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furto

Poi però non vi meravigliate se la gente comune impoverita scende in strada a protestare

Sì, è vero, da anni alcuni gruppi organizzati, che siano criminalità organizzata o estremisti politici e frange violente, sfruttano il disagio sociale per esercitare violenza e per sfruttare il malcontento. Alcuni sono semplicemente criminali che tentano di travestirsi da scontenti e che si infilano nelle manifestazioni degli altri. Le indagini ci diranno cosa è accaduto a Napoli, a Milano, a Lecce, a Trieste, in un’ondata di manifestazioni che ha attraversato tutta l’Italia.

Ed è vetro anche che non erano sicuramente commercianti preoccupati quelli che hanno devastato le vetrine (di altri commercianti) semplicemente per mettere in atto un furto con scasso. Però bisogna stare attenti, molto attenti, a non perdere l’equilibrio nelle situazioni difficili (e sarà sempre più difficile, vedendo i numeri) e cadere nel giochetto di criminalizzare per non analizzare, di bollare per non discutere perché insieme alla violenza di alcuni ci sono anche le manifestazioni pacifiche che stanno spuntando in tutto il Paese.

Manifestazioni che non finiscono sui giornali perché (per fortuna) non si distinguono per ferocia e sfregio delle regole ma che in questi giorni (solo ieri ne sono state fatte nel pomeriggio due a Milano) stanno raccontando tutto il disagio di intere categorie che si ritrovano sull’orlo del baratro.

È un esercizio di equilibrio e di misura delle parole, certo, ma in fondo è il compito primario della politica e del giornalismo quello di raccontare un Paese senza appiattirlo sulla rappresentazione più comoda. Questa seconda ondata di pandemia rischia di mettere fine a molte piccole attività imprenditoriali che non hanno la disponibilità di superare nuove chiusure senza un aiuto veloce e consistente dello Stato.

Anche le statistiche ci dicono che l’Italia, già povera, continua a impoverirsi durante la pandemia e le disuguaglianze si fanno ogni giorno più spiccate. Sarebbe un errore enorme mischiare quel disagio, un disagio vero, fatto di paura mischiata all’indigenza e mischiata alla mancanza di prospettive future, con quello che invece accade a causa di violenti e di rimestatori. Ed è anche una narrazione tossica che aggraverebbe ancora di più la sensazione di “non esistere” di chi non si vede riconosciuto dallo Stato. Se la tutela della salute impone il blocco, la sussistenza diventa un problema politico evidente e urgente, che non si può nascondere sotto il tappeto dei violenti.

Leggi anche: 1. L’Alto Adige non ci sta e sfida Conte: ristoranti, bar e cinema restano aperti / 2. Guerriglia nelle città d’Italia contro le misure anti-Covid: bombe carta a Milano, negozi saccheggiati a Torino / 3. Il negozio di Gucci saccheggiato a Torino: manifestanti rompono la vetrina e rubano i vestiti | VIDEO

L’articolo proviene da TPI.it qui

Dimenticare Assange

Nel processo al fondatore di WikiLeaks si discute anche del ruolo, della libertà e dei doveri dell’informazione. E del diritto della stampa di presidiare le azioni dei governi. Ma se ne parla pochissimo

In fondo è una delle nostre più discutibili e disturbanti debolezze, un atteggiamento che ci trasciniamo da anni e che applichiamo anche alle questione dei diritti come se i diritti potessero seguire le mode, essere qualcosa da stampare su una maglietta e poi dimenticarsene senza che la situazione si sia risolta. Julian Assange, discusso fondatore di WikiLeaks, è sotto processo a Londra, si decide se estradarlo o no negli Usa che gli hanno già promesso una condanna che potrebbe arrivare a 175 anni di carcere e quel processo, che è un processo che discute anche del ruolo, delle libertà e dei doveri dell’informazione è finito per essere raccontato solo da qualche tweet o da qualche ostinato osservatore che insiste nell’informarci.

In questo processo che non sta raccontando quasi nessuno intanto è emerso che non ci fu nessun furto di password di enti governativi americani ma il soldato Chelsea Manning, che aveva accesso a quei documenti, aveva già scaricato tutto il materiale. Non è una cosa da poco: c’è in discussione il ruolo delle fonti, il ruolo del giornalismo investigativo, c’è in gioco il diritto della stampa di presidiare le azioni dei governi. C’è in gioco moltissimo.

