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Letta Continua

Siamo nell’epoca Letta. Lo so, siamo in un momento politico strano, talmente nauseati che anche i cavalli di ritorno ci provocano sussulti, del resto già da un po’ ci siamo ridotti a rimpiangere la Prima Repubblica vista la consistenza di quelle venute dopo. Politicamente la notizia è questa: Enrico Letta è stato votato segretario da quelli che nel 2014 lo cacciarono. E, badate bene, i protagonisti sono sempre gli stessi, travestiti o mimetizzati o nella parte dei convertiti, sempre loro.

Però nel momento storico in cui tutti i leader di partito si accodano allo smussamento rivenduto come buona educazione (quando invece è solo insana pavidità politica) Enrico Letta ha deciso, nonostante lo dipingano come annacquato, di essere smodato e di porre questioni che gli altri hanno finto di dimenticare. I punti che ha posto all’assemblea del Partito democratico sono comunque aria fresca rispetto allo stantio parlare a cui eravamo abituati e avere il coraggio in un momento come questo di parlare di ius soli spazza via molte delle giustificazioni che sono sempre state adottate, quando c’era altro a cui pensare, quando si aveva paura di prendere posizione, quando sembrava addirittura una bestemmia prendere di petto Salvini e le sue politiche. Nella nazione in cui si celebrano le arance perché italiane, le auto perché italiane, le magliette perché italiane gli unici italiani non italiani sembrano essere rimasti i bambini nati in Italia.

Anche il voto ai giovani di 16 anni è un tema che ha attraversato l’Europa e che solo qui da noi ci ha sfiorato da lontano solo qualche volta. Eccolo, è arrivato. Si può essere d’accordo o meno ma aprire un dibattito è doveroso. Anche sui giovani, come spesso accade, si ascoltano gli adulti dare lezioni e poco altro.

In una democrazia matura che i partiti (di qualsiasi colore) riescano a trovare una leadership all’altezza è l’auspicio di tutti, no? Quindi nella fase delle parole, che è la fase più facile, c’è da dire che Letta ha avuto il coraggio di osare.

C’è un piccolo particolare, però, tanto per non cadere in facili entusiasmi e l’ha raccontato benissimo ieri Civati in un’intervista a Repubblica. Dice Civati: «Sono almeno 10 anni che tutti i leader del Pd parlano di ius soli. Lo abbiamo fatto? No. La verità è che la sinistra nel Pd non c’è più, sono tutti democristiani. Non c’è la sostanza, non c’è il conflitto, è un partito di sistema. Io spero tantissimo che Letta l’abbia imparato e che riesca a rompere gli schemi».

Ecco, appunto.

Buon lunedì.

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Ora per Italia Viva il Mes “non è imprescindibile”: svelato l’inganno, Renzi voleva solo la testa di Conte

Ogni tanto conviene esercitare la memoria, anche quella più breve, anche in un momento di eccitazione politica, almeno per una questione di igiene intellettuale, perché ognuno possa giudicare senza farsi travolgere dalle mistificazioni.

Ieri Maria Elena Boschi, esponente di spicco dei renziani, ha dichiarato in scioltezza che Italia Viva non ha mai preteso il Mes: “Abbiamo sempre detto che non era per noi imprescindibile”, dice l’ex ministra. E tutti che fanno sì sì, senza nemmeno porre qualche domanda.

Badate bene: è la stessa Boschi che lo scorso 12 gennaio disse che Italia Viva aveva “chiesto al governo di prendere il Mes”. “Servono soldi per la sanità, non poltrone per noi”, diceva.

È lo stesso partito che il 13 gennaio, in piena crisi politica, disse per bocca del suo padrone Matteo Renzi: “Qual è il punto decisivo per la rottura? Tanti. Ma su tutti, il Mes. Noi chiedevamo più soldi per la sanità, attivando il Mes”.

Il 17 gennaio fu sempre Renzi, ospite di Lucia Annunziata, a dire: “Non voterò mai un governo che si ritiene il migliore del mondo e di fronte a 80mila morti non prende il Mes”.

