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Avanzi di Gallera

La Lombardia in zona rossa sulla base di dati sbagliati inviati all’Istituto superiore di sanità dalla Regione stessa. Fontana e Moratti scaricano le colpe sul governo. Dopo l’addio dell’ex assessore al Welfare, bisogna fare i conti con ciò che ha lasciato: il suo presidente, la sua sostituta e un Ente ormai completamente allo sbando

In Lombardia non bisogna mai correre il rischio di pensare che peggio di così non potrebbe andare perché ci si imbatte sempre in una delusione cocente, in quella terribile sensazione per cui gli uomini al governo della Lombardia (quelli che Salvini e compagnia cantante ci porgono tutti i giorni come alti esempi di ottima amministrazione) riescono sempre a toccare il fondo, poi scavare, poi scavare e poi scavare ancora.

Facciamo un salto indietro: il 17 gennaio la Lombardia è una delle poche regioni che viene indicata come “zona rossa”, ovvero una regione ad alto rischio di contagio dove devono essere prese misure molto stringenti che impattano enormemente sulla vita dei suoi cittadini e delle sue attività economiche. Badate bene: la decisione del governo viene presa sulla base dei dati che Fontana, Letizia Moratti e i tecnici regionali mandano regolarmente al ministero. I dati dalla regione sono stati consegnati il 13 gennaio e infatti non è un caso che se sfogliate i giornali di quei giorni potrete incrociare un Fontana contritissimo che avvisa tutti che si finirà in zona rossa e che bisogna stare attenti. Poi, per il solito gioco della propaganda e del rimpiattino con il governo, accade che Fontana si dica costernato e stupito della decisione del governo. In sostanza si è stupito di quello che egli stesso pensava fino a poche ore prima. E già fin qui la vicenda rasenta una tragica irresponsabilità. Fontana fa ricorso al Tar. Letizia Moratti si lancia a dire: «La Lombardia non merita la zona rossa. Indubbiamente il rischio per la regione è di fermarsi, di fermare il lavoro, le attività e la vita sociale. Per questo con il presidente Fontana abbiamo ritenuto di voler presentare un ricorso, per uscire dalla zona rossa».

Attenzione al capolavoro. Il 20 gennaio la Regione Lombardia invia nuovi dati e sono molto diversi rispetto ai dati precedenti. In sostanza si smentiscono. E si scopre che la Lombardia sulla base dei nuovi numeri avrebbe dovuto essere zona arancione. Il ministero della Salute spiega molto chiaramente che a falsare il calcolo dell’Rt sono stati numeri parziali inviati dalla Regione. In base all’aggiornamento del 20 gennaio, i casi sintomatici che hanno sviluppato dei sintomi – cioè un dato fondamentale per calcolare l’Rt – fra il 15 e  il 30 dicembre non erano più 14.180 come segnalato il 13 gennaio, bensì 4.918, quasi tre volte di meno. In Lombardia, dopo avere fatto la figura di quelli che non sanno nemmeno fare da conto, si scatenano. Fontana dice: «A Roma devono smetterla di calunniare la Lombardia per coprire le proprie mancanze», Moratti rincalza dicendo: «Nessuna rettifica, a seguito di un approfondimento relativo all’algoritmo dell’Iss, abbiamo inviato la rivalorizzazione dei dati». Rivalorizzare un numero significa averlo sbagliato, l’elegante Moratti però lo dice con una perifrasi che vorrebbe nascondere l’errore.

All’Istituto Superiore della Sanità rispondono chiaramente: «L’algoritmo è corretto, da aprile non è mai cambiato ed è uguale per tutte le Regioni che lo hanno utilizzato finora senza alcun problema – scrive l’Iss -. Questo algoritmo e le modalità di calcolo dell’Rt sono state spiegate in dettaglio a tutti i referenti regionali perché lo potessero calcolare e potessero verificare da soli le stime che noi produciamo, ed è perciò accessibile a tutti». In sostanza: siete voi che non sapete fare i calcoli. È anzi l’Iss a sottolineare come l’anomalia sia stata fatta notare più volte a Regione Lombardia.

Salvini chiede le dimissioni dei responsabili. In sostanza sta chiedendo le dimissioni del suo presidente Fontana, quindi. Roba da teatro dell’assurdo. Secondo alcune stime il danno per i circa 10mila negozianti costretti a chiudere domenica 17 gennaio sono stati di circa 485 milioni di euro solo a Milano tra abbigliamento e pubblici esercizi secondo Confcommercio. Immaginate i totali di tutta la regione. E in più ci sono le scuole, le persone. Roba gravissima.

