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Grecia

Rifugiati, dove è la crisi? L’Italia ultima nell’accoglienza tra i big d’Europa

Sono piccoli dettagli ma torneranno presto a essere argomenti. Mario Draghi ha parlato poco, pochissimo, quasi niente di immigrazione se non in una sua replica al Senato lo scorso 17 febbraio e di sfuggita in qualche suo discorso con la solita retorica di un sovraccarico di rifugiati che pesa sull’Italia, eppure appena si placherà la discussione sulla pandemia la politica nostrana si incaglierà ancora lì, c’è da scommetterci. Matteo Salvini, parlando del suo rinvio a giudizio a Palermo per il caso della nave Open Arms, ha già messo il tema sul tavolo annunciando la sua intenzione di confrontarsi con la ministra Lamorgese per “cambiare registro”.

Draghi per formazione professionale e per forma mentis dovrebbe essere un uomo che ragiona sulla base dei numeri e allora conviene ripassarle le cifre di una crisi che non esiste: in Italia ci sono 3,4 rifugiati ogni 1000 abitanti, in Svezia sono 25 ogni 1000, 134 in Germania e 6 in Francia. Queste sono le proporzioni, tanto per capire di cosa stiamo parlando. I dati sono contenuti in una ricerca pubblicata da Eurostat che si riferisce alle richieste di asilo nei Paesi europei nel 2020 e il risultato piuttosto sorprendente rispetto alla retorica da cui siamo circondati dice che l’Italia, con 26.535 domande, sia addirittura all’ultimo posto nell’accoglienza di migranti tra gli Stati più grandi, perfino dietro alla Grecia che, nonostante abbia una popolazione pari a un sesto dell’Italia (e un Pil pari a un decimo del nostro) ha ricevuto 40.560 domande nell’anno appena passato.

La Germania, ad esempio, che viene indicata spesso in Europa come la nazione che “scarica” i rifugiati sugli altri Paesi mettendoli in difficoltà, è la meta privilegiata dei migranti in Europa avendo ricevuto il 20% delle richieste totali. Seguono Francia e Spagna, rispettivamente con 93.475 e 88.525 rifugiati, mentre il Regno Unito con 31.410 domande si pone alle spalle della Grecia e precede l’Italia. Se teniamo conto delle dimensioni dei Paesi risultano sorprendenti anche i dati di Belgio, Svezia e Olanda che hanno circa 15.000 domande ciascuno, sono 13.640 per l’Austria e 11.540 per la Svizzera. Cipro, con una popolazione totale che non raggiunge i 900 mila abitanti ha ricevuto 7.000 richieste di asilo.

Ma se rapportiamo il numero di richieste al numero di abitanti la situazione diventa ancora più lampante: per l’Italia siamo allo 0,04% rispetto allo 0,14% di Svizzera e Francia, lo 0,15% di Germania, Belgio, Austria e Svezia, lo 0,19% della Spagna, lo 0,37% della Grecia e addirittura lo 0,79% di Cipro. L’Italia insomma è uno dei Paesi europei che nel 2020 ha accolto meno richiedenti asilo. Sono numeri da tenere portata di mano, appuntarsi su un foglio da tenere in tasca, almeno per evitare le intossicazioni di un tema che non riesce mai ad essere discusso senza diventare bieca propaganda. E di sicuro il presidente del Consiglio, che da sempre usa i numeri per costruire la sua visione di mondo, non cadrà nella tentazione di valutare un’emergenza in base al volume degli strilli. Speriamo.

L’articolo Rifugiati, dove è la crisi? L’Italia ultima nell’accoglienza tra i big d’Europa proviene da Il Riformista.