E fu sempre Renzi che disse: “La mancata attivazione del Mes sarà pagata dai dottori, dai ricercatori, dai malati e dalle loro famiglie”.

E quindi? Quindi il punto centrale della rottura di Italia Viva con il Governo Conte nel giro di pochi giorni è diventato precipitosamente un’inezia su cui si può soprassedere senza nessun problema.

Per carità, non stupisce: in questa fase politica, sotto il nome della “responsabilità”, stiamo assistendo alle più inaspettate (e poco dignitose) acrobazie per giustificare inversioni delle proprie fedi politiche: i sovranisti sono diventati europeisti, i nemici delle banche si sono innamorati di un banchiere, gli appassionati dei programmi scritti hanno acceso una smisurata passione al buio, i cultori dei passaggi democratici si scocciano ad avere a che fare con questo Parlamento.

Ma una domanda, una, sorge spontanea: il Matteo Renzi che per settimane ci ha detto che non fosse un problema di nomi e di persone ma che tutto il suo agitarsi fosse figlio di un’irrefrenabile coerenza per i suoi contenuti politici cosa ci dice ora del Mes, di Arcuri che dovrebbe rimanere dov’è, del reddito di cittadinanza che probabilmente non verrà toccato e di un governo che nasce proprio su un nome, su una persona?

Perché altrimenti avrebbe potuto dire che il problema era Conte, solo Conte e la pazza idea di governare (ancora) con il centrodestra. La sincerità è una virtù. Lo diceva anche Confucio.

Leggi anche: La videolettera di Riccardo Bocca: Caro Draghi, lei è il medico del pronto soccorso ma è la politica che deve resuscitare

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Moltiplicano i pani, i pesci e i Salvini

Non serve nemmeno frugare troppo in giro per ritrovare ciò che pensava di Draghi Matteo Salvini fino a dieci minuti prima di diventare draghiano e europeista e addirittura così “responsabile” da chiedere per sé il Ministero dell’istruzione. Il 6 febbraio del 2017 diceva «L’euro non è irreversibile come sostiene Mario Draghi. Mi spiace ci sia un italiano complice della Ue che sta massacrando gli italiani e l’economia italiana». E quando qualcuno gli parlava dello spread e dell’Europa (che sarebbero tra i motivi che oggi hanno convinto il leader della Lega all’ennesima giravolta) disse letteralmente: «Noi vogliamo che l’Italia torni a scegliere, a decidere, a sperare nel futuro. Il ricattino dello spread lo abbiamo già visto 5-6 anni fa, non ci casca più nessuno. Non sono tre banchieri, tre massoni o tre finanzieri a tenere in ostaggio il popolo italiano». E, sempre nel 2017, quando fu Berlusconi a fare il nome di Draghi al governo (questo a dimostrare da quanto il nome di Draghi veleggi e da quei lidi fosse invocato) Salvini rispose: «Non se ne parla nemmeno. Mario Monti bis. E la fotocopia di Mario Monti non mi interessa».

Salvini dunque ha cambiato idea ed è vero che sono gli stupidi che non cambiano mai idea ma ci sono anche quelli che scambiano l’opportunismo per responsabilità e si impegnano in queste ore a esercitare una narrazione che vorrebbe convincerci che sia addirittura un privilegio avere un governo con “tutti dentro” come se la politica fosse davvero una livella che tiene tutti a cuccia, basta trovare l’uomo giusto per zittire. E questi strani frequentatori della democrazia che ritengono il ruolo dell’opposizione semplicemente come quelli “che sono stati fuori dal giro delle poltrone” incensano lo splendore di un governo in cui tutti diventano potabili, in cui tutte le idee accettano di essere piallate e in cui le differenze vengono dimenticate: sognano uno studio associato di segretari del commercialista da poter rivendere come Parlamento. È il loro obiettivo. Che la Lega in Europa si sia astenuta sul Recovery Fund nel dicembre del 2020, che abbia votato no ai Coronabond, no alla condanna di Putin per il caso Navalny (a settembre 2020) e tanto altro rientra semplicemente nelle “gag” leghiste che ora siamo disposti a tollerare.

