Vai al contenuto

futuro

L’Italia ingiusta e seconda in classifica per disuguaglianza

L’Italia è tra i paesi che registrano le maggiori disuguaglianze nella distribuzione dei redditi, seconda solo al Regno Unito nell’Unione europea e con livelli di disparità superiori alla media dei paesi Ocse. Non solo: nel nostro paese la favola di Cenerentola si avvera con sempre minore frequenza, nel senso che le coppie tendono maggiormente a formarsi tra percettori di reddito dello stesso livello; inoltre, gli estremi si allontanano, ovvero i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E la ricchezza si sposta sempre più nei portafogli della popolazione più anziana, a scapito delle giovani generazioni.

Sono queste le tendenze di fondo per l’Italia, che emergono dallo studio “Gini-Growing inequality impact” commissionato dalla Ue, nell’ambito del VII Programma quadro, a un pool di gruppi di ricerca di diverse università europee: un progetto, finanziato con oltre due milioni di euro e sviluppato per circa tre anni, i cui risultati saranno pubblicati in due volumi entro dicembre.
La disparità nella distribuizione dei redditi è stata misurata con l’indice di Gini: si tratta di un indice di concentrazione il cui valore può variare tra zero e uno. Valori bassi indicano una distribuzione abbastanza omogenea, valori alti una distribuzione più disuguale, con il valore 1 che corrisponderebbe alla concentrazione di tutto il reddito del paese su una sola persona.
Dallo studio emerge che, alla fine della prima decade degli anni Duemila, l’Italia ha un indice di Gini pari a 0,34: ovvero, due individui presi a caso nella popolazione italiana hanno mediamente, tra di loro, una distanza di reddito disponibile pari al 34% del reddito medio nazionale.

Lo scrive qui Il Sole 24 Ore.

L’uguaglianza come primo punto dell’agenda: diritti, lavoro, giovani, anziani, sanità e tutti i cardini della democrazia passano da qui. E poi mi dicono che non c’è bisogno di sinistra.

Schermata 2013-06-24 alle 11.21.09

E non l’oggi

Abbiamo tutti bisogno di inventare un tempo nuovo. Ma siamo capaci soltanto di attraversarlo non chiedendogli niente. Abbiamo bisogno di essere tutti più felici ma chiediamo la felicità con parole che non sono mai diverse da quelle che conosciamo. Abbiamo bisogno di tollerare il dolore, ma non siamo neppure capaci di sopportare noi stessi. Abbiamo trasformato la nostra memoria, la storia, il passato, in un simulacro gelido e immobile. Abbiamo inventato il prima e il dopo, e non il mentre, il passato e il futuro e non l’oggi.

(Roberto Cotroneo, Mettetevi buone scarpe e cominciate a camminare. E buona giornata a tutti)

Scambiare il futuro per presente

twSuccede. Ed è un errore che ogni tanto paghi anche caro. Ieri discutevo nella cucina di un amico (le analisi politiche fatte nelle cucine degli amici mi appassionano molto di più delle liturgie da direttivi, ultimamente) di quanto sia facile credere che gli altri siano noi. Lo so, sembra una banalità detta così, a gli stessi risultati di Ambrosoli (vincente nelle città e sconfitto nelle valli e nelle periferie della Lombardia) dimostra come in fondo siamo caduti (tutti, io compreso, eh) nell’omologazione di credere che siano interessanti le cose che noi troviamo interessanti, che siano bisogni comuni i nostri bisogni personali, che il giusto linguaggio sia il nostro linguaggio. E così accade che ci immaginiamo l’elettore degli elettori (quella strana persona che è la gente) informato in rete, appassionato su twitter e accurato ricevitore di newsletter. Crediamo noi di essere tutti e che il futuro sia già presente e collettivo. Ed ho sbagliato anch’io.