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Perché von der Leyen ha incontrato Erdoğan, esecutore materiale della folle politica europea

Fa ancora discutere la sedia non concessa alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen mentre il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel invece si godeva il suo posto d’onore con il sultano turco Recep Tayyip Erdoğan. Quello sgarbo è stata anche l’occasione di ricordare al mondo come il leader turco stia progressivamente fiaccando i diritti delle donne nel suo Paese, partendo da quel 2016 in cui disse che le donne fossero “da considerarsi prima di tutto delle madri”, relegandole al loro medievale scopo riproduttivo e poi fino ai giorni scorsi in cui il suo governo ha annunciato tronfio il ritiro dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

In Turchia tra l’altro si contano in media circa due femminicidi al giorno e le donne, complice anche la pandemia, hanno sempre minor accesso al mondo del lavoro e alla politica. Insomma, quello sgarbo ha radici profonde e ben venga quella sedia che è mancata per ricordarcelo. Nella discussione generale però sembra scomparso il motivo per cui l’Ue ha scelto di incontrare Erdoğan e il fatto non è secondario perché il sultano turco evidentemente può permettersi certi atteggiamenti, forte del suo ruolo internazionale. Allora bisognerebbe avere il coraggio di dirlo, di scriverlo che Erdoğan altro non è che l’esecutore materiale della folle politica europea che ha delegato alla Turchia l’esternalizzazione delle frontiere europee per controllare il flusso migratorio in modi anche poco leciti.

Nel 2016, in piena crisi migratoria, Bruxelles, su spinta soprattutto della Germania, ha firmato un accordo che garantiva 6 miliardi di euro alla Turchia per trattenere i migranti nei propri confini (si stima che siano almeno 4 milioni di persone) e grazie a quell’accordo tutti i migranti irregolari che arrivavano sulle isole greche attraverso il confine turco sono stati riportati in Turchia. Quei soldi hanno lo stesso odore di quelli che arrivano alla cosiddetta Guardia costiera libica (sì, proprio quella che Draghi ha blandito pochi giorni fa) per fare da tappo in Africa. Soldi che rendono ancora più forti governi che non hanno nulla di democratico e che non hanno nulla da spartire con i valori europei eppure tornano utili per essere i sicari dell’Unione europea. C’è qualcosa di più di quella sedia che manca. Giusto un anno fa, a marzo del 2020, Erdoğan ha ricattato l’Europa sulla gestione dei flussi per alcune partite geopolitiche come quella siriana e per reclamare altri soldi.

La Grecia aveva denunciato la Turchia di “spingere” verso la sua frontiera i migranti e alla fine l’Ue per garantire la propria “fortezza” ha deciso di continuare a foraggiare la Turchia: la presidente garantisce «la continuità dei fondi. E se la Turchia rispetta gli impegni, previene le partenze, prevede i rientri dalla Grecia, i fondi Ue garantiranno ancor più opportunità», dice la nota ufficiale. Del resto già a settembre Bruxelles aveva inserito un passaggio significativo nella sua proposta su asilo e immigrazione scrivendo nero su bianco che lo stanziamento di fondi alla Turchia «continua a rispondere a bisogni essenziali. Essenziale sarà perciò che l’Ue dia alla Turchia un sostegno finanziario continuativo». Su quella stessa linea si è assestato anche Mario Draghi che fin dal suo primo discorso pubblico a febbraio disse che gli accordi per esternalizzare le frontiere (che tradotto significa pagare anche Erdoğan) erano fondamentali per controllare l’immigrazione.

Da tempo diverse organizzazioni umanitarie, tra cui anche Amnesty International, giudicano la politica europea sulle frontiere disumana oltre che totalmente fallimentare eppure nessuno è mai riuscito a mettere in discussione questo modello che si annuncia valido anche per il futuro. Ad Ankara l’Ue ha manifestato anzi la volontà di rafforzare i legami economici con la Turchia, ha concesso la revisione del sistema di visti in ingresso nell’Ue e un’unione doganale per favorire il passaggio delle merci. Quando a von der Leyen è stato chiesto dei diritti calpestati in Turchia la presidente ha risposto: «I diritti umani non sono negoziabili. Vorremmo che la Turchia rivedesse la decisione di uscire dalla convenzione di Istanbul e che rispettasse i diritti umani». Insomma, siamo alle raccomandazioni per quanto riguarda il rispetto dei diritti e ai soldi fumanti invece per contenere i disperati. Forse se Erdoğan fa il bullo non è solo colpa sua.