Ecco, se pensavate che l’addio di Gallera fosse una buona notizia non avete fatto i conti con gli avanzi che Gallera ha lasciato: il suo presidente, la sua sostituta e una Regione ormai completamente allo sbando. In sostanza questi hanno ricorso al Tar contro se stessi. E ora fanno i pesci in barile scaricando le colpe sul governo. Ah, a proposito: come ultima dichiarazione ieri Fontana ha detto che «forse non è colpa di nessuno».

Bravi, bene, bis.

Buon lunedì.

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Dino Giarrusso (M5S) a TPI: “Avanti con Conte senza Renzi, ora trattiamo per un governo con altri partiti. Ma no impresentabili”

Sulla crisi di governo in corso abbiamo intervistato per TPI Dino Giarrusso, parlamentare europeo del Movimento 5 Stelle.
Giarrusso, a che gioco a sta giocando a Renzi?
“Sta giocando al gioco ‘fai male all’Italia’, un gioco che non mi piace per niente. Qui il problema sono gli italiani e le loro vite: nessuno dotato di coscienza può pensare di provocare una crisi di governo in questo momento. Lo sappiamo tutti. Lo dicono gli osservatori europei. Siamo stati anni a dire ‘ce lo chiede l’Europa’ e ora sappiamo benissimo che l’Europa, i mercati, il mondo, ci chiedono stabilità, non certo di andare alla crisi o alle elezioni. Benché tutti sappiamo che questa è una scelta che fa male agli italiani, viene dato un enorme spazio mediatico a Renzi e al suo modo, suggestivo e imbarazzante ad un tempo, di raccontare le cose. Ha giornalisti molto amici che sostengono questa visione delirante della realtà. È un profluvio di spazio dato a Renzi e ai suoi fedelissimi in tv e sui giornali, ma parliamo di un partito al 2%. Come mai?”.

Cosa ha in mente? Cosa vuole?
“Questo facciamo fatica a capirlo tutti. Questa è la verità. Perché, finché chiedi qualcosa di più per te e per i tuoi, è un atteggiamento squallido ma farebbe parte delle cose della politica. Magari cerchi di ottenere quanto più possibile. Invece questo atteggiamento distruttivo è faticoso anche da comprendere. Che cosa vuole? Non sono in tanti ad averlo capito. A me sembra uno di quelli che al tavolo da gioco hanno perso tanto e, nella disperazione, continua a fare mosse sconsiderate. Sicuramente riesce a fare parlare di sé. Se si va a vedere il sentimento degli italiani nei suoi confronti si vede che sta sulle scatole a tutti”.

Però quello che conta sono i voti in Senato…
“Noi oggi stiamo assistendo a una crisi di governo portata avanti da un partito che conta 18 senatori, ma questo partito non era presente alle elezioni che hanno formato questo Parlamento. Nella scheda elettorale questo partito non c’era, capisce? Dal punto di vista democratico questa cosa va bene? Dobbiamo chiederci se sia ancora normale creare gruppi parlamentari di partiti che non erano presenti alle elezioni. È una cosa sana? Non mi pare che rispecchi la volontà degli italiani. E una riflessione in tal senso sui regolamenti parlamentari andrebbe fatta. Mi sembra la cosa più evidente in questo momento, ma nessuno ricorda che la crisi è causata da un partito che gli italiani non hanno votato, poiché non era sulla scheda”.

Come vede lo scenario futuro?
“Prevedo che sia impossibile, se questo governo cade, una maggioranza ancora con Renzi, dopo questo comportamento. Allo stesso tempo mi sembra ingiusto pensare a un futuro governo senza Conte, protagonista di una buona stagione di governo in Italia. Mi auguro che ci sia la possibilità di andare avanti con Conte”.