E’ interessante l’analisi su rete e retorica fatta da Valigia Blu:

In definitiva, ci siamo innamorati di una retorica nuovista e dipendente da una presunzione di efficacia nei confronti della tecnologia che ha inficiato le nostre capacità analitiche rispetto al quadro complessivo di ciò che stava sedimentando nel corpo e nella testa dei cittadini. Non l’unico fattore, ma certo uno tra quelli di cui prendere nota per evitare che la prossima volta il risveglio dalle urne sia un incubo di irrilevanza dei media da cui non vediamo la via d’uscita. E che non eravamo stati in grado di anticipare in nessun modo, non certo calcolando la traiettoria di qualunque foglia si fosse mossa su Twitter.

L’articolo completo di Fabio Chiusi è qui.

Una nuova Lombardia #davvero /2

Cominciano ad arrivare le proposte sulla nostra piattaforma Lombardia #davvero mentre continua serrato il lavoro sul programma e l’opera di “spulciamento” della carta d’intenti delle primarie. E’ l’impegno che ci siamo presi di alzare i contenuti senza preoccuparci dei toni; suona “nuovo” ma dovrebbe essere sempre stato così se non fosse che ci siamo persi dietro formigonismi, trofismi, minettismi dimenticanto il fallimento politico dietro il sistema sanitario, nell’architettura delle funzioni di controllo e nella “disponibilità possibile” ai dialoghi con la criminalità organizzata.

Perché Formigoni non se n’è andato come credono in molti ma è tutto teso al mantenimento di un “sistema Lombardia” che ha ancora troppe promesse da mantenere da qui all’Expo 2015 e deformigonizzare la Lombardia non può che non passare da una “ripubblicizzazione” reale della regione. Ed è un lavoro da chirurgo ed artigiano insieme: chirurgico nell’analisi di ciò che è stato destrutturato (e qualche volta verrebbe da dire “distrutto”) dalla sanità alla scuola e i lavori pubblici fino alle pieghe più nascoste come Arpa, Genio Civile e molto altro e artigiano per l’umiltà che richiede nell’analizzare senza la sicumera di certi analisti.

Innanzitutto sarebbe il caso che la Lombardia cambi strada. Lo scrive Simone sulla nostra piattaforma di discussione: la Lombardia ha bisogno di ripensare completamente il modo in cui i suoi cittadini si muovono. Gli spostamenti nelle aree urbane, quelli dalle periferie al centro e quelli da città a città dovranno affrancarsi dal paradigma autocentrico, al quale la politica deve opporre un’alternativa vera, razionale, credibile: la Mobilità Nuova, ispirata ai risultati degli Stati Generali della Bicicletta e della Mobilità NuovaLeggendo il documento (che ha già tutto quello che serve per un metodo che dagli enti locali arriva fino al governo nazionale in un percorso di solidarietà per la mobilità dolce che ci piace molto) non ho potuto non pensare alla Lombardia 2.0 pensata da Legambiente Lombardia (il manifesto lo trovate qui) che abbiamo discusso qualche giorno fa a Milano. Nel capitolo mobilità scrive Legambiente (con tempi dei verbi in un presente imperativo che rende giustizia all’urgenza della sfida):

  • nella Lombardia del futuro ci saranno meno automobili, ma più libertà di movimento per le persone. Circoleranno meno TIR, ma le merci viaggeranno, nella misura in cui è necessario, all’interno di una filiera logistica industrializzata e ottimizzata. Le linee ferroviarie disporranno delle capacità necessarie a far fronte ad un aumento della domanda di traffico merci. I costi della mobilità, inevitabilmente, aumenteranno, ma politiche di trasferimento distribuiranno tale aumento a vantaggio dei modi di trasporto energeticamente più efficienti e ambientalmente performanti. Tutte le città si doteranno di misure di governo e riduzione della congestione da traffico, aumentando la sicurezza di tutti gli utenti della strada, e l’accesso allo spazio urbano da parte degli utilizzatori ciclo-pedonali 
E allora cominciamo a muoverci dalla mobilità, che suona anche meglio, perché, l’ha spiegato il presidente di Legambiente Lombardia alla sua assemblea, non si può avere un’idea di governo senza avere un’idea di Lombardia. E immaginare una Lombardia di autostrade e auto è miope nel migliore dei casi e colluso con tutti gli altri. Un po’ di presbiti ci fanno bene per scrivere il programma. Un programma presbite che veda lontano e da lontano. Si nota la differenza, no?
ps per idee e suggerimenti basta andare qui.