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Ora basta: dichiarate Forza Nuova fuorilegge, e lasciate le piazze a chi soffre e protesta civilmente

A Bari il segretario provinciale di Forza Nuova, fra gli organizzatori della manifestazione di protesta cittadina, ha messo alla gogna una giornalista di Repubblica. Sulla vicenda sta già indagando la Questura. A Palermo il leader locale di Forza Nuova, Massimo Ursino, lancia la manifestazione di oggi con messaggi bellici: “Se questo governo ispirato da poteri anti-popolari ed anti-nazionali come l’Oms, ci trascinerà alla rovina ed alla guerra sociale, sappia che troverà il popolo italiano pronto a combattere strada per strada, piazza per piazza”.

In Piazza del Popolo a Roma Roberto Fiore e Giuliano Castellino, leader nazionale e locale del movimento, erano nel gruppo che ha lanciato bombe carta e che è stato disperso con gli idranti della polizia. A Milano tra i 28 denunciati ci sono persone vicine a Forza Nuova. A Torino si parla di ultrà che il questore definisce sotto la “regia di professionisti della violenza”. A Napoli qualche giorno fa, si sa, Forza Nuova era in piazza e il leader Roberto Fiore ha lanciato l’attacco direttamente dai suoi profili social. Dove le proteste sono sfociate in violenza i militanti di Forza Nuova, come le sue figure apicali territoriali, sono sempre stati presenti e addirittura hanno rivendicato la guerriglia.

Del resto è tipico della loro matrice fascista: rivendicare l’uso della forza è l’unico modo per alzare la voce e farsi notare. Parliamo di un partito che è riuscito a farsi cancellare da Facebook e Instagram perché, lo ha scritto proprio il social network, “le persone e le organizzazioni che diffondono odio” non possono essere presenti sulle sue piattaforme. Parliamo di un segretario di quello che vorrebbe essere un partito, come Roberto Fiore, che è stato condannato per banda armata e associazione sovversiva come capo di Terza posizione, l’organizzazione che alla fine degli anni Settanta ha riunito alcuni dei criminali più violenti della destra eversiva.

Un partito denunciato 240 volte per violenza dal 2011 al 2016. Quattro volte al mese. E allora la domanda è sempre la stessa, in questi giorni ancora di più: ma cosa si aspetta a sciogliere i partiti neofascisti che in Italia sono vietati dalla Costituzione? Cosa si aspetta a prendere l’esempio dalla Grecia con Alba Dorata e dichiarare fuorilegge un partito che in questi giorni sta giocando sulla disperazione con la violenza? Cosa?

Leggi anche: 1. Roma, violenti scontri in piazza del Popolo durante la manifestazione contro il Dpcm | FOTO E VIDEO / 2. Poi però non vi meravigliate se la gente comune impoverita scende in strada a protestare

L’articolo proviene da TPI.it qui

Il fascismo non esiste. Miliardesima puntata

Alba Dorata, il partito greco di estrema destra, con il leader ammiratore di Hitler, è un’organizzazione criminale. Lo ha dichiarato il Tribunale di Atene con una sentenza epocale

Brutta fine gli amici neofascisti di Alba Dorata, il partito di estrema destra greco che è arrivato a essere addirittura la terza forza politica del Paese e che ieri, con una sentenza epocale e che dovrebbe essere un monito per tutti, è stato dichiarato a tutti gli effetti un’organizzazione criminale. Sono ben sette gli ex deputati, tra cui anche il leader Nikos Michaloliakos che sono stati giudicati boss dediti all’organizzazione e alla gestione di un’organizzazione criminale che si è travestita da forza politica e che è riuscita addirittura a prendere una caterva di voti. Anche per gli altri ex parlamentari non è finita bene visto che sono stati condannati comunque per avere “partecipato” alla banda. Giorgos Roupakias, membro del partito, è stato condannato per l’omicidio del rapper antifascista Pavlos Fyssas nel 2013, l’evento che ha di fatto aperto le indagini.