Lo scriveva bene ieri il blog satirico Spinoza: «Non condivido le tue idee, ma mi batterò fino alla morte affinché tu possa farmi entrare nel tuo governo». E ora anche Salvini diventa uno statista poiché è stato bacchettato sulle dita da Confindustria e ha deciso di rimettersi a cuccia, ovviamente solo per il tempo di trovare uno spiraglio per scassare tutto appena i sondaggi gli diranno di andare a elezioni.

Qualcuno nel delirio di questa desertificazione che chiamano “responsabilità” in questi giorni tenta anche irresistibili confronti con il passato. Ieri proprio Salvini per giustificare il suo ingresso al governo ha tirato fuori il governo guidato da Alcide De Gasperi dal 10 dicembre 1945 al 14 luglio 1946 che teneva insieme Dc, Pci, Partito d’azione, Psiup, Pli e Partito del lavoro. Peccato che abbia dimenticato di dire che tutti quelli avessero lottato contro il fascismo e ne avessero subito la persecuzione. Ma anche l’antifascismo, se notate bene in giro, è un argomento “disturbante” per l’unità nazionale. Avanti così.

Ma il vero capolavoro politico sono quelli che esultano per l’operazione in corso che poi sono gli stessi che esultavano per la scorsa operazione politica “capolavoro” che ci avrebbe dovuto liberare da Salvini: il capolavoro, lo scrivevamo qualche giorno fa ora è Matteo che ha riabilitato Matteo. Segnatevelo: sono gli stessi che fra poco si stupiranno delle differenze che usciranno in Parlamento e le chiameranno intralci. Del resto qualcuno sogna da tempo una politica senza Parlamento, senza partiti, che semplicemente vada tutte le mattine sullo zerbino di Draghi per lasciare giù i voti e ritirare le comande.

Avanti così.

Buon lunedì.

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«Escort». E tutti giù a ridere

Su Rai Uno l’offesa pesante a una donna viene considerata goliardia?

Dunque Alan Friedman ospite della trasmissione Uno mattina mercoledì 20 gennaio per commentare l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, ha voluto regalarci una perla di maschilismo travestito da analisi politica dicendo: «Donald Trump si mette in aereo con la sua escort e vanno in Florida». Poi si è corretto, come si correggono i pessimi comici che non fanno ridere e ha detto «moglie».

La escort in questo caso era Melania Trump, moglie dell’ex presidente degli Usa. Si è levato giustamente un coro di indignazione ma poco, meno di come avrebbe dovuto essere. Perché? Perché in fondo offendere la compagna del proprio nemico politico è considerato meno grave per chi usa la difesa delle donne semplicemente come roncola, come l’ennesima arma da portarsi nell’agone politico.

Eppure offendere la moglie di un avversario per colpire lui è proprio un comportamento maschilista fatto e finito. Forse sarebbe il caso di difendere i principi e i valori indipendentemente dal fatto che ci tornino utili per attaccare quelli che non ci stanno a genio. Sì, è vero che fa ridere ascoltare Salvini che si indigna, proprio lui che ha portato sul palco una bambola gonfiabile paragonandola a Laura Boldrini. Ma questo non è il punto, ora. Il punto è difendere la dignità di Melania Trump, in quanto donna oggetto di attacchi maschilisti. Questo ci interessa.

Anche perché Friedman si è giustificato dicendo che non era una parola “voluta” e che stesse traducendo dall’inglese. «La parola che volevo dire era ‘accompagnatrice’», dice Friedman. Beh, caro Friedman, una moglie non è l’accompagnatrice del proprio uomo, non esiste solo in quanto portatrice dell’identità del suo marito o compagno. E poi sorge una domanda spontanea: Friedman è corrispondete dall’Italia dal 1983, davvero è ancora così indietro con la sua capacità di linguaggio? Dai, non scherziamo, su. Chiamare “gaffe” una frase sessista non si può sentire, no.