Se oggi le forze politiche si sorprendono di vedere i ragazzi in piazza, significa che non hanno capito la storia degli ultimi vent’anni.

Sospesa e sovrastata dalle oscillazioni delle nuove alleanze politiche internazionali dopo il crollo del muro di Berlino, la classe dirigente che oggi guida il Paese non ha saputo valutare il rischio della gestione globale dell’economia durante gli anni post-ideologici. Non ha capito che avrebbe potuto, dopo Tangentopoli, ricostruire il Paese proteggendo le istituzioni, trasmettendo in modo credibile i nostri valori costituzionali e indirizzando la politica economica verso lidi sicuri. Ha invece compromesso lo stato sociale, non ha saputo evitare la frammentazione del sistema-paese e ha mandato in fibrillazione la tenuta istituzionale, generando gravissimi cortocircuiti normativi, compromettendo l’approccio etico alla dimensione pubblica e diventando facile preda delle governance internazionali, ben consapevoli di poter cogliere nell’immaturità storica del nostro Paese la possibilità di prolungarne la subalternità politico-economica.

Mentre la politica non è stata in grado di difendere i più elementari valori collettivi e i principi minimi di equità sociale, è stato rivisto parallelamente il mercato del lavoro, ristrutturato il sistema previdenziale e compromessa la possibilità dei giovani di fondare su istanze meritocratiche la costruzione del proprio futuro.

Se oggi le forze politiche si sorprendono di vedere i ragazzi in piazza, significa che non hanno capito la storia degli ultimi vent’anni.

D’altronde, se l’avessero davvero compresa, non avrebbero abdicato le linee guida del Paese ad un governo tecnico, intervenuto a mercato saturo e risparmi compromessi, per salvaguardare la tenuta delle stesse valute internazionali che hanno speculato per anni sulle nostre contraddizioni interne.

Nicola De Benedetto su Non Mi Fermo. Da leggere.

Immagina una città di abitanti senza casa

Come un incubo kafkiano in cui la città diventa un enorme lazzaretto e la malattia è la povertà. Ci siamo abituati a leggere le cifre e ci siamo allenati a fare i conti con le statistiche con l’anaffettività dei matematici, ci concediamo di spaventarsi solo davanti a cifre iperboleche e abbiamo perso tutti i gradi intermedi di sdegno e pietà. Un bianco o nero, giusto sbagliato, vero o falso sui dolori che non ammette eccezioni come una sicumera che ha bisogno di essere inumana per esistere.

Così succede che vengano pubblicati i risultati di una ricerca sui “senza dimora” in Italia e i numeri vengano snocciolati con piglio scientifico:

In tutto sono 47648 persone: una città come Mantova per i certificati di mancato “residente della Repubblica”. I dati sono tutti in un articolo di Vladimiro Polchi:

Molti gli italiani. Le persone senza dimora sono per lo più uomini (86,9%), hanno meno di 45 anni (57,9%), nei due terzi dei casi hanno al massimo la licenza media inferiore e il 72,9% dichiara di vivere da solo. Tanti gli italiani, anche se la maggioranza è costituita da stranieri (59,4%): le cittadinanze più diffuse sono la romena (l’11,5%), la marocchina (9,1%) e la tunisina (5,7%). In media, le persone senza dimora dichiarano di trovarsi in tale condizione da 2,5 anni; quasi i due terzi (il 63,9%), prima di diventare senza dimora, viveva nella propria casa, mentre gli altri si suddividono tra chi è passato per l’ospitalità di amici o parenti (15,8%) e chi ha vissuto in istituti, strutture di detenzione o case di cura (13,2%). Solo il 7,5% dichiara di non aver mai avuto una casa.