Quindi vi affidate ai responsabili? Imbarcate qualcuno?
“La parola ‘responsabili’ mi piace fino a un certo punto. Nel teatrino dell’assurdo a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni ho sentito dire ad alcuni renziani che è sbagliato da parte di Conte cercare degli Scilipoti in giro. Ma sono loro a essere gli Scilipoti: sono loro che non esistevano alle elezioni e hanno tradito il partito con cui sono stati eletti. Non si possono accusare gli altri di propri comportamenti, è surreale. Tornando alla domanda: bisogna vedere innanzitutto se tutti i senatori di Renzi lo seguiranno. Bisogna capire se gli ex senatori del M5S vogliono sostenere Conte. Che cosa faranno quelli nel Gruppo Misto? Vedremo. E poi capire le opportunità che possono esserci con altre forze politiche. Perdere Conte sarebbe una follia, ma bisogna vedere che carte ha in mano chi vuole entrare in maggioranza. C’è il rischio di avere personaggi poco raccomandabili dentro il governo, ma a riguardo mi fido dei miei colleghi in Parlamento: se ci sarà un governo con i voti M5S non possono esserci impresentabili”.

Leggi anche: 1. I 5 Stelle uniti in blocco a sostengo di Conte. E con i renziani mai più, meglio Forza Italia / 2. Di Battista sposa la linea Conte: “Se Renzi apre la crisi, mai più un Governo con lui” / 3. I 3 scenari che trasformano Giuseppe Conte in Giovanna d’Arco (di Luca Telese) / 3

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Omicidio Regeni, l’Egitto prende a schiaffi i pm italiani: il Governo faccia qualcosa

Ma che altro deve succedere perché l’Italia e la storia di Giulio Regeni non vengano usate come zerbino dall’Egitto? Ma che altro deve succedere perché il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, abbia un sussulto di dignità – lui e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte – perché venga difesa non solo la memoria di un ragazzo che muore quasi ogni giorno sotto i colpi dell’impunità del governo di Al-Sisi, ma almeno la credibilità della Giustizia italiana, che viene addirittura definita “illogica” e basata su “fatti e prove errati, che costituivano uno squilibrio nella percezione dei fatti”?

È notizia recente la consegna di una fregata militare da parte dell’Italia all’Egitto che ecco subito dopo che la procura egiziana si diverte ad attaccare la procura di Roma, il procuratore capo Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco.

In sostanza l’Egitto, quello stesso Egitto che nel corso di tutti questi mesi ha inscenato le più improbabili storture per nascondere l’omicidio di Stato del giovane ricercatore friulano, ora vorrebbe farci credere che qualcuno lo scorso 25 gennaio del 2016 avrebbe ucciso Giulio Regeni per poi addossare la colpa al governo egiziano.

Ma avete capito fino a quanto si possa spingere l’ipocrisia omicida di un governo? Dicono in pratica che Regeni sia morto per creare danno a loro. Loro, che continuano a stringere mani insanguinate con pezzi di governo italiano per scambiarsi armi, loro che insistono nel prendersi gioco bellamente dei nostri rappresentanti di governo che non riescono a produrre nulla di più di qualche pelosa dichiarazione d’indignazione da consegnare alla stampa e da dare in pasto all’opinione pubblica.

Ma oggi, mentre la procura egiziana smentisce la ricostruzione dell’Italia, senza nemmeno prendersi la fatica di offrire almeno un’altra versione dei fatti, senza nemmeno curarsi di indicare dei presunti colpevoli, lo sentite l’odore della vergogna che si spande tutto intorno?

Davvero si vuole ottenere verità su Giulio Regeni limitandosi a intitolargli qualche stanza o qualche convegno? Ma qual è la strategia del governo? Aspettare che ce ne dimentichiamo? Augurarsi che smettiamo di scriverne?

La storia di Giulio Regeni sanguina un vocabolario che ci stringe ogni giorno a scendere negli inferi dell’incredulità di fronte a atteggiamenti così irresponsabili: irresponsabile il silenzio italiano, irresponsabile l’odore del sangue slavato male che arriva dall’Egitto. Ma ne scriveremo tutti i giorni, tutto il giorno, senza tregua.

Leggi anche: 1. Alla vigilia di Natale, nel silenzio generale, l’Italia ha consegnato una nave militare all’Egitto. Con buona pace di Regeni / 2. La verità su Giulio Regeni è un diritto: l’Italia smetta subito di vendere armi all’Egitto (di Alessandro Di Battista)

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La stalla e il verme

Dormivano in alloggi umidi e malsani che sarebbero sporchi anche per delle bestie. Una storia disumana di sfruttamento scoperta in provincia di Viterbo dopo la morte di un bracciante

Ci sono stalle fuori dai presepi che si portano addosso delle storie che sanguinano. Nel piccolo comune di Ischia di Castro, in provincia di Viterbo, dentro la stalla ci stavano uomini, braccianti. Solo che non erano uomini, no, erano cani, vermi, servi, li chiamavano così i loro “datori di lavoro” che li pagavano 1 euro all’ora per giornate che potevano durare fino a 17 ore nei campi.

