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Sottosegretari horror: la “cultura” leghista e quella classe politica che ci meritiamo 

C’è una frase di Matteo Salvini che ieri è sfuggita ai più: un giornalista gli chiede, mentre stava presentando i suoi sottosegretari appena nominati, se questo di Draghi sia davvero il “governo dei migliori”, Salvini sorride tutto soddisfatto e dice che sì, che “questi (riferendosi alla squadra di governo leghista nda) sono sicuramente i migliori, ma noi della Lega ne avremmo altri trenta se servono”.

Non ha torto: i nomi che in queste ore vengono derisi per le loro pessime referenze sono davvero considerati l’eccellenza leghista dal segretario e dai loro elettori, sono le facce più presentabili di un Parlamento che è infarcito di ignoranti fieri, complottisti spregiudicati, mentitori seriali, inadeguati senza coscienza, ripetitori ossessivi di slogan vuoti, servitori del proprio leader, gente senza arte né parte che non troverebbe mai uno sbocco professionale.

Perché è vero che fa schifo avere come sottosegretaria alla Cultura una Borgonzoni che fiera ci ha raccontato di avere letto un libro in tre anni, ma è anche vero che Lucia Borgonzoni ha preso 1.01.672 voti alle ultime elezioni regionali in Emilia Romagna con il 43,63% e, volendo ben vedere, è vero che un italiano su due non legge nemmeno un libro all’anno.

È vero che Borgonzoni non sapeva che la sua regione non confinasse con il Trentino ma è anche vero che una buona fetta di italiani non ritiene la cultura (nemmeno quella di base, quella generale) un requisito per un buon politico.

Così com’è vero che fa schifo che la sottosegretaria alla Difesa Stefania Pucciarelli abbia appoggiato l’idea di mettere i migranti nei forni ma è vero che troppi italiani, di cui molti suoi elettori, sono d’accordo con lei e lo scrivono sui propri profili. Ed è vero che fa schifo che un sottosegretario all’Istruzione come Rossano Sasso abbia ingiustamente accusato uno straniero che poi si è rivelato innocente, ma lo stesso atteggiamento lo ritroviamo in autorevoli editoriali di quotidiani nazionali.

Anche l’ignoranza con cui Sasso ha scambiato Topolino per Dante è qualcosa che spesso suscita addirittura “simpatia”, tra molti. E se qualcuno si stupisce che il nuovo sottosegretario dell’Interno Molteni rivendichi i decreti sicurezza del primo governo Conte, beh, la pensano così tutti gli elettori della Lega, e non solo.

Insomma, non stiamo parlando di casi sporadici ma di genuini interpreti del salvinismo concimato in tutti questi anni e questi sono i frutti. A proposito: non “li hanno votati”, con questa legge elettorale li hanno nominati le segreterie di partito.

Leggi anche: 1. Parla il padre di Lucia Borgonzoni: “Deve ricordare che la cultura è il contrario della xenofobia” / 2. Ruspe ai rom, forni per i migranti: la nuova sottosegretaria alla Difesa è la leghista Stefania Pucciarelli / 3. Crede di citare Dante, in realtà è Topolino: la gaffe del neo sottosegretario leghista all’Istruzione

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“Non leggo da 3 anni”. Ma la Lega propone Lucia Borgonzoni sottosegretario all’Istruzione 

È un riflesso pavloviano che attanaglia la Lega ogni volta che si parla di cultura: arriva il martelletto e Salvini estrae dal cilindro la mirabile figura di Lucia Borgonzoni, come se nella sua cesta avesse solo quello e come se tutte le figure barbine collezionate fin qui siano slavate dalla memoria corte di cittadini ed elettori.

E così accade ancora che per il ruolo di sottosegretaria all’Istruzione circoli con molta insistenza sempre lei, ancora lei, che sottosegretaria alla cultura era stata già in occasione del primo governo Conte, quando ci deliziò dicendo “leggo poco, studio sempre cose per lavoro. L’ultima cosa che ho riletto per svago Il Castello di Kafka, tre anni fa. Ora che mi dedicherò alla cultura magari andrò più al cinema e a teatro”, incassando subito lo sdegno di chi alla cultura si dedica da una vita e si è ritrovato ad avere una referente del genere.