Dove vivono? Più della metà delle persone senza dimora (il 58,5%) vive nel Nord (il 38,8% nel Nord-ovest e il 19,7% nel Nord-est), poco più di un quinto (il 22,8%) al Centro e solo il 18,8% vive nel Mezzogiorno (8,7% nel Sud e 10,1% nelle isole). Milano e Roma accolgono ben il 71% dei senzatetto. Dopo Roma e Milano, tra i 12 comuni più grandi quello che accoglie più persone senza dimora è Palermo. 

C’è anche chi lavora. Il 28,3% delle persone senza dimora dichiara di lavorare: si tratta in gran parte di lavoro a termine, poco sicuro o saltuario. I lavori sono a bassa qualifica nel settore dei servizi (l’8,6% lavora come facchino, trasportatore, addetto alla raccolta dei rifiuti, giardiniere, lavavetri, lavapiatti), nel settore dell’edilizia (il 4% lavora come manovale o muratore), nel settore produttivo (il 3,4% come bracciante, falegname, fabbro, fornaio) o nel settore delle pulizie (il 3,8%). In media, quelli che hanno un lavoro guadagnano 347 euro mensili. E ancora: tra le persone senza dimora, ben il 61,9% ha perso un lavoro stabile, a seguito di un licenziamento o chiusura dell’azienda. 

Perché si finisce per strada? La perdita di un lavoro risulta tra gli eventi più rilevanti del percorso di emarginazione che conduce alla condizione di senza dimora, insieme alla separazione dal coniuge e alle cattive condizioni di salute. Ben il 61,9% dei senzatetto ha perso un lavoro stabile, il 59,5% si è separato dal coniuge e dai figli e il 16,2% dichiara di stare male.

Dentro i numeri c’è il lavoro così precario da non garantire l’accesso ad un luogo in cui stare, c’è la famiglia (sempre osannata) che si sfalda demolendo la cittadinanza di uno dei due, c’è il Nord che è più disabitato del sud nonostante la retorica delle proprie eccellenze, ci sono le cattive condizioni di salute che lo Stato certifica come non sostenibili: sono gli esodati dal diritto di cittadinanza, i nuovi invisibili.

Tutto questo mentre il rapporto ONU sulla fame nel mondo presentato oggi scrive a chiare lettere:

La crescita è necessaria e importante, ma non sempre sufficiente, o rapida. Da qui la necessità di sistemi di protezione sociale per assicurare che i più vulnerabili non siano lasciati da soli ma possano invece partecipare, contribuire e beneficiare della crescita.  Per i più deboli, coloro che spesso non possono trarre immediato beneficio dalle opportunità offerte dalla crescita economica, sono necessarie misure come il trasferimento di denaro, come i buoni pasto o assicurazioni sanitarie.  Le reti di protezione sociale possa far migliorare la nutrizione dei bambini – un investimento che ripagherà nel futuro con adulti più robusti, più in salute e con migliori livelli d’istruzione.  Con reti di protezione sociale a complemento della crescita economica, fame e malnutrizione possono essere eliminate.

Che poi è il cuore politico.

Caro Marchionne ci sarà un tempo in cui tutti coloro che hanno avallato le sue scelte prenderanno le dovute distanze.

Silvia adesso lotta contro la chiusura dell’Irisbus perchè, a fine anno, dalla Cig dovrà passare alla mobilità in assenza di un progetto industriale. E la mobilità dura solo due anni. Con gli altri colleghi operai ha preso contatti con la BredaMenariniBus, l’unica fabbrica italiana di autobus urbani (l’Irisbus, una volta Iveco, produceva pullman), per tentare una vertenza collettiva. Sono convinti che il piano di sviluppo per l’Italia passi anche per la ristrutturazione ed il miglioramento del trasporto pubblico. Silvia è splendidamente raccontata da Marika Borrelli. E ha deciso di scrivere a Marchionne:

Caro Sergio Marchionne,

anche se con molto ritardo, ritengo sia giunto il momento di rispondere alla sua lettera, inviatami il 9 luglio 2010. Vorrei tanto poterla incontrare perché ho delle domande da porle e, soprattutto, vorrei cercare di capire dov’è finito l’uomo che ci disse: «Scrivere una lettera è una cosa che si fa raramente e solo con le persone alle quali si tiene veramente. Vi scrivo prima di tutto come persona, prendete questa lettera come un modo più diretto e più umano che conosco».