Ma andiamo avanti: la conduttrice rimprovera a Friedman la sua pessima uscita e lui dice che «Melania non è una vittima ma è razzista come Trump». Quindi il buon Friedman siccome voleva attaccare Melania Trump non le ha dato della razzista ma le ha dato della escort. Peggio di prima. Passano alcune ore e ieri Friedman scrive «ho fatto una battuta infelice, chiedo scusa». E niente, non riescono proprio a dire “ho fatto una battuta sessista e me ne scuso”. È più forte di loro.

Immaginate se quella stessa frase fosse stata rivolta alla moglie di Biden o peggio alla moglie di Obama: sarebbe scattato l’inferno. Dai, facciamo i seri e difendiamo i principi che vanno difesi senza farsi inquinare dal tifo. L’onestà intellettuale è una forma di rispetto per se stessi e in questo caso anche delle donne.

Buon venerdì.

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La sindaca della Lega arrestata perché negava aiuti alimentari ad anziani soli e stranieri

Se vi serve la rappresentazione plastica del leghismo nella sua forma già truce, quello che in nome dello slogan “prima gli italiani” in realtà mette per primi gli interessi personali egoriferiti di chi sdogana l’egoismo come rivendicazione politica, allora basta fare un giro a San Germano Vercellese, dov’è sindaca Michela Rosetta.

La sindaca Rosetta è una che era finita sulle pagine di cronaca per le solite crociate razziste che serpeggiano tra i salviniani, una che aveva deciso di vietare i giochi del parco della città ai figli degli extracomunitari (badate bene: solo gli extracomunitari) che non pagavano la retta della mensa.

Rosetta è agli arresti domiciliari, col suo vice e due addetti comunali, con l’accusa di falsità materiale e falsità ideologica in atto pubblico commessa da pubblico ufficiale, abuso d’ufficio e distruzione di beni sottoposti a vincolo culturale.

In sostanza le forze dell’ordine hanno scoperto che i soldi che avrebbero dovuto essere a disposizione per le derrate alimentari acquistate al Comune per lenire l’emergenza finivano a persone che non ne avevano bisogno (c’è da scommetterci, amichetti della suddetta sindaca), lasciando fuori invece alcuni anziani non autosufficienti e ovviamente gli stranieri.

Non solo: con quei soldi la sindaca e la sua cricca si compravano mazzancolle e capesante da portare a casa e consumare in famiglia. Perché, si sa, per loro “la famiglia” è tutto, soprattutto la loro famiglia.

A fare scattare le indagini è stata proprio una cittadina straniera in forte difficoltà economica che aveva denunciato il fatto di essere stata arbitrariamente cancellata dal registro degli aiuti (chissà perché anche questo non stupisce).

Tra le altre cose si è scoperto anche che la sindaca Rosetta avrebbe provocato un crollo di una porzione della facciata della chiesa (a proposito della religione che loro sventolano con presepi e crocifissi) per poterne giustificare poi la conseguente demolizione che tornava comoda per i piani della prima cittadina.

C’è dentro tutto: c’è la gestione egoistica della cosa pubblica per solleticare con un po’ di razzismo i proprio elettori e per riempire le pance della propria cerchia, c’è l’incapacità di rispettare le regole (proprio loro che gridano “ordine e disciplina”) per mungere soldi e occasioni, c’è la stortura di ritenere il proprio ruolo politico una possibilità di “pieni poteri” per fare ciò che gli pare.

E questi sono gli stessi che vorrebbero rivendersi come salvatori in questo periodo nero. Dai, anche no, grazie.

Leggi anche: L’assessore di FdI in Veneto canta “Faccetta nera” alla radio. C’è una destra ormai oltre la vergogna (di G. Cavalli)

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E gli amichetti di Trump?