Forse conviene anche ricordare che durante il processo (68 le persone processate) si è anche valutata la serie di violenze che sono state perpetrate nel corso degli anni, centinaia di aggressioni ai danni di attivisti antifascisti, di immigrati, di esponenti di sinistra, di omosessuali. Membri di Alba Dorata erano già stati giudicati colpevoli per l’uccisione ad Atene di un fruttivendolo pakistano, Ssazad Lukman, nel gennaio 2013. L’organizzazione è accusata anche del tentato omicidio di Abouzid Embarak, un pescatore egiziano, nel giugno 2012.

«Giornata storica per la giustizia in Grecia e in Europa: il leader e altri sei alti funzionari di Alba Dorata (ex parlamentari) dichiarati colpevoli di far parte di un’organizzazione criminale. La violenza razzista e i crimini d’odio non possono e non devono più essere tollerati», ha scritto Amnesty International.

Forse conviene anche ricordare che durante il processo per difendersi Michaloliakos, 62 anni, negazionista dell’Olocausto e ardente ammiratore di Hitler, ha descritto Alba Dorata come un partito patriottico.

Forse vale anche la pena ricordare che il processo tenuto in Grecia è di fatto il più grande processo contro un partito di ispirazione fascista dai tempi del processo contro i nazisti a Norimberga dopo la Seconda guerra mondiale.

Questo per tutti quelli che dicono che “il fascismo non esiste”. Qui siamo alla miliardesima puntata, più o meno.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

«Non si parla più della malattia di mia madre, perché la malattia sono io»

(Se volete leggervi uno dei migliori pezzi scritti di questi tempi ecco Paul B. Preciado)

Torno nella città dove sono nato per fare compagnia a mia madre, costretta a restare qualche giorno in ospedale dopo un’operazione. Questa città della Castiglia, dove corpi umani vagano avvolti da pellicce di animali che non hanno mai vissuto in questa regione e in cui le finestre delle case sono decorate con bandiere spagnole, mi spaventa.

Mi dico che la pelle degli stranieri finisce con l’essere trasformata in cappotti, e che la pelle di quelli che sono nati qui si trasforma da un giorno all’altro in una bandiera. Passiamo i giorni e le notti nella camera 314. L’ospedale è stato ristrutturato di recente, ma mia madre ripete che questa stanza le ricorda quella in cui mi ha partorito. A me, proprio perché non mi ricorda niente, questa stanza di ospedale sembra più accogliente della mia casa natale, più sicura delle strade dello shopping, più festiva delle piazze con le chiese.

La mattina, dopo la visita di routine del dottore, esco a prendere un caffè. In questo ospedale, situato in una zona deserta, non c’è una caffetteria. Cammino lungo il fiume Arlanzón fino al bar più vicino, in un freddo luminoso che i castigliani chiamano “sole con le unghie”. Respiro un’aria gelida, pulita, come un getto di vapore compresso che punta l’angoscia che nascondo nel petto.

La sedia assegnata
Essere il figlio trans di una famiglia cattolica spagnola di destra non è facile. Il cielo castigliano è chiaro come quello di Atene, ma in Grecia è di un blu cobalto. Qui è d’acciaio. Ogni mattina esco fuori e desidero non tornare più. Disertare la famiglia come si diserta la guerra. Ma non lo faccio. Torno in ospedale a occupare la sedia da parente stretto che mi è stata assegnata. A cosa serve che la ragione avanzi se il cuore resta indietro, diceva Baltasar Gracián.

In ospedale, da mezzogiorno alle otto di sera, si alternano le visite. Questa camera si trasforma in una scena di teatro pubblico in cui io e mia madre lottiamo, non sempre con successo, per ristabilire i ruoli. Quando deve presentarmi, mia madre dice: “Lui è Paul, mio figlio”. La risposta è sempre la stessa: “Pensavo che avessi solo una figlia”. A quel punto mia madre dice, alzando gli occhi al cielo e cercando di immaginare una scappatoia a questa impasse retorica: “Sì, avevo solo una figlia e ora ho un figlio”. Uno dei visitatori deduce: “Ah, è il marito di tua figlia? Non sapevo che fosse sposata, congratulazioni…”.