So che non è sua abitudine interloquire con chi ha di fronte, che non ama il confronto né il conflitto; mentre io penso che alla base di ogni rapporto ci sia prima il confronto e, se necessario, anche un sano conflitto per poter raggiungere degli obiettivi.
DA 30 ANNI IN FABBRICA. Io in fabbrica ci sto da 30 anni, ho svolto tantissimi lavori e ho contribuito, senza presunzione, ai profitti dell’azienda. Ecco perché mi sembra irrispettoso da parte sua togliermi il lavoro che ho svolto sempre con il massimo impegno e continuità, nonostante i tanti disagi.
Se era vero che teneva a noi, perché ha cambiato idea? Un uomo, quando fa delle scelte così difficili, deve avere il coraggio di guardare negli occhi coloro che ne pagheranno le conseguenze, altrimenti è solo un codardo.
Come mamma, anche io ho dovuto guardare negli occhi i miei figli per dire loro che le cose sono cambiate e che bisogna essere pronti a fare enormi sacrifici. Ma anche che dobbiamo resistere e rimanere insieme, perché restare uniti nei momenti di difficoltà è la sola cosa che aiuta.
OPERAI SENZA ALTERNATIVA. Lei non ha voluto fare questo sforzo. Non ha atteso che passasse la bufera. Ha gettato la spugna cercando di mettersi al sicuro. Troppo semplice così: i veri eroi sono quelli che resistono soprattutto nei momenti di difficoltà. Ma lei l’alternativa l’aveva, noi no.
«Vi scrivo da uomo», continuava la sua lettera, «che ha creduto e crede ancora fortemente che abbiamo la possibilità di costruire insieme, in Italia, qualcosa di grande, di migliore e di duraturo. Perché la cosa peggiore di un sistema industriale, quando non è in grado di competere, è che alla fine sono i lavoratori a pagarne direttamente e senza colpa, le conseguenze». Perché ha dimenticato tutto questo? E il fatto che nelle fabbriche c’erano uomini e donne, ognuno con una propria storia e con una famiglia e dei figli da mantenere?
Senza rancore, le chiedo di avere l’umiltà di ammettere che ha fallito. Il suo piano di Fabbrica Italia ha seminato un numero indefinito di disoccupati; 50enni senza pensione e giovani senza futuro.
LO SPETTRO DEGLI SPECULATORI. L’Italia, Paese che lei dice di amare, resterà probabilmente senza la Fiat e, se il governo non interviene, rischiamo di finire in mano agli speculatori che vorranno appropriarsi solo dei nostri marchi.
Se l’obiettivo era quello di abbassare il costo del lavoro, forse l’ha ottenuto. Noi saremo, in futuro, il Paese in cui sarà più utile investire. Una volta affamati non saremo più liberi di poter scegliere e se avremo un lavoro sarà senza diritti e a basso salario.
Eppure lei scriveva: «Non abbiamo intenzione di toccare nessuno dei vostri diritti, non stiamo violando alcuna legge. Quello che stiamo facendo è tutelare il lavoro, proprio quel lavoro su cui è fondata la Repubblica italiana. Non c’è nessuna contrapposizione tra azienda e lavoratori, sappiamo bene che la forza di un’organizzazione arriva dalle persone che ci lavorano e lo avete dimostrato nel 2004 salvando la Fiat dall’orlo del fallimento». E continuava: «Quello di cui c’è bisogno è un grande sforzo collettivo, una specie di patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici. È il momento di guardare al bene comune e di lasciare da parte gli interessi particolari. Sono convinto che anche voi, come me, vogliate per i nostri figli e per i nostri nipoti un futuro diverso e migliore».
LA CHIUSURA DELLO STABILIMENTO. Noi quei sacrifici li stavamo facendo, avendo accettato la sfida. Lei invece ha inevaso tutte le promesse, chiudendo il nostro stabilimento. Sottolineo nostro perché ritengo che la Fiat, proprio per i motivi da lei citati, sia anche nostra.
Le parole scritte nella sua lettera hanno un acre sapore di postumo. Resta l’amarezza di non avere avuto il diritto di replica.
Ma anche per lei non si prospettano momenti sereni. Ci sarà un tempo in cui tutti coloro che hanno avallato le sue scelte e l’hanno osannata in parlamento nel febbraio del 2011, prenderanno le dovute distanze. La storia ci insegna che questa, in Italia, è una pratica molto diffusa.