Meloni e Salvini (e non solo loro) fischiettano facendo finta di niente, come se quello che è avvenuto negli Usa sia qualcosa che non li riguardi

Il giorno dopo l’assalto al Congresso Usa qui da noi si è assistito a un teatrino desolante ma significativo. Qualcosa che va raccontato perché se è vero che le violenze hanno un nome e un cognome, Donald Trump che istigato, lisciato e perfino ringraziato i manifestanti, è anche vero che gli amichetti di Trump, quelli che per 4 anni hanno fatto finta di non vedere questo tragico intercedere dello svilimento della democrazia che si professa la “più importante del mondo” sono desolanti nella loro vergogna.

Gli amichetti italiani di Trump fischiettano facendo finta di niente e intercedono come se quello che sia avvenuto negli Usa sia qualcosa che non li riguardi, sorridono alle telecamere parlando il più genericamente possibile e sperano di non essere visti mentre si infilano la testa sotto la sabbia.

Partiamo da un presupposto: gli accadimenti americani sono figli di un presidente che prima ha usato la rabbia e la violenza per racimolare voti, poi ha alimentato la rabbia e la violenza con un linguaggio e dei comportamenti della stessa pasta e rilanciando notizie false, poi l’ha condonata quando sono accaduti episodi condannabili nel suo Paese da parte dei suoi sostenitori, poi l’ha legittimata inventandosi nemici per giustificare i propri limiti di governo e infine l’ha istituzionalizzata cianciando di elezioni truccate senza nemmeno riuscire a raccogliere uno straccio di prova a supporto della sua tesi. Quelli hanno occupato i palazzi delle istituzioni perché si sentono loro stessi “istituzioni” sotto assedio. Era immaginabile che finisse così.

Ma in Italia? Giorgia Meloni lo scorso gennaio a proposito di Trump diceva che fosse «la ricetta che vogliamo portare in Italia». Ora che dice, al di là di quattro tweet sputati di circostanza in cui condanna la violenza dimenticandosi di nominare il violento? Matteo Salvini che diceva lo scorso 5 novembre «ha ragione Trump a chiedere controllino voto per voto, seggio per seggio e non escludo nulla. Vedrete che potranno esserci sorprese», che dice delle sorprese che ci sono state? Lui che diceva «vigileremo» che dice? Ma attenzione, non si tratta solo dei destrorsi che a Trump si rifanno in tutto e per tutto da anni. Che dice Di Battista, grande fan di Trump piuttosto che di «quelli golpista di Obama», come ebbe a dire? Davvero il presidente del consiglio Conte non riesce a infilare il nome di Trump nei suoi comunicati di preoccupazione? Vi ricordate Beppe Grillo che diceva che Trump e il M5s avessero “delle similitudini” celebrando l’elezione di Trump a presidente?

La leadership si misura anche nella capacità di fare i nomi e i cognomi. Non è difficile. «Trump ha responsabilità in quanto accaduto» ha detto ieri la Merkel. Perfino il presidente della Ligura Toti e il braccio destro di Giorgia Meloni ci sono riusciti. Dai, sforzatevi, su.

Buon venerdì.

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Il piano piano vaccinale di Gallera

La Lombardia è in fondo alla classifica nella vaccinazione anti Covid: è stato usato solo il 3% dei vaccini a disposizione. E l’assessore alla Sanità della regione più martoriata dalla pandemia spiega che gli operatori sanitari sono in ferie e annuncia 10mila vaccini al giorno. Ma gli abitanti sono 10 milioni

Io un giorno, per qualche ora soltanto, vorrei affittare un angolo della testa di Gallera, sedermi in disparte in qualche angolo e ascoltare quello che ci ronza dentro, sentire quel turbinio di pensieri che spinge l’assessore alla Sanità della regione più martoriata dalla pandemia a rilasciare interviste che sembrano elaborati copioni di un teatro dell’assurdo, frasi che abbatterebbero in un attimo la carriera politica di chiunque e invece lui, Gallera sempre in piedi, continua impunemente a sfoderare assurdità una dopo l’altra e non si muove una foglia, non viene mai messo in discussione.