Dormivano nelle stalle, in alloggi umidi e malsani che sarebbero sporchi anche per delle bestie. Non esistevano nemmeno i giorni: festivi, straordinari, turni notturni erano compresi nel prezzo, porzioni di lavoro da regalare al proprio padrone. Gli investigatori scrivono che «lo sfruttamento della manodopera è stato reso possibile dalla determinazione con cui la famiglia imprenditrice ha sfruttato le condizioni delle vittime, spesso quasi ai limiti dell’indigenza, fino ad assoggettarli completamente, poiché cittadini stranieri per lo più soli, con le famiglie da mantenere nei loro luoghi di origine, bisognosi della paga che veniva loro elargita come unica forma di sostentamento ed isolati dal resto della comunità, poiché di fatto impossibilitati per mancanza di tempo e di mezzi con cui muoversi ad uscire dall’azienda in cui vivevano e lavoravano».

Qui non c’è nessun bambinello. C’era un 44enne albanese, che si chiamava Petrit Ndreca e che avrebbe dovuto essere morto in auto con alcuni suoi famigliari. Questa è stata la versione dei fatti riportata ai carabinieri dopo la chiamata, solo che le forze dell’ordine si sono insospettite per la presenza sul posto anche dei due imprenditori agricoli e hanno avviato le indagini. Così alla fine la verità è venuta fuori: Petrit è morto in modo indegno all’interno dell’azienda dopo avere accusato un malore e i suoi datori di lavoro con le minacce sono riusciti a convincere i suoi famigliari a trasportarlo lontano da lì avvolto in una coperta. «Il corpo di Petrit è stato trattato come quello di una pecora», ha raccontato il cognato quando è crollato di fronte ai carabinieri. E così si è scoperto che nelle stesse condizioni di Petrit lavoravano altre 17 persone.

Quella stalla è il presepe della schiavitù che si consuma e della vita umana cha non vale niente. Se poi lo schiavo è straniero e senza documenti allora il gioco viene fin troppo facile. Auguri, a tutti.

Buon giovedì.

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Regole, non paternalismi

È un’oscillazione continua, un tira e molla tra due fazioni che evidentemente non hanno il senso di responsabilità di sedersi e parlare ma che si divertono moltissimo a giocare nell’una e nell’altra parte. Nella discussione di questo 2020 di pandemia si sviluppa un gioco sottile di paternalismi da parte di una classe dirigente che non ha il coraggio di mettere regole e che lascia spazio a tutte le ciance possibili immaginarie.

L’ultima in ordine di tempo è la sorpresa (ma davvero ci si può sorprendere?) di aprire negozi, ristoranti e bar a pochi giorni dal Natale e stupirsi che la gente frequenti negozi, ristoranti e bar. E quindi lamentarsene per essere già pronti a trovare i colpevoli in caso di terza ondata. Dopo i runners, dopo i passeggiatori con il cane, dopo le discoteche estive ora arriveranno i camminatori natalizi. E così via, in un continuo paternalismo che diventa insopportabile, solo per mettersi nella posizione poi di poter dire “l’avevamo detto” ma senza il coraggio di averlo fatto.

«I cittadini fanno quello che è consentito loro di fare. Se negozi, bar e ristoranti sono aperti, perché non dovrebbero uscire, andare a fare shopping (in più c’è il cashback), pranzare fuori o prendersi un caffè? Cosa ci si aspettava? Troppo facile prendersela con loro», ha scritto ieri il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, uno che con i morti, molti morti, ha dovuto averci a che fare quest’anno.

Il sogno recondito di questi è che le attività commerciali possano incassare senza gente in giro, riuscire a trovare un algoritmo per cui le persone escano solo giusto il tempo per riempirsi il carrello, ridisegnare la socialità completamente appiattita sul fatturato, solo quello.

Mentre in Germania si prendono decisioni impopolari qui da noi ora è un rincorrersi alla “responsabilità dei cittadini” come se il compito della politica fosse eccitarla piuttosto che regolamentarla e governarla. Ci sono molte persone senza mascherina? Benissimo, ci sono regole da fare rispettare e che si facciano rispettare. Ci sono assembramenti? Si controllino gli assembramenti. Si multino gli irregolari e gli irresponsabili.