Silvia Curcio operaia Irisbus

Lunedì, 03 Settembre 2012 

Anch’io, come Roberta e come tanti altri ragazzi della mia età, ho un sogno da proteggere. E, come loro, mi sento soffocare.

Dopo la lettera di Roberta mi scrive anche Francesco. Le sensazioni se sono collettive diventano un disagio sociale, eppure di fondo rimane la speranza. La bellezza della speranza. Ecco la sua lettera. E la risposta.

Caro Giulio,

Sono un ragazzo di quasi ventidue anni. Proprio come Roberta, la ragazza della lettera che hai postato sul tuo sito.

Anch’io, come Roberta e come tanti altri ragazzi della mia età, ho un sogno da proteggere. E, come loro, mi sento soffocare.

Mi sento soffocare perché non abbiamo punti di riferimento.

Mi sento soffocare perché viviamo la precarietà sotto ogni punto di vista.

Mi sento soffocare perché la nube di cattiveria che siamo costretti ad attraversare è troppo densa.

Mi sento soffocare perché non c’è nessuno in grado di ascoltarci e di farci innamorare del mondo.

Mi sento soffocare perché la politica, pensata per migliorare la vita delle persone, non riesce a dare risposte concrete. Veniamo costantemente strumentalizzati, ridotti a unità destinate a formare statistiche su quanto siamo “sfigati” o precari. O entrambi.

Mi sento soffocare perché le priorità di chi dovrebbe lavorare per noi sono la legge elettorale, la coalizione-addizione alla D’Alema da presentare alle elezioni, lo spread e il mantra dell’Europa che ci chiede tutto (tranne il reddito minimo garantito per assicurarci una dignità appena sufficiente per camminare a testa alta quando usciamo di casa).

Mi sento soffocare perché le poche persone dedite al bene comune (“politici” è diventato quasi un insulto, purtroppo) che stimo, come te e pochi altri, fanno fatica a farsi ascoltare. Non siete tutti uguali, e lo so. La logica di partito vi mette da parte e ci costringe a cercarvi col lanternino. Ma, una volta trovati, so che non tradirete mai me e i ragazzi che hanno un sogno da proteggere. Perché per voi, per te Giulio, so che quel sogno è importante. So che lo puoi capire, so che stai cercando una risposta per vederci sorridere, un giorno.

Sogno di essere rappresentato da qualcuno capace di commuoversi e starmi vicino se gli racconto che la ragazza che amo mi ha tolto dalla sua vita con un colpo di bianchetto.

Sogno di essere rappresentato da chi sa ascoltare e da chi ama la parola e il suo esercizio. Non per ingannare, ma per emozionare e raccontare che la vita potrebbe essere vissuta senza paura e senza odio.

Sogno di essere rappresentato da chi ama.

Senza questi sogni e senza gente dedita al bene comune come te, Giulio, che è in grado di capirli e farli propri, la mia vita non avrebbe senso. Almeno, non in questa vita (e nemmeno sono credente).

Grazie di esistere. È di grande conforto sapere che il tuo cuore batte anche per noi, ragazzi con un sogno e con tanto dolore nel cuore.