Partiamo dall’inizio: arriva il virus e la Lombardia esplode. Eravamo all’inizio dell’anno scorso e Gallera ci spiega che la Lombardia ha numeri così alti perché è stata la regione “più colpita”. La giustificazione, per quanto fosse superficiale, poteva anche starci: peccato che a livello di contagiati (con il 22% dei casi nazionali) e di deceduti (ben il 33%) la Lombardia abbia continuato e continui a svettare. Insomma, l’effetto “sorpresa” ormai non regge più come scusa. Poi ci sono stati i pessimi risultati della medicina generale e delle Rsa, storie piene di dolore e di lutti che hanno attraversato tutti i quotidiani per mesi. Poi c’è stato il fallimento del tracciamento e dei tamponi, con lombardi che si sono ammalati e dopo mesi non hanno nemmeno un tampone che lo certifica. Poi ci sono i numeri disastrosi della campagna vaccinale antinfluenzale: al momento attuale siamo a 1 milione e 135mila vaccini su una popolazione di 2.302.527 persone, con una percentuale del 49,32 per cento ben lontana dall’obiettivo prefissato e addirittura inferiore a quella dello scorso anno quando venne vaccinato il 49,8 per cento della popolazione over 65. Peggio ancora per i bambini dai 2 ai 6 anni: l’obiettivo era vaccinarne il 50% e siamo al 16,72 per cento del totale, con picchi verso il basso dell’8,23 per cento nella zona di Pavia e del 9,58 per cento a Brescia.

Ora ci sono i numeri sconfortanti della campagna vaccinale anti Covid: la Lombardia svetta, come al solito, in fondo alla classifica con un vergognoso 3% sui vaccini consegnati. E qui Gallera si erge a livelli impensabili. Ci spiega che i suoi operatori sanitari sono in ferie (come se il piano ferie in Lombardia fosse diverso, chissà perché, da quello delle altre regioni), ci dice che non vuole bloccare “interi reparti per eventuali reazioni allergiche” (buttando lì a caso un po’ di allarmismo di cui non si sa niente e non si hanno evidenze), poi rantola su un’eventuale mancanza di siringhe (ma come? E le altre regioni?) e infine si supera affermando: «Agghiacciante una simile classifica. Per non parlare di quelle regioni che hanno fatto la corsa per dimostrare di essere più brave di chissà chi. Noi siamo una regione seria. Partiamo domani con 6000 vaccinazioni al giorno nei 65 hub regionali. I conti facciamoli tra 15 o 20 giorni».

In sostanza nella testa di Gallera il Veneto, Lazio e tutte le altre regioni che stanno facendo meglio si sarebbero messe d’accordo bisbigliando e dandosi di gomito solo per fargli fare una brutta figura. Infine, convinto di calare l’asso, ci dice che la Lombardia a pieno regime riuscirà a fare 10mila vaccinazioni al giorno. Campa cavallo: con 10 milioni di abitanti il calcolo viene semplice semplice, tenendo conto che di vaccini per ogni persona ne vengono fatti due, basterebbero 2mila giorni. In Israele, 9 milioni di abitanti, solo per fare un esempio, sono a 150mila vaccini al giorno.

Sarebbe una tragicommedia se non ci fossero di mezzo però tutti questi morti, questi contagi che ora tendono a risalire, questo futuro che appare ancora nero. Ma davvero, sul serio, lo dico anche ai leghisti che sostengono questo governo in Lombardia, cosa altro serve? Cosa, ancora?

Buon lunedì.

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Qualcuno morirà, pazienza

La frase choc del presidente di Confindustria Macerata, secondo cui l’economia viene prima della vita delle persone, indica senza i soliti giri di parole ciò che pensa una buona fetta dell’imprenditoria italiana

Intervenendo all’evento “Made for Italy per la moda” l’imprenditore e presidente di Confindustria Macerata Domenico Guzzini ha detto, in uno stentato italiano: «Ci aspetta un Natale molto magro, stanno pensando di restringere ulteriormente. Questo significa andare a bloccare un retail che si stava rialzando per la seconda volta dalla crisi e lo stanno mettendo nuovamente in ginocchio. Io penso che le persone sono un po’ stanche e vorrebbero venirne fuori. Anche se qualcuno morirà, pazienza. Così diventa una situazione impossibile, impossibile per tutti».