Ma la politica deve decidere le regole e deve trovare i modi per farle rispettare, troppo facile limitarsi alle ramanzine.

Tutto questo, ovviamente, con l’aggiunta di un pezzo di popolo che del senso di responsabilità se ne fotte da sempre, mica solo con il Covid.

Buon martedì.

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In piena crisi da Covid, Toti aumenta di 883mila euro i fondi per gli staff degli assessori

Tempo di pandemia, tempo di difficoltà economiche, tempo di feste che molti non hanno voglia di festeggiare per il cupo futuro che si ritrovano davanti. È normale che in tempi come questi la gestione dei soldi pubblici diventi ancora più responsabilizzante, del resto è la stessa discussione che continua dalle parti del Governo. Per il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, invece, evidentemente questo è il tempo di elargire denaro alla politica. E la sua scelta, legittima, non può non porre domande e dubbi.

Lo scorso 13 novembre la giunta ligure ha approvato all’unanimità una delibera che triplica i finanziamenti erogati ai membri della giunta (presidente e assessori) per stipendiare il proprio staff. Si passa da 523mila euro all’anno per il personale a 1.356.181,20 euro, con un incremento di 883mila euro.

Sia chiaro, sono soldi che ogni assessore potrà utilizzare su base fiduciaria, nominando funzionari che dagli 8 che erano ora diventano addirittura 22, per un esborso complessivo nel corso di una legislatura di quasi 7 milioni di euro.

“I fondi non ci sono mai quando servono per realizzare opere importanti come i parchi naturali, la pulizia dei torrenti e la messa in sicurezza dei fiumi”, fa notare Ferruccio Sansa, che ha sfidato alle ultime elezioni regionali proprio Toti. “Non ci sono per comprare tamponi, mascherine e per pagare il personale sanitario. Ma poi i soldi si trovano sempre quando fa comodo a chi governa”.

Toti si difende parlando di “competenze dell’Amministrazione regionale che sono state ulteriormente ampliate nella legislatura appena conclusa, e quindi ciascun componente della Giunta regionale ha maggiori materie di pertinenza rispetto ai componenti delle Giunte regionali delle legislature precedenti, in particolare derivanti dal trasferimento di funzioni dalle Amministrazioni provinciali”. Peccato che quel trasferimento di competenze di cui Toti parla risalga addirittura al 2015.

Non si capisce quindi l’urgenza, peraltro in piena pandemia. Rimane anche il dubbio sul riversare quei soldi agli staff degli assessori piuttosto che ai funzionari della macchina regionale. Tutto questo mentre il presidente Toti spinge per riaprire tutto, riaprire il prima possibile, per dare il via libera a tutti fingendo di non sapere che una macchina per la radioterapia (di cui la Liguria avrebbe bisogno) costa esattamente la cifra annuale assorbita dallo staff del presidente.

Ora il gruppo consiliare della maggioranza ci tiene a precisare che si tratta di “capitoli di spesa diversi” e di cifre che “non tolgono finanziamenti a altre voci”. È il gioco delle tre carte, il solito vecchio gioco. Ma in un tempo nerissimo.

Leggi anche:
1. Caro Toti, è veramente così difficile dire: “Ho sbagliato”? (di Giulio Cavalli)
2. Vaticano, il successore di Becciu? Si fa l’abito da cardinale da 6mila euro pagato coi soldi pubblici

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Parliamo di povertà?

Mi scrive uno sfogo densissimo Filippo. Filippo è uno di quelli con le mani dentro la povertà, ce ne sono tanti nel nostro Paese, anche se ce ne dimentichiamo spesso. È un membro anomalo in un ente religioso: di sinistra, ateo, sbattezzato. Con le mani, per lavoro, dentro gli angusti dolori di chi è stato sopraffatto dalla pandemia. Ma sopraffatto vero, senza la preoccupazione di dove andare a sciare il prossimo Natale.