Ti sono vicino. Sono sicuro che un giorno potrai camminare liberamente senza paura -e senza scorta- fra la gente. E sorridere insieme a noi.

Francesco Bondielli

—————————–

Ciao Francesco,

la tua lettera mi onora. Sul serio. Mi onora perché quando in una discussione sulla politica e sul futuro (che sono sorelle quando funzionano insieme) si decide di parlare di sé stessi, delle proprie fragilità e delle proprie paure significa che in fondo vogliamo crederci al nostro futuro, rivendicarne la paternità.

Ogni tanto fatico a raccontare quanto la sensazione di essere bloccati in una preservazione argillosa renda tutto terribilmente difficile. Quanta differenza ci sia tra la politica rispetto alla politica come fine che decide (o non decide) in nome di piccole amicizie o inimicizie di bottega, servilismi senza ideali o dissociazioni dalla realtà incancrenite dall’esercizio del potere.
Quando mi capita di sentirmi affogare penso ad una promessa che mi sono fatto qualche anno fa, davanti ai miei amici migliori, quelli così vicini che ti sentono senza ascoltarti: insieme ci siamo promessi che non avremmo smesso di essere autentici anche nel ruolo politico che con tanto onore mi avevano consegnato. Provare il piacere di riconoscersi nella speranza senza compromessi che sta nei miei libri, nei miei spettacoli e nel nostro agire politico. Volare alto, direbbe qualcuno; ho sempre preferito invece pensare che sia uno stare al livello del mare dove non si perde la prospettiva e nemmeno la possibilità di scoprire le onde più brevi.
Se decidessimo di coltivare i nostri sogni per un certificato di sana e robusta realizzazione saremo degli ottimi commercianti. Teniamoceli Francesco i nostri sogni, con la fierezza e la dignità di chi vuole andarselo a confiscare il proprio futuro dai conti correnti in cui qualcuno vorrebbe incastrarlo.
Buona giornata

Io valgo perché avevo un sogno e continuo a scottarmi, a tagliarmi le mani e sudare affinché possa avverarsi

Roberta scrive una lettera. E vale la pena lasciare perdere i vecchi contro i giovani e leggerla con attenzione perché dentro ci sono le domande a cui dovremo rispondere. Con chiarezza. Prima delle elezioni.

Il mio nome è Roberta, ma potrebbe essere Lucia, Francesca, Samanta, Teresa, Michela o qualunque altro nome di donna. Ho quasi 22 anni e se dovessero chiedermi cosa farò da grande, la mia risposta è non lo so.  Il mio sogno è sempre stato uno: fare la scrittrice.
Avrei voluto studiare in una grande città, laurearmi, conoscere qualcuno che mi desse la possibilità di crescere e diventare brava, poi lavorare e rendere fieri di me prima i miei genitori, poi me stessa. Chiudo il libro delle favole e torno sulla terraferma, dove i sogni restano sogni e più che vivere bisogna sopravvivere. 

Qualche anno fa mi sono iscritta alla facoltà di lettere di Bari, non la migliore, ma la più accessibile almeno per le mie tasche. Ho frequentato il primo anno e non è andata male. Avevo una media alta, studiava, studiavo. Lo facevo per me.

L’anno successivo ho interrotto gli studi. Mio padre è un operaio, mia madre una casalinga. Una casa in affitto, tre figli sulle spalle. Mio padre ha perso il lavoro e allora ‘Arrivederci Università’. Facevamo la spesa con 15 euro al giorno, dove avrei potuto trovare 500 euro per la nuova iscrizione? Per il libri? Per fare la pendolare? I sogni restano nel cassetto e io sopravvivo.

Ho passato un anno in bilico su un filo pronto a farmi cadere. Non sapere cosa fare da grande a 20 anni era il problema più stupido, io volevo sapere se ce l’avremmo fatta. Volevo sapere se avrei mai più visto mio padre sorridere piuttosto che in depressione piangere senza un lavoro, avrei voluto vedere mia madre smettere di contare gli ultimi spiccioli per arrivare alla fine del mese.