Insomma, se muore qualcuno, pazienza, dice Guzzini, riuscendo nella mirabile impresa di dire piatto piatto, senza i soliti giri di parole e senza troppe edulcorazioni quello che pensa una buona fetta dell’imprenditoria italiana. Tra salute e profitto il profitto vince, il profitto interessa, il profitto conta.

Inquietante anche il tentativo di difesa di Claudio Schiavoni, presidente di Confindustria Marche che dice testualmente: «Non scuso le affermazioni di Guzzini, ma dico che oggi anche gli imprenditori sono sotto stress perché, comunque, stiamo portando avanti la carretta, stiamo facendo di tutto e di più per tenere in piedi le nostre aziende e quindi, ripeto, non giustificando queste parole, dico che in momenti di tensione si possono anche dire cose che uno non pensa, magari anche preso dalla foga o inserito in un altro discorso». In sostanza questi imprenditori, poveretti, si fanno prendere dalla foga e inciampano sui morti. C’è da capirli, eh.

Ma alla domanda “come siamo potuti arrivare fino a qui?” c’è una risposta semplice semplice: accettando anche solo di mettere sullo stesso piano salute e profitto, perdendo il senso dell’indecenza di fronte a chiunque usi questa bilancia. Come se avessimo perso il senso della misura. E così nel momento in cui abbiamo accettato la contrapposizione tra le due cose abbiamo sdoganato le vittime collaterali del fatturato, quelli che in questi mesi sono andati in fabbrica, sui mezzi pubblici, nei supermercati. Abbiamo accettato che ci fossero vittime collaterali. Non è mostruoso?

Accade da anni e noi non siamo ancora riusciti a mettere in discussione il nocciolo del discorso. Che è un nocciolo sbagliato. E ci convincono che debba per forza andare così.

Buon mercoledì.

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A proposito di fiducia e di vaccini

Vale la pena di leggere le parole del professor Andrea Crisanti sui «dati di efficacia e di sicurezza» da mettere a disposizione della comunità scientifica

C’è, com’è normale che sia, un gran chiasso intorno ai vaccini anti Covid che stanno arrivando nei prossimi mesi in giro per il mondo. Nel numero di Left in edicola ne parliamo approfonditamente e proviamo a analizzare la situazione uscendo dagli steccati degli annunci e dei complotti (a proposito, è l’occasione buona per regalarsi e regalare un abbonamento, qui) e siamo in quel momento in cui i complottisti e i tifosi tireranno le bombe per minare la credibilità di ciò che accade. Un film già visto.

Nei giorni scorsi si è fatto molto chiasso su una presunta dichiarazione di Crisanti che avrebbe dichiarato di non volersi vaccinare subito, appena disponibile il vaccino, ma di preferire aspettare qualche tempo per esserne sicuro. Ammetto di essere rimasto piuttosto stupito della leggerezza della comunicazione (del resto si pone il solito tema dei medici che spesso hanno più di qualche falla come divulgatori) ma proprio ieri Crisanti ha voluto tornare sul tema e ha scritto parole che vale la pena leggere. In una sua lettera al Corriere della Sera puntualizza di volere «i dati di efficacia e di sicurezza» vengano «messi a disposizione della comunità scientifica» e «delle autorità che ne regolano la distribuzione». Crisanti fa notare, in effetti, le modalità di annuncio delle case di produzione che si sono concentrate sui proclami senza occuparsi «di condividere i dati con la comunità scientifica». «Se le aziende in questione – scrive Crisanti – sono in possesso di informazioni che giustificano annunci che possono apparire rivolti in particolare ai mercati finanziari, queste devono essere rese pubbliche anche in considerazione del fatto che la ricerca è stata finanziata con quattrini dei contribuenti»·

La credibilità e la fiducia è qualcosa che si costruisce operando con trasparenza. Sempre. In tutti i campi. Il fatto che si aspetti (giustamente) un vaccino come un popolo assetato aspetta la pioggia non può essere l’unica spinta per proporlo. E sui dati che devono essere pubblici si discute da mesi anche per quello che riguarda i contagi e le modalità del contagio, che ogni regione gestisce un po’ come gli pare. Su un tema come questo si dovrebbe limitare il più possibile la richiesta di atti di fiducia (e talvolta di fede) e giocare a carte scoperte. Sarebbe la risposta migliore e più solida contro negazionisti e altre corbellerie varie. È un filo sottile, la fiducia.

