo scorso 6 febbraio, va raccontata. Ieri le forze dell’ordine hanno arrestato Claudio Nanni, 53 anni, ex marito di Ilenia ritenuto mandante dell’omicidio e Perluigi Barbieri, 51 anni, un picchiatore conosciuto lì in zona, un professionista di spedizioni punitive e di vigliaccheria che è già stato condannato per atti di violenza contro un disabile.

Negli atti del gip c’è il solito uomo che ritiene sua moglie, anche se ex, una proprietà privata che non ha nessun diritto di sopravvivere alla fine di un rapporto e che deve essere annientata per espiare la sua colpa di essere libera: Nanni dal 2017 aveva continuato a minacciare e aggredire l’ex moglie, era preoccupato per una causa che lei gli aveva intentato per il lavoro che aveva svolto nella sua officina di famiglia senza mai essere pagata, non versava i 500 euro mensili per la figlia Arianna e aveva deciso che l’omicidio sarebbe stato il modo migliore per risolvere il problema.

“Avido, paranoico del controllo, privo di scrupoli”, scrive di lui il gip Corrado Schiaretti che ha ripercorso le tappe dell’omicidio: il 10 dicembre Nanni è rinchiuso in casa per Covid e contatta Barbieri per fare “tutte le cose che bisogna fare”, il 20 e il 29 dicembre i due si incontrano, si scambiano le chiavi di casa, pianificano il percorso del killer nell’abitazione e probabilmente fanno un sopralluogo.

All’alba del 6 febbraio Claudio Nanni passa a prendere la figlia Arianna, 21 anni, al mattino presto, ha intenzione di usarla come alibi mentre il killer le uccide la madre. Barbieri entra in camera da letto ma Ilenia combatte, scappa per le scale, lui la massacra di botte e infine la sgozza.

In casa però c’è la fidanzata di Arianna che sente il trambusto, chiama Arianna, padre e figlia tornano indietro, Arianna chiama la polizia e urla al padre di accelerare. Nanni a quel punto, scrive il gip, piange in maniera incontrollata, consapevole di ciò che sta accadendo invita la fidanzata della figlia a non uscire dalla stanza e nascondersi.

Quando arrivano davanti alla casa, Nanni non scende dall’auto, non ha bisogno di vedere, sa già tutto. Manda la figlia. Un uomo che ha usato la figlia come alibi e che l’ha delegata a vedere il corpo morto di sua madre. La sua messinscena di una rapina andata male è fallita. Ora è in carcere e ancora una volta noi siamo qui a scrivere di una donna che prima di Natale aveva confidato alla sua avvocatessa di volere fare testamento. Ed è finita proprio come temeva. Perché l’assassino delle donne, qui in Italia, ha quasi sempre le chiavi di casa della sua vittima.

Leggi anche: 1. Violenza sulle donne, le scarpe rosse di Loredana Bertè a Sanremo non bastano più /2. Massacrata dall’ex, Clara si era pagata il funerale da sola: già sapeva di morire e nessuno ha fatto niente /3. Tremavo, ero un corpo vuoto: vi racconto cosa si prova durante uno stupro” | VIDEO TPI 

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Se va a un matrimonio vorrebbe essere la sposa

Invece di rispondere in conferenza stampa sui suoi rapporti con l’Arabia Saudita (come aveva promesso), Matteo Renzi si è inventato l’autointervista. E che fa? Mischia le carte e naturalmente si dimentica di farsi domande importanti

«È così egocentrico che se va a un matrimonio vorrebbe essere la sposa, a un funerale il morto». Rubo le parole che Longanesi dedicò a Malaparte per provare a raccontare come Matteo Renzi abbia pensato di risolvere la questione dei suoi rapporti a pagamento con il principe ereditario Mohammed bin Salman.

Ricapitoliamo. Nel pieno della crisi di governo (da lui provocata) Matteo Renzi conduce un’intervista con il principe saudita in cui magnifica il regime, magnifica il principe (lo chiama più volte “amico mio” e “grande” principe), basta guardarsi il video dell’intervista, parla di un «nuovo Rinascimento» e addirittura ammette di invidiare “il costo della lavoro” dei sauditi. Tutto questo alla modica cifra di 80mila euro (o dollari, Renzi non ricorda esattamente) all’anno.