“Bene, ora, da qualche mese a questa parte, mi trovo quotidianamente a conoscere e a confrontarmi con persone, con famiglie per lo più composte da giovani genitori e bambini poco più che neonati, che, trattenendo le lacrime, si sono trovate, senza capire come, nella condizione di dover chiedere aiuto a me, a noi, ai professionisti e ai volontari di organizzazioni caritatevoli.
Dov’è oggi lo Stato Sociale? La povertà non era stata abolita? Come può pensare uno Stato di essere sulla strada giusta se i suoi cittadini devono dipendere da queste associazioni e non possono fidarsi degli organi pubblici predisposti? È normale che in Italia, in una piccola Provincia piemontese, oggi sia stato fondamentale l’intervento economico di due enti caritatevoli per permettere a due famiglie di riavere luce e gas? E’ normale che vengano spesi 38.000 € (giuro, 38.000 €) per le luminarie natalizie quando la luce ogni giorno viene a mancare nelle case dei cittadini?
Sui giornali, nei tg, in radio, leggo e sento solamente discussioni su quanto sia importante andare a ballare o a sciare, ma le urla e le lacrime disperate di chi non riesce a pagare affitti, bollette per luce o gas non meritano lo stesso interesse dei capricci del Briatore di turno?
“Quando torneremo alla normalità vi restituirò tutto”, è questa la frase che oggi mi sono sentito ripetere più e più volte da persone che rivolgevano lo sguardo a terra, che si vergognavano di essere li, di aver deluso i canoni di questa società fondata sul successo personale, sui beni materiali. Ma io, noi, non vogliamo niente in cambio, tutto quello che facciamo, dalla distribuzione di alimenti, al pagamento di utenze, alla ricerca di offerte di lavoro, lo facciamo perché crediamo nell’umanità (un grazie a quella parte di umanità che sostiene i nostri progetti).
Da un lato aiutare queste persone, sentirmi dire “grazie, senza di voi non so come avrei fatto” mi fa sentire bene, mi da una carica oserei dire “rivoluzionaria”, ma solo per pochi istanti, subito dopo subentra la Disperanza, una sensazione di rabbia mista a impotenza che ti fa venir voglia di mollare tutto, che ti fa sentire piccolo, impotente di fronte a un mostro imbattibile e fa percepire come inutili tutti i tuoi sforzi per garantire un’esistenza dignitosa a chi da questo sistema viene sacrificato.
È normale che uno Stato non sia in grado di garantire uno stile di vita dignitoso ai suoi cittadini? È normale che uno Stato debba dipendere da associazioni caritatevoli per sopperire alle sue mancanze e che non se ne interessi minimamente a livello centrale? Quale è stato il preciso momento in cui il mio Paese, quel Paese per il quale mia nonna ha sacrificato la sua gioventù lottando per un ideale di giustizia e equità, per il quale io mi sono messo in gioco difendendo le cause degli ultimi, dei più deboli, ha abbandonato il suo popolo?
Dopo una giornata emotivamente devastante, dopo essermi trovato di fronte a ragazzi miei coetanei, che spensierati sgargarozzavano birre guardando le partite con me nei bar fino a poco tempo fa e che ora non dormono la notte, tormentati da quella maledetta sensazione, quella maledetta ansia che folgora cuore e stomaco e annebbia la ragione causata dal sentirsi inadeguati, dal convincersi di aver fallito e di non essere degni dei proprio genitori, dei propri figli per non riuscire a garantirgli un’infanzia spensierata come quella da noi vissuta, l’amministrazione comunale cosa fa? Si vanta di aver vinto una causa in tribunale che gli permette lo sgombero di un campo Rom…9 persone, 2 bambini, a fine novembre, in mezzo a una strada. Tanto “qualcun altro” ci penserà….”

Quando torniamo seriamente a parlare di povertà?

Buon giovedì.

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“Quello che mi resta di mamma morta di Covid? Un sacchetto con le sue cose infette”, la terribile storia di Moira

Una foto che gronda solitudine, un sacchetto rosso appoggiato per terra con gli indumenti e gli effetti personali della madre morta di Covid all’Irccs Policlinico San Donato. Moira Perruso, che di mestiere è una giornalista ma si occupa anche di fotografia, ha condiviso quel momento sul suo profilo Facebook: «Ai miei piedi ciò che mi restituiscono di mia madre… Non posso nemmeno buttarmi a capofitto su quegli abiti per sentire ancora una volta il suo odore, sono infetti… Per chi nega, per chi specula, per chi non ha protetto: che possiate sentire anche voi il rumore del cuore in frantumi». In poco tempo sul suo post si sono accavallate centinaia di testimonianze di persone che hanno vissuto lo stesso dolore.