Buon martedì.

Per approfondire, Left del 20-26 novembre 2020

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Azzolina ha ragione: riaprire tutto ma tenere chiuse solo le scuole è semplicemente assurdo

Si parla di tutto. Regali, negozi, centri commerciali, cenoni, spostamenti, virgole per descrivere chi siano i congiunti abbastanza congiunti e quando ci si può spostare e dove: la discussione che si infiamma sul Natale finge di volere essere parareligiosa e invece si fionda sui modi per permettere di spendere soldi, di incassare soldi, di spostare soldi. Per carità, va bene anche così: i soldi sono lavoro e sopravvivenza di alcune attività (ma siamo sicuri che poi non finiscano nelle tasche dei soliti noti che da questa pandemia ci hanno pure guadagnato?) ma ciò che stupisce, o forse non stupisce più nemmeno, è che dal dibattito sia scomparsa ancora una volta la scuola. Ancora.

Qualcuno timidamente prova a ricordarlo (il coordinatore del Comitato tecnico scientifico Agostino Miozzo lo ripete da giorni) e la ministra Azzolina prova a insistere, ma niente. Badate bene: l’apertura delle scuole non è un vezzo italiano, no: le maggiori organizzazioni delle Nazioni Unite come Who, Unesco e Unicef, oltre che le decisioni di Paesi come Francia, Regno Unito e Germania concordano sul fatto che l’apertura delle scuole sia un obbligo da perseguire con cura e attenzione, un bisogno primario per tenere in piedi la salute e lo sviluppo delle generazioni di ragazzi, un dovere di Stato per evitare gravi ripercussioni psicofisiche, sociali e culturali su intere generazioni che in questa pandemia sono retrocesse nella lista delle priorità.

Andare a scuola non significa semplicemente prendere parte a una lezione, andare a scuola significa spesso vivere il momento più importante di formazione e di socialità per crescere nella propria identità. Eppure le scuole continuano a essere trattate come un disturbo burocratico a cui tendere poco la mano, qualcosa di sacrificabile in nome dell’economia che si deve muovere e deve crescere. Se davvero la preoccupazione è la salute dei cittadini (nel senso più ampio del temine) allora viene difficile giustificare un lockdown generalizzato in cui tutti si spostano, per lavoro, mentre i ragazzi rimangono confinati in un limbo.

Si parla delle riaperture prossime per fare cassa e la scuola scivola forse all’11 gennaio. Quando forse poi ci diranno che gli acquisti compulsivi natalizi hanno riacceso la terza ondata e si tornerà al punto di partenza. E in tutto questo fluire di previsioni continua a mancare il danno, grave e difficilmente reversibile, di chi, insieme agli anziani, vive tutto questo come una forzata clausura: i giovani. “I dati ci dicono che i contagi in età scolastica non sono significativamente diversi da quelli di altre classi di età e non abbiamo evidenze per capire se siano avvenuti a scuola o fuori”, dice Miozzo. Ma sembra non interessare a nessuno.

Leggi anche: 1. “In Puglia rischiamo una nuova Bergamo, dovremo scegliere chi intubare”: parla il presidente dei rianimatori / 2. Crisanti a TPI: “A mettere in dubbio il vaccino è il Ceo di Pfizer che vende le sue azioni, non io”/ 3. Esclusivo TPI. Tutti chiusi in casa, ma non l’ordine dei medici di Roma. La denuncia: “Ci sono le elezioni e il presidente vuole far votare 43mila colleghi in presenza”

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