Quando esce la notizia del suo essere al soldo del principe saudita lui si difende, piuttosto goffamente, dicendo che rientra tutto nella sua normale attività di “conferenziere”: falso. Conferenziere non significa essere pagato per contribuire alla ricostruzione di una credibilità che i sauditi faticano a mantenere: molti grandi gruppi dei media – come New York Times e Cnn – dopo l’omicidio di Khashoggi, editorialista del Washington Post, hanno boicottato la Future Investment Initiative del principe bin Salman. L’ingaggio di Renzi evidentemente è tornato molto utile per coprire un buco che altri non erano disposti a coprire. È legale? Sì, purtroppo, perché in Italia (e solo in pochi altri Paesi) c’è un evidente buco legislativo. È legittimo? Ognuno ha la sua idea.

Poi accade che Renzi, incalzato, affermi letteralmente: «Prendo l’impegno di discutere con tutti i giornalisti in conferenza stampa dei miei incarichi internazionali, delle mie idee sull’Arabia saudita, di tutto; ma lo facciamo la settimana dopo la fine della crisi di governo».

La crisi di governo si è risolta e intanto Biden ha reso pubblico il rapporto dell’intelligence Usa che conferma la diretta responsabilità del principe saudita nell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Una brutta botta per il leader di Italia Viva.

Arriviamo finalmente a questi ultimi giorni, Renzi risponde, bene, e come risponde? Intervistandosi da solo. Badate bene: aveva parlato di «discutere con tutti i giornalisti in conferenza stampa» ma furbescamente si inventa l’autointervista per avere a che fare con l’unica persona di cui è interessato e che stima davvero: se stesso. E che fa? Mischia le carte, come molti dei suoi fan sui social in queste ore, confondendo attività politica e attività professionale personale. Il trucco è quello di equiparare l’attività politica di rappresentanti politici in carica (su cui poi ci sarebbe parecchio da scrivere) con il suo lavorare per la propaganda di regime di un Paese straniero mentre è senatore pagato dai cittadini italiani. Peccato che su questo punto il Renzi giornalista non abbia avuto la prontezza di interrogare il Renzi intervistato. Scrive Renzi che è «giusto e anche necessario» avere rapporti con l’Arabia Saudita, Paese «baluardo contro l’estremismo islamico e uno dei principali alleati dell’Occidente da decenni» confondendo il lavoro diplomatico con l’attività di un privato cittadino. Insomma, il solito Renzi.

Nella sua risposta ovviamente non cita mai il principe (non sia mai, che non si irriti “amico mio”), spende ancora parole d’elogio per la famiglia reale saudita ma si dimentica di farsi la domanda sugli interessi economici dei sauditi in Italia e in Europa. Che distratto. Sarebbe stata una bella domanda. In compenso si fregia di pagare le tasse, come se fosse una cosa straordinaria. Grandioso.

E infine, come sempre, la butta sul vittimismo politico: questo però è sempre un classico. Renzi infine rivendica di essere sempre pronto a parlare di diritti umani ovunque sia necessario: benissimo, ma ci faccia sapere su mandato di chi e se poi emette fattura. Così ci viene più facile.

Buon lunedì.

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Sottosegretari horror: la “cultura” leghista e quella classe politica che ci meritiamo 

C’è una frase di Matteo Salvini che ieri è sfuggita ai più: un giornalista gli chiede, mentre stava presentando i suoi sottosegretari appena nominati, se questo di Draghi sia davvero il “governo dei migliori”, Salvini sorride tutto soddisfatto e dice che sì, che “questi (riferendosi alla squadra di governo leghista nda) sono sicuramente i migliori, ma noi della Lega ne avremmo altri trenta se servono”.

Non ha torto: i nomi che in queste ore vengono derisi per le loro pessime referenze sono davvero considerati l’eccellenza leghista dal segretario e dai loro elettori, sono le facce più presentabili di un Parlamento che è infarcito di ignoranti fieri, complottisti spregiudicati, mentitori seriali, inadeguati senza coscienza, ripetitori ossessivi di slogan vuoti, servitori del proprio leader, gente senza arte né parte che non troverebbe mai uno sbocco professionale.

Perché è vero che fa schifo avere come sottosegretaria alla Cultura una Borgonzoni che fiera ci ha raccontato di avere letto un libro in tre anni, ma è anche vero che Lucia Borgonzoni ha preso 1.01.672 voti alle ultime elezioni regionali in Emilia Romagna con il 43,63% e, volendo ben vedere, è vero che un italiano su due non legge nemmeno un libro all’anno.