«Il post è nato – mi racconta Moira – perché ho chiamato l’ospedale, volevo indietro le cose di mia madre, la sua fede nuziale, una collanina che indossava sempre e che le avevamo regalato noi. “Posso riavere gli oggetti di mia mamma?”, ho chiesto. Quando sono arrivata al Policlinico, al settimo piano del reparto Covid un infermiere mi ha adagiato il sacchetto, con anche i suoi vestiti, e mi ha chiesto una firma. Quel momento mi si è fissato negli occhi e ho voluto fotografarlo perché era un fatto emotivo personale ma anche un fatto pubblico, qualcosa che sta accadendo a migliaia di persone. Solo oggi ho ricevuto centinaia di mail di figli che hanno ritirato così le cose di un genitore. Mia madre stava bene, cresceva i nipoti, tutta una vita messa ai miei piedi. In quel momento mi sono detta: come si fa a negare questa evidenza? Come si fa a dire: “Non muori per Covid ma muori con il Covid”».

Già, questo gioco di frugare tra le parole per sminuire. Mia madre è morta di Covid, mia madre stava bene e ora è un mucchio di vestiti infetti. Capisco anche i medici, non hanno il tempo fisico per trattare il dolore, non possono anche curare “l’umano”, ma io ho avuto il cuore in frantumi. Mi è stata negata anche la “liturgia” della morte, non ha potuto indossare quel maglione rosso che amava, nessuno che la teneva per mano. Era una donna riservata e dignitosa. Ora quando mi addormento la penso sigillata dentro un sacco. Ma come si fa a non avere la responsabilità di proteggere il prossimo? Non possiamo pensare di dare colpa alla politica se non siamo responsabili come individui. La giustizia non è una delle virtù cardinali? Moira ce l’ha con i negazionisti.

Non si può negare, non è più tempo, non si può dire che i Pronto Soccorso sono vuoti, non si può avere il coraggio di dire che le ambulanze girano vuote. Il negazionista cos’ha? Paura della morte? Da che cosa è afflitto? Becera ignoranza? Il mio dolore non è un complotto. Mi è stato negato il diritto di seppellire mia madre e non so nemmeno dove sia in questo momento. Mi è stata negata anche la morte, di mia madre. Sono arrivate tantissime testimonianze. Forse c’è bisogno di parlare del dolore, se ne parla ancora troppo poco. Sì, si sta parlando troppo poco del dolore, nella narrazione si trascurano le persone. I protocolli tra ospedali cambiano: mio padre (anche lui malato di Covid) è all’Humanitas e mi chiamano tutti i giorni per aggiornarmi sulle sue condizioni di salute mentre per mia madre ho dovuto implorare dopo otto giorni di sapere qualcosa, poi mi hanno detto che l’avrebbero svezzata e che andava tutto bene, poi le hanno messo il casco poi la morfina, poi è morta.

Non l’ho più sentita. Ma questa cosa me l’hanno raccontata un migliaio di persone, che è anche una responsabilità, per me. Ho l’immagine di mia mamma terrorizzata che si sarà chiesta che fine avrà fatto la sua famiglia. Lei mi ha accudito per 50 anni e io non sono stata capace di accompagnarla nella morte. Lo so, è una roba scontata, ma dov’è lo straordinario nel dolore? È un momento in cui siamo di fronte a un fatto che sta cambiando il mondo e il nostro modo di affrontare il dolore. E forse chi nega semplicemente ha una paura fottuta.

L’articolo “Quello che mi resta di mamma morta di Covid? Un sacchetto con le sue cose infette”, la terribile storia di Moira proviene da Il Riformista.

Fonte

Poveri veri poveri finti

Per alcuni piccoli imprenditori, artigiani, commercianti o ristoratori le nuove misure anti Covid rischiano di essere un colpo ferale alle proprie finanze. C’è anche da dire, però, che quando in Italia si tratta di rivendicare dei mancati incassi i numeri sballano

Sarà una mannaia. Sarà pesantissima. Chiunque di noi conosce qualcuno che subirà il probabile prossimo lockdown come colpo ferale alla proprie finanze. Non si tratta di ricchi imprenditori o persone che si possono permettere di perdere un giro: sono piccoli imprenditori o artigiani o commercianti o ristoratori che hanno galleggiato per anni e che ogni mese riuscivano a fatica a rimanere sopra la linea di galleggiamento.