Ma Lucia Borgonzoni la ricordiamo anche candidata alle elezioni regionali in Emilia Romagna dove sfoggiò un alto esercizio di cultura generale raccontandoci come l’Emilia Romagna confinasse con il Trentino (del resto cosa interessa a una leghista dei confinanti, loro che vogliono chiudere i confini?) e la sua notevole proposta di tenere gli ospedali “aperti di notte, di sabato e di domenica, come in Veneto” per “difendere i più deboli” dimenticando (o non sapendo) che era già così dappertutto, mica solo nelle regioni governate dalla Lega.

Fu una campagna elettorale indimenticabile perché Borgonzoni si lanciò a capofitto sulla vicenda di Bibbiano, scrivendone praticamente ogni giorno e collezionando gaffe in continuazione, tanto che alla fine il leader leghista Salvini fu costretto praticamente ad affiancarla per tutta la campagna elettorale: rimane negli annali la sua foto con un cane e il profondissimo attacco politico al suo avversario Bonaccini: “Un saluto da Holly, che tenerezza! Non ditelo a Bonaccini del PD, è allergico a cagnolini e gattini, pensa che sia ridicolo parlarne”.

Tanto per dire il livello. Promise ai suoi elettori di rimanere in Regione anche in caso di sconfitta: promessa ovviamente non mantenuta. Troppo comoda e calda la poltrona da senatrice. E anche in consiglio comunale a Bologna è riuscita a distinguersi: zero presenza nel 2020 (nonostante si facesse tutto da remoto) e una sola presenza nel 2019. Insomma Lucia Borgonzoni ha proprio tutte le caratteristiche per meritarsi evidentemente un posto nel governo e siamo sicuri che riuscirà a stupirci ancora. Peccato che sia un divertimento tragico per il Paese.

Leggi anche: 1. L’intergruppo Pd-M5S-Leu: tra la lotta alle destre e la nostalgia di Conte / 2. Il divertente spettacolo della Lega, che per non stare fuori dai giochi si scopre europeista

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“Napoleone incoronato Re d’Italia nella Villa di Monza”: la gaffe storica nella mozione della Lega


“Nel 1805 si ebbe l’incoronazione di Napoleone presso la Villa” reale di Monza. Così si legge in una mozione presentata dalla Lega al Consiglio regionale della Lombardia, avente come oggetto il “Recupero degli arredi della Villa Reale di Monza”, attualmente collocati presso il Quirinale. Ma Napoleone, come tutti sanno, venne incoronato Re d’Italia nel Duomo di Milano.
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«Escort». E tutti giù a ridere

Su Rai Uno l’offesa pesante a una donna viene considerata goliardia?

Dunque Alan Friedman ospite della trasmissione Uno mattina mercoledì 20 gennaio per commentare l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, ha voluto regalarci una perla di maschilismo travestito da analisi politica dicendo: «Donald Trump si mette in aereo con la sua escort e vanno in Florida». Poi si è corretto, come si correggono i pessimi comici che non fanno ridere e ha detto «moglie».

La escort in questo caso era Melania Trump, moglie dell’ex presidente degli Usa. Si è levato giustamente un coro di indignazione ma poco, meno di come avrebbe dovuto essere. Perché? Perché in fondo offendere la compagna del proprio nemico politico è considerato meno grave per chi usa la difesa delle donne semplicemente come roncola, come l’ennesima arma da portarsi nell’agone politico.

Eppure offendere la moglie di un avversario per colpire lui è proprio un comportamento maschilista fatto e finito. Forse sarebbe il caso di difendere i principi e i valori indipendentemente dal fatto che ci tornino utili per attaccare quelli che non ci stanno a genio. Sì, è vero che fa ridere ascoltare Salvini che si indigna, proprio lui che ha portato sul palco una bambola gonfiabile paragonandola a Laura Boldrini. Ma questo non è il punto, ora. Il punto è difendere la dignità di Melania Trump, in quanto donna oggetto di attacchi maschilisti. Questo ci interessa.