Mia madre capisce di aver commesso un errore strategico e si affanna come chi cerca di riavvolgere freneticamente il filo di un aquilone volato già troppo in alto: “No, no, non è sposata, è mia figlia…”. Poi tace per un istante, durante il quale smetto di guardarla. “Mia figlia ora è mio figlio”. La sua voce disegna una cupola di Brunelleschi che si innalza per dire “figlia” e precipita per dire “figlio”.

Non è facile essere la madre di un trans in una città dove avere un figlio queer è peggio che avere un figlio morto. Allora, gli occhi del visitatore schizzano in tutte le direzioni, prima di rispondere con un piccolo sospiro.

Non è facile essere la madre di un trans vivendo in una comunità di sostenitori dell’Opus Dei

A volte sorrido: mi sento come un Louis de Funès in un film di fantascienza. Altre volte sono sopraffatto dallo stupore. Non si parla più della malattia di mia madre, perché la malattia sono io. Non è facile essere il figlio di una famiglia cattolica convinta che Dio non sbaglia mai.

Azioni e pensieri rasserenanti
Decidere di cambiare qualcosa significa contraddire Dio. Mia madre ha rinnegato la dottrina della chiesa. Dice che una madre è più importante di Dio. Continua ad andare a messa la domenica, ma ci va per fare i conti con l’aldilà, e la chiesa non deve immischiarsi. Lo dice a bassa voce, sa di essere blasfema. Non è facile essere la madre di un trans vivendo in una comunità di sostenitori dell’Opus Dei. Mi sento in debito verso mia madre perché non sono e non posso essere un buon figlio per lei.

Quando le sollevo le gambe per favorire la circolazione del sangue mi dico che sono più bravo come badante che come figlio. Quando aggiorno le app del suo telefono, riorganizzo lo schermo e installo nuove suonerie mi dico che sono meglio come tecnico informatico che come figlio. Mentre le acconcio in capelli in uno chignon e aumento il volume della pettinatura sopra la fronte mi dico che sono meglio come parrucchiere che come figlio. Quando scatto qualche foto per inviarla ai suoi amici che hanno superato gli ottant’anni e non possono venire a farle visita mi dico che sono meglio come fotografo che come figlio.

Sono meglio come garzone che come figlio. Sono meglio come compilatore dei suoi video preferiti di Rocío Jurado su YouTube che come figlio. Sono meglio come lettore del giornale locale che come figlio. Sono meglio come piegatore di vestiti che come figlio. Sono meglio come pulitore del bagno che come figlio. Sono meglio come infermiere notturno che come figlio. Sono meglio come aeratore della stanza che come figlio. Sono meglio come cercatore di chiavi perse in fondo alla borsa che come figlio. Sono meglio come distributore di pillole che come figlio. Sono meglio come fotocopiatore di documenti per la previdenza sociale che come figlio.

E tutte queste cose – curare, acconciare i capelli, riparare computer e telefoni, scaricare video, trovare chiavi, fare fotocopie – mi calmano i pensieri e mi rasserenano.

(Traduzione di Andrea Sparacino, fonte Internazionale)

Tre brevi racconti d’estate (di Yanis VAROUFAKIS)

Si vede che la fregola dei racconti, quando si tratta di piena estate, alla fine prende un po’ tutti. Più o meno è la stessa cosa che abbiamo pensato in redazione a LEFT quando abbiamo deciso di dedicare al racconto il nostro numero straordinariamente quindicinale (a proposito potete comprarlo in digitale qui oppure nella vostra edicola). E le storie dell’ex ministro greco (che sono piccole e che sono tre) raccontano anche un Paese. La traduzione è del blog EssereSinistra. Eccoli qui:

di Yanis VAROUFAKIS

Da bambino, ero affascinato dai racconti di mia madre, e di sua madre, del 1940, e in particolare dalle loro storie di vita sotto l’occupazione nazista. Forse non è un caso che i libri per bambini di una volta sono pieni di racconti macabri di omicidi, smembramenti e orrori assortiti.

La maggior parte di quei racconti erano disperati tentativi da parte delle donne della mia famiglia di trasmettere a un giovane, bambino viziato l’orrore  delle loro esperienze, il valore del pane, la memoria della solidarietà e della capacità di resistenza in un ambiente di schifo e paura opprimente.