Per alcuni piccoli imprenditori, artigiani, commercianti o ristoratori le nuove misure anti Covid rischiano di essere un colpo ferale alle proprie finanze. C’è anche da dire, però, che quando in Italia si tratta di rivendicare dei mancati incassi i numeri sballano anche se in pochi hanno voglia di parlarne. Perché come scriveva qualche giorno fa Alberto Brambilla sul Corriere della Sera: «Quasi la metà degli italiani, 29,204 milioni pari al 48,38%, non ha redditi e vive quindi a carico di qualcuno. Verrebbe da dire una percentuale atipica, degna di un Paese povero e non certo membro del G7, se non fosse che le stime su consumi, spese e possesso di determinati beni (telefonia, alcol, tabacco, gioco d’azzardo, etc.) vadano invece a smentire questa tesi e a puntare piuttosto il dito su un’elusione fiscale mai efficacemente contrastata in Italia, anzi, anche molto incentivata da una miriade di bonus e sconti assegnati a chi dichiara redditi bassi».

Il 13% dei contribuenti con redditi da 35 mila euro in su versa circa il 58,9% di tutta l’Irpef. La fotografia corrisponde al reale? È una bella domanda. Come sarebbe da chiedersi che ce ne facciamo, proprio in periodo di crisi, di vistose attività che aprono con nessuna ragionevolezza dal punto di vista dell’investimento e riempiono le nostre città. Case che vengono costruite in un periodo in cui nessuno ha soldi per comprare case. Bar che stanno nel paesello e sembrano degni di New York e non hanno bisogno di clienti. Ipermercati costruiti talmente attaccati da non avere senso. E così via. Cose che sono solo soldi che hanno bisogno di non avere la forma e il colore e l’odore dei soldi.

Ora c’è il Covid, vero. Ma sarebbe il caso di parlarne, prima o poi.

Buon mercoledì.

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Altro che trionfo di Biden. Ancora una volta sondaggi e opinionisti hanno toppato alla grande

È ancora una volta la sconfitta della bolla. Le elezioni Usa non hanno ancora un risultato finale, ci vorrà tempo per contare tutti i voti per posta, ma l’onda blu che per mesi molti media si sono prodigati a descrivere non è sicuramente arrivata, chiunque risulti vincitore. Ed è l’ennesima lezione di un certo modo di vedere la politica, soprattutto quella degli altri, con gli occhi e con gli algoritmi di chi ci sta intorno, come se tutte le bizzarre uscite di Trump, quelle che anche molti giornali qui da noi hanno riportato con tanto clamore, fossero davvero delle irresponsabili fanfare e invece non avessero una solida base elettorale a cui parlare, da convincere, da sostenere e da cui essere sostenuti.

Accade nella politica ma accade così un po’ dappertutto: forse anche per il funzionamento stesso dei social siamo portati a convincerci che ciò che riteniamo assolutamente ragionevole sia un senso comune accettato e condiviso, ci convinciamo che la gravità che noi osserviamo in certi ragionamenti e in certi atteggiamenti sia un pensiero popolare e consideriamo gli avversari politici semplicemente una minoranza che verrà smentita dai numeri e dagli eventi.

E invece non solo non è così ma negli Usa, basta dare un’occhiata ai social, già ci sono quelli che raccontano di tentativi da parte dei democratici di manipolare le elezioni, Trump (dopo avere negato che l’avrebbe fatto) si è già dichiarato vincitore paventando già possibili brogli, l’enorme vantaggio che certi sondaggi davano a Biden è una favola che si è schiantata con questi primi risultati. Ed è una lezione politica ma è anche una lezione di giornalismo e di atteggiamento sociale: la sicumera non porta mai bene in politica, è un terreno scivoloso in cui si sono incagliati grandi firme e quello che non piace a noi (così come quello che ci piace moltissimo) non è per forza la linea di pensiero generale. Queste elezioni Usa ce lo dicono ancora una volta, comunque finirà.

E se è vero che i candidati hanno tra i propri doveri di propaganda quello di apparire certi del proprio risultato, non si capisce perché i media debbano stare al loro gioco. Ora si contano i voti, uno dopo l’altro, quelli decisivi, ma la storia che arriva dalle elezioni presidenziali americane è già molto diversa rispetto alla narrazione che avevamo ascoltato fin qui. Chissà se qualcuno, una volta tanto, confesserà di essersi fatto prendere un po’ troppo la mano.

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