Anche perché Friedman si è giustificato dicendo che non era una parola “voluta” e che stesse traducendo dall’inglese. «La parola che volevo dire era ‘accompagnatrice’», dice Friedman. Beh, caro Friedman, una moglie non è l’accompagnatrice del proprio uomo, non esiste solo in quanto portatrice dell’identità del suo marito o compagno. E poi sorge una domanda spontanea: Friedman è corrispondete dall’Italia dal 1983, davvero è ancora così indietro con la sua capacità di linguaggio? Dai, non scherziamo, su. Chiamare “gaffe” una frase sessista non si può sentire, no.

Ma andiamo avanti: la conduttrice rimprovera a Friedman la sua pessima uscita e lui dice che «Melania non è una vittima ma è razzista come Trump». Quindi il buon Friedman siccome voleva attaccare Melania Trump non le ha dato della razzista ma le ha dato della escort. Peggio di prima. Passano alcune ore e ieri Friedman scrive «ho fatto una battuta infelice, chiedo scusa». E niente, non riescono proprio a dire “ho fatto una battuta sessista e me ne scuso”. È più forte di loro.

Immaginate se quella stessa frase fosse stata rivolta alla moglie di Biden o peggio alla moglie di Obama: sarebbe scattato l’inferno. Dai, facciamo i seri e difendiamo i principi che vanno difesi senza farsi inquinare dal tifo. L’onestà intellettuale è una forma di rispetto per se stessi e in questo caso anche delle donne.

Buon venerdì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Caro Toti, è veramente così difficile dire: “Ho sbagliato”?

Alla fine ha pure fatto la sua intervista d’ordinanza al Corriere della Sera per provare a rettificare e c’è riuscito malissimo, e non c’erano dubbi. Il presidente della Liguria, intervistato sul suo tweet in cui definiva gli anziani “non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese” non ha affatto rimediato alla gaffe, forse perché in fondo la sua idea è proprio quella, quella di un’utilità sociale che sia fermamente ancorata all’utilità di produzione, secondo il feroce schema “nasci, produci, consuma, muori” che fa tanto comodo a una certa politica. Quella politica che vorrebbe appiattire tutta la questione sanitaria al semplice fatturato, come se non esistesse un’emergenza sociale, un’emergenza affettiva, un’emergenza mentale. Niente.

Ridurre tutto all’eugenetica di chi produce e di chi invece non produce è il crinale in cui Toti si è avventurato tralasciando, come al solito, la complessità a favore di una banalizzazione che come tutte le banalizzazioni risulta feroce nella sua semplicità. Poi ci sono le scuse, sempre quelle, sempre allo stesso modo: dice Toti che la colpa è del suo social media manager (che è il nome altisonante per definire spesso coloro che, sottopagati, si occupano di tutta la comunicazione e che alla fine risultano determinanti per costruire il personaggio politico). Gli sfugge che il fatto che sui suoi profili social ci sia la sua faccia, e ciò implica necessariamente che sia sua tutta la responsabilità di quello che esce da quei canali.

Non ce la fanno proprio a dire semplicemente “scusate ho sbagliato, ho fatto una cazzata” e così accade addirittura che la sua responsabile dei social, Jessica Nicolini, si metta a cianciare in un’intervista di “chi non vede l’ora di far licenziare qualcuno in un momento come questo o gode sugli errori degli altri”, come se alla fine anche l’indignazione fosse colpa nostra, scemi noi che ci siamo permessi di farci irretire dal suo orrido messaggio. Ma il punto principale è che questi sono disabituati alla cura, alla cura delle parole, alla cura della memoria, alla cura delle persone nella loro totalità e così appaiono sempre impreparati ogni volta che si ritrovano a doversi occupare delle cose umane, loro così attenti solo agli algoritmi e ai flussi della preferenza elettorale, loro sempre così attenti al gradimento. E Toti si è anche dimenticato di guidare la regione più anziana di uno dei Paesi più anziani del mondo. Pensa a volte il destino.

Leggi anche: 1. Toti: “Tweet maldestro, ma confermo: isolare gli anziani per proteggerli” / 2. Toti, la gaffe e lo staff

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