L’inverno del 1941 era così impresso nella mia mente, quasi completamente con le immagini in bianco e nero, che il racconto di mia madre aveva prodotto, di carri trainati da cavalli che facevano il loro giro mattutino per le strade di Atene, raccogliendo i cadaveri di coloro che erano morti di fame la notte prima. Fuori da questo drappo di dolore, spuntava un racconto.

Ciò che rendeva questo particolare racconto un qualcosa che si conficcava nella mia mente non era un atto di eroismo poco appariscente o un tradimento indicibile (ce ne erano un sacco in quelli delle altre storie), né una tragedia che la mia mente giovane aveva trovato particolarmente atroce.

No, era un semplice racconto di una settimana passata su qualche spiaggia del Peloponneso, nell’estate del 1943. Mia madre era stata malata di tubercolosi e mia nonna pensava che sarebbe d’aiuto se avesse trascorso qualche tempo vicino l’acqua di mare, lontano dal pozzo nero di dolore e malattia che era Atene occupata. Le storie liriche di mia madre dei piccoli piaceri che hanno apprezzato su quella spiaggia soleggiata, nonostante le loro pance vuote e il buio che avvolgeva la nazione, ha assunto un significato immaginario della mia infanzia che è ancora con me.

Agosto 2013. Sto trascorrendo, mentre scrivo questo, gli ultimi giorni di estate, prima di tornare negli Stati Uniti, a Egina – la nostra isola santuario greco. Non è il 1941, non è il 1943. Il ronzio dei ristoranti è il consueto ronzio di mezza estate, il mare è blu come non mai, i traghetti trasportano i turisti fugaci. E tuttavia, la Grecia è nella morsa di una calamità che chi ha vissuto il 1940 pensava che non avrebbe mai dovuto vivere di nuovo. Ma devo desistere. Questo non è il posto per analisi e argomentazioni in relazione alla nostra catastrofe greca contemporanea. Questo è un pezzo di brevi racconti estivi. Quindi, mi permetto di raccontarvi tre storie del genere.

Confisca

Dimitri è un costruttore di imbarcazioni a Egina che fa un lavoro di manutenzione e cura di piccole imbarcazioni. E’ l’angelo custode del nostro zodiaco, di noi che che ormeggiamo al porto di Egina accanto al suo magnifico motoscafo; un super slick, nave di 8 metri super-veloce che i suoi magri guadagni non avrebbero mai potuto comprargli e che lui ha effettivamente costruito con le proprie mani. Ieri l’ho incontrato sulla banchina. Meno gioviale del solito, il suo volto mi ha invitato a chiedergli “che cosa c’è che non va”. “E’ la guardia costiera”, ha risposto. Due giorni prima hanno confiscato la sua barca temporaneamente. Perché? Perché proprio il motoscafo della Guardia costiera non partiva, in quanto non era stato curato per due anni a causa della mancanza di fondi. Così, hanno preso la barca di Dimitri per la sua velocità , l’hanno armata fino ai denti, in risposta a qualche rapporto di un atto di pirateria tra Egina e l’isola di Poros. Sono tornati due giorni dopo, a mani vuote e, per la disperazione di Dimitri, anche con il serbatoio vuoto. Cinquecento euro di benzina ad alto numero di ottani erano andati. “Non ti hanno rimborsato?», ho chiesto ingenuamente. “Non essere sciocco», è stata la sua risposta. “Come potevano rimborsarmi quando il bilancio del guardacoste di Egina non può nemmeno permettersi di acquistare una pompa ad aria per il loro gonfiabile?” Dimitri, è stato abbondantemente chiaro, e non portava alcun risentimento verso gli ufficiali della guardia costiera.

La sua tristezza era un semplice riflesso della tristezza media del Greco alla vista di uno stato fallito, che è costretto ad espropriare quel poco che viene lasciato ai suoi cittadini.