Era quello che aveva pensato il governo Obama nel 2013 quando si rese conto che criminalizzare Assange significava in fondo mettere sotto accusa il giornalismo investigativo. Ed è la strada opposta rispetto a quella che ha inforcato Trump quando nel 2018 lo ha accusato di crimine informatico e altri 17 capi di accusa nel maggio del 2019.

Sia chiaro: Assange ha dimostrato prove di crimini di guerra statunitensi in Iraq e Afghanistan, violazioni di diritti che tutto il mondo ha il diritto e il dovere di conoscere. E poi c’è un altro punto sostanziale: se Assange è colpevole quindi sono colpevoli anche tutti i giornali (NY Times incluso) che hanno pubblicato le sue scoperte, no? Come ci si comporta? Perché la sensazione dieci anni dopo è sempre la stessa: che il governo malsopporti di avere curiosi troppo curiosi che rovistano dove non dovrebbero rovistare. Accade sempre così, con tutti i governi ed è proprio l’atteggiamento che certo giornalismo combatte.

Eppure di Assange si parla poco, pochissimo. Quella che prima era una figura iconica oggi è diventata una notizia laterale. Perché noi siamo fatti così: ci innamoriamo di simboli e poi non ci prendiamo nemmeno la briga di controllare almeno che non vengano buttati via e che non vengano calpestati. Qui una volta era tutto foto e magliette di Assange e ora sembra che il suo processo non ci interessi più. Così si logorano i diritti, così si consumano le persone. Accade così.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Sucidi in carcere: 20 volte in più della popolazione libera, ma la politica fa finta di niente…

L’ultimo è di qualche giorno fa: un ragazzo ventiduenne suicida nel carcere di Brescia in una vicenda da chiarire in molti suoi particolari. Il giovane era caduto in un forte stato depressivo dopo avere denunciato le violenze sessuali subite da un imprenditore che gli offriva capi d’abbigliamento in cambio di prestazioni sessuali. La Procura di Brescia proprio in questi giorni stava chiudendo le indagini ma il giovane si è tolto la vita nella sua cella.

Ma i suicidi in carcere continuano a essere una tragedia silenziosa che si ripete con feroce regolarità. Il 2 ottobre scorso si è tolto la vita Carlo Romano, detenuto a Rebibbia da sei mesi: aveva 27 anni e conclamati problemi psichici che l’avevano già spinto a tentare il suicidio e per questo era passato alla sorveglianza a vista che gli era stata revocata proprio il giorno precedente. La Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni sottolinea che si tratta dell’ennesimo caso di una persona «che forse poteva essere curata all’esterno». Lo scorso 28 settembre è toccato a un uomo di origini albanesi che era in attesa di giudizio nel carcere di Bologna, il compagno che condivideva la camera con lui non si sarebbe accorto di nulla. Solo il giorno precedente, il 27 settembre, nel carcere di Castrovillari (CS) un detenuto marocchino ha approfittato del cambio turno della polizia penitenziaria per impiccarsi con un lenzuolo. Nella notte tra il 29 e il 30 agosto si è impiccato nella sua cella, dove si trovava solo, Omar Araschid, di origini marocchine, era recluso nell’area dei “sex offenders” e avrebbe nuovamente guadagnato la libertà nel 2021.

Il 27 agosto nel carcere di Pescara il 63enne Dante Di Silvestre aveva ricevuto da due giorni il diniego di lavorare fuori dal carcere dal magistrato dell’Ufficio di sorveglianza, per lui è stato un colpo durissimo, ha messo da parte gli effetti personali e un biglietto per la moglie e approfittando del regime di semilibertà che gli era stato riconosciuto per il suo comportamento esemplare, nel cortile del carcere ha utilizzato una corda che usava per il lavoro e si è impiccato a una sbarra. Di Silvestre era in carcere dopo la sentenza definitiva a 11 anni, con i benefici di legge aveva già scontato quasi metà della pena e aveva ottenuto la semilibertà. Poi, ancora: a Milano un 42enne algerino era stato fermato per tentato furto, era in una stanza da solo in Questura in attesa di fotosegnalamento. Si è tolto la maglietta, l’ha legata alle grate della finestrella della stanza vuota e l’ha stretta al collo. Quando gli agenti l’hanno trovato era già troppo tardi. Il 20 agosto si è impiccato al carcere Pagliarelli di Palermo Roberto Faraci, 45 anni, entrato in prigione da pochi giorni, anche lui sfruttando il fatto si essere stato lasciato solo.