È vero che Borgonzoni non sapeva che la sua regione non confinasse con il Trentino ma è anche vero che una buona fetta di italiani non ritiene la cultura (nemmeno quella di base, quella generale) un requisito per un buon politico.

Così com’è vero che fa schifo che la sottosegretaria alla Difesa Stefania Pucciarelli abbia appoggiato l’idea di mettere i migranti nei forni ma è vero che troppi italiani, di cui molti suoi elettori, sono d’accordo con lei e lo scrivono sui propri profili. Ed è vero che fa schifo che un sottosegretario all’Istruzione come Rossano Sasso abbia ingiustamente accusato uno straniero che poi si è rivelato innocente, ma lo stesso atteggiamento lo ritroviamo in autorevoli editoriali di quotidiani nazionali.

Anche l’ignoranza con cui Sasso ha scambiato Topolino per Dante è qualcosa che spesso suscita addirittura “simpatia”, tra molti. E se qualcuno si stupisce che il nuovo sottosegretario dell’Interno Molteni rivendichi i decreti sicurezza del primo governo Conte, beh, la pensano così tutti gli elettori della Lega, e non solo.

Insomma, non stiamo parlando di casi sporadici ma di genuini interpreti del salvinismo concimato in tutti questi anni e questi sono i frutti. A proposito: non “li hanno votati”, con questa legge elettorale li hanno nominati le segreterie di partito.

Leggi anche: 1. Parla il padre di Lucia Borgonzoni: “Deve ricordare che la cultura è il contrario della xenofobia” / 2. Ruspe ai rom, forni per i migranti: la nuova sottosegretaria alla Difesa è la leghista Stefania Pucciarelli / 3. Crede di citare Dante, in realtà è Topolino: la gaffe del neo sottosegretario leghista all’Istruzione

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Tutti esaltano il silenzio di Draghi, ma se il Governo non parla si rischia solo più confusione

Nell’ubriacatura generale per l’arrivo di Draghi, quando qualcuno evidentemente poco abituato ai meccanismi di una democrazia parlamentare voleva convincerci che sarebbe bastato Draghi per risolvere tutti i problemi del Paese, per rilanciare l’economia, per bloccare l’epidemia, per impennare i vaccini, tra le varie inginocchiature che abbiamo avuto la sfortuna di leggere c’era il grido di giubilo per il nuovo “silenzio” che Draghi avrebbe imposto come forma di misura e di contenimento.

“Evviva!”, scrivevano tutti sui social. Tutti contenti che Draghi non usasse i social e nessuno sfiorato dall’idea che una buona comunicazione politica non debba per forza passare dal silenzio rivenduto come riserbo.

E così siamo passati dalle sparate quotidiane di membri del Comitato tecnico scientifico, dalle ramanzine regolari del turbo-commissario Arcuri, dalle puntualizzazioni cicliche di Speranza e dalle veline passate ai giornalisti alla sparizione completa dell’analisi dei dati.

In giro c’è un silenzio da lockdown addirittura rispettato. E qualcuno ci dice che, piuttosto che sentire “troppo”, sia meglio non sentire “niente”. Sarà, non mi convince.

Il fatto che le vaccinazioni in Italia e le consegne in Europa, solo per fare un esempio, siano molto in ritardo rispetto alle ottimistiche previsione di qualche settimana fa è un tema che forse qualcuno dovrebbe affrontare e su cui ci meriteremmo di ascoltare qualche spiegazione, qualche intenzione per invertire la tendenza, almeno qualche reclamo sugli accordi non rispettati.

Che Arcuri, per fare un altro esempio, non ci ammorbi con le sue conferenze stampa tronfie (e spesso che non rispondevano alle domande) non rischiara comunque i dubbi su una campagna di vaccinazione nazionale che meriterebbe qualche parola sullo stato attuale.

Che i numeri quotidiani dei contagi non vengano raccontati e interpretati per definire i possibili scenari futuri rischia di essere un boomerang in mano ai polemici per professione.

E infatti la voce che si leva oggi, quella che svetta per il silenzio tutto intorno, è quella del solito Salvini, che fa l’opposizione al governo di cui fa parte e che comincia con la tiritera della Pasqua che non merita restrizioni, con la solita superficialità che serve a solleticare le pance.

Mi chiedo: siamo sicuri che sia un valore “comunicare poco” quando invece basterebbe “comunicare bene”, essere coordinati, univoci nelle decisioni e nelle interpretazioni?

Siamo passati dal pollaio al deserto: attendiamo con ansia di trovare il senso della misura.

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