Poseidon

Parlando di combustibile, negli ultimi due mesi le stazioni di servizio di Egina sono regolarmente a corto di benzina. Per giorni e notti di fila, i turisti li avvicinano in previsione di riempire i serbatoi dei loro veicoli in affitto, in modo tale da essere sul loro luogo ameno di vacanza, solo per scoprire che le pompe non stanno pompando. Ancora peggio, gli yacht in affitto nel porto di Egina, che trasportano i turisti che hanno pagato migliaia di dollari al giorno per il privilegio di navigare nelle nostre acque blu, vanno poi a scoprire in banchina che la pompa diesel è asciutta. La prima volta che è successo a me ho immaginato che fosse responsabile qualche controversia di lavoro; dei dipendenti della pompa di benzina, dei gestori della cisterna di benzina, di qualche grana sindacale lungo la catena di distribuzione. Pochi giorni dopo qualcuno mi ha spiegato la vera ragione: “E’ la crisi, amico mio», ha detto, chiaramente godendo del fatto che stava per spiegare qualcosa sulla crisi a un esperto analista della crisi. Quello che è successo è che la più grande delle due compagnie di navigazione che condividono il franchising Egina-Pireo (Hellenic Seaways) ha ridotto il numero di navi che mantiene sulla rotta da otto a tre. Uno di questi, dal nome maestoso di ‘Poseidon’, è destinato a trasportare i camion cisterna di carburante a Egina una volta alla settimana, come parte di un accordo con lo Stato (le norme statali vietano all’azienda il trasporto di passeggeri quando si trasportano grandi quantità di combustibile). Fuori stagione questo accordo consente un bel po’ di lavoro per Hellenic Seaways e Poseidon mantiene Egina completamente alimentata. Ma, durante i due mesi estivi, quando il turismo cresce, l’azienda guadagna più soldi dai traghetti di turisti rumorosi che dallo sbarcare navi cisterna di carburante. Così, la corsa del carburante settimanale diventa un bi-settimanale, o anche un tri-settimanale, di rito; impoverendo l’isola, e i suoi turisti, di forniture energetiche essenziali. Quando ho chiesto a un funzionario della compagnia ragguagli sulla razionalità della questione, lu mi ha risposto: “Nessuno vi impedisce di utilizzare il Poseidon per portare l’automobile al Pireo, dove ci sono un sacco di stazioni di servizio per riempirla.” Tragicamente, invece di maledirlo, ho cominciato a scorgere un punto di vista interessante nel suo consiglio …

Hellenikon

I lettori di questo blog non hanno bisogno di ricordare l’emergenza umana nel sistema sanitario pubblico della Grecia, dopo il fallimento dell’apparato statale. E neppure sono inconsapevoli della corruzione che affligge il nostro servizio sanitario. Quello di cui non possono aver sentito parlare, tuttavia, è la storia ‘dall’altra parte’: quello eroica. (Sì, c’è sempre una!).

Hellenikon, che significa ‘greco’, è un sobborgo meridionale di Atene, il luogo del vecchio aeroporto di Atene. A Hellenikon si può incontrare il volto benevolo della crisi. Diversi medici del settore pubblico, infermieri e operatori hanno istituito un centro medico dove trascorrono il loro tempo libero, gratuitamente, per la fornitura di servizi medici gratuiti a tutti coloro che arrivano e ne hanno bisogno. Il centro sta guadagnando una reputazione eccellente per la velocità nelle cure mediche e per un vero spirito umanitario. Carovane di greci, di migranti, i locali e le persone di altre città vengono a Hellenikon per il trattamento, per farmaci che non possono permettersi altrimenti, e anche per conforto. Sorprendentemente, anche se il centro cerca il sostegno di chiunque abbia voglia di assistere, rifiuta a bruciapelo le donazioni in denaro.

Se volete aiutare, c’è che vi darà un elenco dei farmaci di cui hanno bisogno; che pubblicherà on line una richiesta di toner per le loro stampanti e fotocopiatrici; per chiedere alle persone di aiutare i pazienti nel trasporto in macchina o forse per dare loro un mini-bus. Ma non accetteranno contanti come un segnale al mondo che la loro è una forma di atto incontaminata di pura solidarietà. I medici e gli operatori responsabili di questo miracolo di umanità sono, comunque, profondamente premiati. Uno di loro mi ha detto, quasi in lacrime, di una telefonata ricevuta.