È una moria di storia e di persone impressionante, che si ripete con cadenza mostruosa. Il 19 agosto un suicidio nel carcere di Lecce, il 17 Giuseppe Randazzo a Caltagirone, il 12 agosto sempre al Pagliarelli di Palermo (dove sono avvenuti ben 3 suicidi nel solo mese di agosto) si è impiccato (il solito drammatico cliché) Emanuele Riggio. Il 30 luglio nel carcere di Fermo si è suicidato un 23enne, di cui dalle cronache non si riesce nemmeno a risalire al nome. Aveva 23 anni anche Giovanni Cirillo che si è ammazzato il 26 luglio a Salerno e ne aveva 24 invece il detenuto che si è ammazzato a Como nello stesso carcere dove un mese prima in un’altra sezione si è tolto la vita, impiccandosi con la corda della tuta da ginnastica, un detenuto tunisino di 33 anni. In quell’occasione erano stati i compagni di cella, di ritorno dopo il periodo trascorso all’aria, a trovare il corpo senza vita. La conta dal 17 gennaio di quest’anno (quando si verificò il primo suicidio nel carcere di Monza) a oggi è incivile: 45 suicidi dall’inizio dell’anno, tutti per impiccamento tranne 4 casi di suicidi per asfissia provocata da gas. A questi numeri si aggiungono 27 casi di morti da accertare, tutt’ora al vaglio degli inquirenti.

Secondo il Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, sarebbero 1100 i tentativi di suicidio ogni anno evitati dagli agenti. Il Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie in carcere, adottato il 21 luglio del 2017, non ha rallentato la catena di suicidi: 52 nel 2017, 67 nel 2018, 53 nel 2019. La frequenza dei suicidi in carcere è di 20 volte superiore alla norma, mentre quella tra gli agenti penitenziari è 3 volte superiore alla norma e risulta anche la più elevata tra tutte le Forze dell’Ordine. Secondo il sito ristretti.it «è facile concludere che i detenuti si uccidono a centinaia (e tentano di uccidersi a migliaia) in primo luogo perché percepiscono di non essere più portatori di alcun diritto: privati della dignità e della decenza, trascorrono la propria pena immersi in un “nulla” senza fine».

Ma la notizia fatica sempre ad arrivare ai giornali e fatica infilarsi nel dibattito pubblico. Rimangono le brevi di cronaca date ogni tanto su qualche sito locale: la politica fa spallucce (se addirittura non invoca ancora meno diritti) e l’opinione pubblica è colpevolmente distratta. «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri – sosteneva Voltaire – poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione»: qui la situazione è sempre nera, nerissima ma i palazzi sembrano non accorgersene.

L’articolo Sucidi in carcere: 20 volte in più della popolazione libera, ma la politica fa finta di niente… proviene da Il Riformista.

Fonte

Sempre lui, il ladro di libri: Dell’Utri rinviato a giudizio per il saccheggio della Biblioteca Girolamini

Ne scrive Simona Maggiorelli per Left:

Dopo la condanna definitiva dell’ex direttore Massimo M. De Caro e dei suoi complici per il saccheggio della Biblioteca Girolamini, il 14 febbraio Marcello Dell’Utri dovrà presentarsi in aula. Secondo l’accusa, l’ex senatore di Forza Italia sapeva da dove provenivano i libri che De Caro gli consegnava e con lui si sarebbe accordato su quali volumi trafugare.L’inchiesta è nata come filone secondario del filone principale, che ha portato in carcere l’ex direttore della Biblioteca di Vico, da cui sono stati rubati migliaia di libri antichi e preziosi. Una parte del bottino è stato nel frattempo ritrovato, ma molti volumi risultano danneggiati, sono state strappate le etichette e tutto ciò che poteva rendere chiara la provenienza dei volumi. Inoltre sono stati distrutti i registri e i cartelli che avrebbero permesso di ricostruire la originaria collocazione dei libri. Dopo l’assalto alla biblioteca operato da chi aveva l’incarico di dirigerla e preservarlapurtroppo l’antica biblioteca napoletana non potrà mai tornare come era. Anche perché all’appello mancano libri preziosi come l’edizione dell’Utopia di Tommaso Moro che fu consegnata a Dell’Utri. Introvabili, fin qui, anche preziose rilegature quattrocentesche. Questo filone dell’inchiesta in cui è coinvolto anche Dell’Utri è partito analizzando le caratteristiche della biblioteca dei Girolamini, di particolare interesse per gli studiosi vichiani, e intercettando alcune conversazioni telefoniche che hanno chiarito la rete di rapporti fra Dell’Utri e De Caro, del quale che l’ex senatore aveva sostenuto la carriera, prima al ministero all’Agricoltura e poi ai Beni culturali, all’epoca in cui era ministro Ornaghi. Dell’Utri, che si trova nel carcere di Rebibbia in attesa che il Tribunale di Sorveglianza valuti la compatibilità del suo stato di salute con il regime carcerario, non è stato ancora interrogato. In passato ha sempre sostenuto di ignorare la provenienza dei volumi ricevuti da De Caro perché non vi erano segni distintivi della biblioteca e a ottobre 2012 presentò agli inquirenti una memoria con l’elenco di tutti i libri antichi avuti dall’ex direttore dei Girolamini consentendo il sequestro in via Senato di volumi antichi. Secondo i pm «non è ipotizzabile che il senatore, esperto collezionista di libri antichi, abbia potuto non avere contezza della provenienza dei preziosi volumi a lui consegnati da De Caro».

L’articolo continua qui. Se invece volete acquistare il nostro libro proprio su Marcello, L’amico degli eroi, vi basta andare qui.

Ludovica, i ladri, il suo computer, e la vita dentro

Non so se i ladri in generale hanno rimorsi di coscienza. Non so se leggono gli appelli. In rete, poi, dove di appelli se ne vedono a migliaia, a cascata. E non so nemmeno se possa essere utile metterlo qui. Certo uscire con un sacco nero riempito un po’ di elettronica è equiparabile al finestrino rotto per un’autoradio quando eravamo ragazzini. E’ che ogni tanto succede che negli oggetti più insignificanti (e comodi da rubare) c’è dentro tutta una vita. E allora diventano scomodi e pesantissimi. Non trascinabili. E allora sarebbe bello che si ritrovassero, che ci fosse una restituzione. Come quei finali banali dei film che finiscono come speravi dall’inizio. Ecco, adesso sarebbe il momento.

L’appello:

Hanno rubato le attrezzature e il computer di Ludo. Hanno rubato la vita di Ludo-Ludovica, 6 anni, una malattia senza speranza diagnosticata da tre. Qualche momento in cui ha corso e giocato come tutti i bambini. Poi quella malattia così rara (il morbo di Tay-Sachs),  per la quale non esistono quasi ricerche (e cure), l’ha immobilizzata e resa cieca. Ludo, unica in Italia con quel morbo degenerativo e invalidante,  è diventata un caso amato e sostenuto:  per lei era stato giocato anche il “Derby del Cuore” a maggio del 2011. Perché Ludo per vivere segue una terapia sperimentale in Israele al costo di circa 20mila euro a seduta, coadiuvata da terapie che permettono di curarla anche al rientro.

I ladri che sono entrati in casa di Ludo il 14 agosto a Torvaianica (attorno alle 12) hanno portato via le apparecchiature che servono a mantenerla in vita. E il computer con le immagini di quando era in  salute. Hanno fatto incetta di banale tecnologia con la speranza di raccattare qualche euro.  Il denaro recuperabile da qualcunque ricettatore non vale la vita di Ludo. Immagini, direte. Ma quelle immagini sono la forza per chi le sta accanto.

L’associazione Salvamamme di cui fa parte Roberta, la mamma di Ludovica,  ha lanciato un appello per riavere ciò che è stato rubato. “Contattateci giorno o notte al numero 335321775″, chiede Maria Grazia Passeri, presidente dell’associazione. “Lasciateci in un luogo sicuro questo preziosissimo computer. Passate voce anche a persone che non leggono i giornali e non hanno la Tv”.