Ho passato un anno ad osservare il mondo e capire che tanto non sarà mai come vorremmo, che la fatica è sempre per chi non se la merita e che l’ingiustizia sarà sempre sovrana. Ho capito che il futuro è il mio e la fortuna non è per tutti, allora se io non sono nata ”fortunata” come tutti i figli di papà del mondo, la fortuna me la creo da sola.

Ho fatto tre lavori al giorno: ho dato ripetizioni private, ho fatto la babysitter, ho lavorato in un bar, in un ristorante, ho distribuito volantini per le strade sotto la neve e con le mani prive di sensibilità a causa del freddo. 5 euro al giorno, a volte 8, al massimo 20.
Non mi interessavano i vestiti nuovi, le serate nei bar, la vita mondana e le cene. Io volevo il secondo anno di facoltà, io volevo la laurea.
”Roberta, qual è stata la tua più grande soddisfazione sino ad ora?” Se dovessero farmi questa domanda io risponderei: Aver lavorato, sacrificato me stessa, il mio sudore e la mia fatica.

Mi sono iscritta al secondo anno e l’ho anche terminato. Ho pagato la mia iscrizione, tutta da sola. Compro libri fotocopiati, per pagarli meno, a volta riesco anche a farmeli prestare. Vado a Bari solo quando è necessario, solo per dare gli esami. Anche il treno costa. Lavoro 12 ore al giorno per 35 euro, faccio la cameriera ed ho i calli alla mano destra perché spesso i piatti sono bollenti e una cicatrice sulla sinistra perché un bicchiere di vetro mi si è rotto tra le mani. Spesso studio di notte e lavoro di giorno. All’università ho chiesto una borsa di studio, ma non credo possa mai essere accettata a causa del mio anno di stop. Per l’università, quindi, sono una comunissima fuoricorso. Una fuoricorso come tante, ma con una vita che nessuno prova a considerare. Ho pagato quasi 400 euro per una Terza Rata ingiusta. Glielo spiegate voi ai Dottori che anche frequentare ha un prezzo, e la media del 30 ce l’ha chi nella vita riesce solo a studiare?
Troppe inutili domande che non avranno mai una risposta o una considerazione. La verità è soltanto una: la vita è ciò che ne facciamo, è il sudore e il sacrificio. I regali, le raccomandazioni, i soldi caduti dal cielo.. li lascio a voi.

Il mio nome è Roberta, ho quasi 22 anni e se dovessero chiedermi cosa farò da grande, la mia risposta è ancora non lo so. Non so se avrò una casa, uno stipendio, una pensione, una famiglia e una carriera. Lavoro 12 ore al giorno e sono felice. Felice di essermi sacrificata per la mia vita e per la mia famiglia. Felice perché io conto più di ogni politico, più di ogni avvocato figlio di avvocati, più di uno qualunque laureato in una università privata. Io valgo perché avevo un sogno e continuo a scottarmi, a tagliarmi le mani e sudare affinché possa avverarsi.

Roberta

Cos’è davvero importante (in Lombardia)

Terremoti, disoccupazione, l’economia lombarda e le difficoltà dell’Europa. E anche il consigliere PDL Vanni Ligasacchi scrive a deputati e senatori:

Ho appreso in questi giorni che il Ministero dell’Ambiente del Territorio e del Mare ha presentato un emendamento (DRP 27.04) inserendo al suo interno un articolo aggiuntivo dal titolo “Modifiche alla legge 157/1992 recante norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”. L’articolo citato porterebbe la modifica dell’art. 19 bis della 1.157/92 sull ‘esercizio venatorio, escludendo completamente il MIPAAF da ogni intervento nell’applicazione delle direttive comunitarie, in netto contrasto con la recente sentenza della Corte Costituzionale n. 16/2012, con lo spiacevole risultato di impedire in futuro la possibilità di una corretta gestione delle deroghe in materia di caccia cancellando il ricorso agli Osservatori regionali. Confido nella tua collaborazione in modo che venga scongiurato il rischio di tali inopportune modifiche.