Veniva da una donna il cui marito era appena morto di cancro. La sua richiesta? Che qualcuno dal centro fosse andato a casa sua a prendere i suoi farmaci chemio. “Lui non avrebbe voluto che questi fossero buttati ai rifiuti, quando così tanti malati di cancro non possono permetterseli”, ha detto.

[traduzione dal suo blog di Three brief Greeck summer talesAgosto 2013]

In Grecia e in Italia si lavora 300 ore in più della Germania, ma si guadagna la metà. Ecco perché

Il paese Ue più stakanovista? La Grecia: 2.034 ore di lavoro pro capite nel solo 2012. Quelli più “indolenti”? Germania e Olanda: meno di 1.400 ore.

Come scrive Tiziana:

La questione greca (e perché no italiana e del Sud Europa), sembra la versione europea della vecchia questione meridionale, quella che Antonio Gramsci affrescò così un secolo fa: «La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento», scriveva Gramsci in Alcuni temi della questione meridionale. Che sia Napoli o Atene, il risultato non cambia.

L’articolo è qui.

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Parla Varoufakis, «Ci hanno detto: Questo è un cavallo, ci sali o sei morto»

o-YANIS-VAROUFAKIS-facebook-800x600Torna a farsi vivo Yanis Varoufakis, che non essendo più un ministro greco può parlare e togliersi sassolini dalle scarpe. In un pezzo scritto per Die Zeit e in un’intervista al New Statseman, l’ex ministro greco parla di un piano Schäuble per ristrutturare l’unione europea. Di mancanza di processo democratico e dei toni ultimativi usati dal ministro tedesco nei suoi confronti e di differenze nette di tono tra la premier tedesca Merkel e il suo ministro delle Finanze. Varoufakis nota anche come molti governi indebitati siano stati tra quelli più duri nei confronti della Grecia e come l’alleanza con partiti di sinistra non abbia portato risultati: “Non c’era molto che Podemos potesse fare”. Infine, riferendosi ad Alexis Tsipras e al suo successore, racconta di come non ci siano mai state vedute diverse tra loro e di come i tre restino molto vicini. La risposta cruciale dell’intervista spiega in parte le dimissioni e ci dice perché Tsipras abbia deciso di sacrificare il suo compagno alla trattativa.

 

Non ho mai creduto che dovremmo andare direttamente a una nuova moneta. La mia visione era che se avessero osato chiuso nostre banche, avremmo dovuto rispondere con una mossa aggressiva ma senza attraversare il punto di non ritorno. Avremmo dovuto rilasciare i nostri pagherò, o anche, almeno annunciare che avremmo emesso degli IOU; tagliare i buoni del 2012 in mano alla BCE legami, o annunciare che stavamo per farlo e prendere il controllo della Banca di Grecia. Queste erano le tre cose, che penso avremmo dovuto fare. Avevo messo in guardia il gabinetto di quanto stava per accadere per un mese (…). Quando è successo – e molti dei miei colleghi non ci potevano credere – la mia raccomandazione fu di dare una risposta energica. Il governo ha deciso di non sostenerla

Non c’era un potere alternativo all’interno del gruppo, i francesi non sono un bilanciamento del potere tedesco? Solo il ministro delle finanze francese ha espresso opinioni diverse dalla linea tedesca, ma in forma molto moderata. Si intuiva che sceglieva di usare un linguaggio molto giudizioso, per non fare intuire di essere troppo in opposizione. E in ultima analisi, quando Schäuble dettava la linea, il ministro francese chinava il capo e accettava.

Sarebbe scioccato se Tsipras si dimettesse? Niente mi sconvolge in questi giorni – la nostra zona euro è un luogo molto inospitale per le brave persone. Non mi scioccherebbe neppure che decidesse di rimanere accettando un pessimo accordo. Capisco che si senta in obbligo verso le persone che lo sostengono, e ci hanno sostenuto, di non lasciare che il paese vada in default.

 

 

L’articolo è qui. Su LEFT, ovviamente.