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Il Comune di Vercelli nega la solidarietà a Patrick Zaki: l’assurda logica del “prima gli italiani”

Accade a Vercelli. I consiglieri comunali Alberto Fragapane, Manuela Naso, Michele Cressano, Maura Forte, Carlo Nulli Rosso (Partito Democratico) e Alfonso Giorgio (Vercelli per Maura Forte) hanno proposto un ordine del giorno per chiedere la scarcerazione di Patrick Zaki, il ragazzo di 27 anni che dal 7 febbraio si trova in carcere in Egitto e che non ha ancora potuto nemmeno accedere alla prima udienza del suo processo (fissata ora per il 7 ottobre, secondo le ultime informazioni dei suoi legali). Zaki è in carcere per alcuni suoi post su Facebook additati come “propaganda sovversiva” e da tempo la comunità internazionale sta chiedendo la sua liberazione in quel’Egitto che continua indegnamente a portare le macchie dell’omicidio di Giulio Regeni. Patrick Zaki studiava a Bologna e per questo molti comuni italiani stanno simbolicamente esprimendo la propria solidarietà.

La maggioranza del consiglio comunale di Vercelli (Lega, Fratelli dItalia e Forza Italia) e il sindaco Andrea Corsaro hanno deciso di bocciare l’ordine del giorno giustificando il loro voto contrario con il fatto che vi siano casi analoghi di persone italiane a cui pensare e in consiglio comunale hanno citato il caso dei 18 pescatori siciliani ormai segregati da due settimane a Bengasi, prigionieri delle milizie di Khalifa Haftar, in Libia.

Siamo alle solite: il “prima gli italiani” diventa il motivo valido per risparmiare la solidarietà a qualcuno in giro per il mondo secondo la solita retorica per cui c’è sempre “altro” a cui pensare, sempre “altro” di cui occuparsi e così alla fine si finisce per non prendere posizioni scomode e per svicolare dalle proprie responsabilità.

Potrebbe sapere, il sindaco di Vercelli Andrea Corsaro, che la solidarietà non si consuma, non finisce e non scade. Forse sarebbe il caso di dirsi che proprio la solidarietà è uno di quegli ingredienti su cui è consigliato eccedere, che sia per un giovane egiziano o per i poveri pescatori italiani (di cui il governo si sta occupando da giorni). Ci si chiede allora perché non presentarne due di ordini del giorno, che potessero comprendere anche le persone indicate dalla maggioranza. Ma loro sono così, sempre: agiscono per sottrazione perché solo negando i diritti riescono a parlarne e a distinguersi. Così si finisce che con l’urlo “prima gli italiani” si riesce a non occuparsi di niente e di nessuno. Quando la libertà smette di essere universale diventa un bieco interesse di bottega da sventolare per propaganda. Ancora una volta, come sempre.

Leggi anche: 1. Studente arrestato in Egitto, testimonianza esclusiva dal Cairo: “Vi racconto il vero motivo per cui hanno incarcerato il mio amico Patrick”; 2. “Torturato per ore, Al Sisi lo faccia tornare in Italia”: la collega dello studente arrestato in Egitto a TPI; 3. ESCLUSIVA TPI: ecco le accuse contro Patrick George Zaki, lo studente arrestato oggi in Egitto

4.Libertà per Patrick Zaki, il ragazzo fermato al Cairo (illustrazione di Gianluca Costantini); 5.Regeni, 4 anni dopo: tutta la fuffa della politica che ci ha preso in giro (di L. Tomasetta)

L’articolo proviene da TPI.it qui

Minacciato e picchiato a Librino

Ieri mattina intorno alle 10:30 a Librino, il grande quartiere-ghetto alla periferia di Catania,  un nostro collaboratore che stava scattando delle foto al Palazzo di Cemento è stato circondato da sei uomini, minacciato con un’arma e picchiato. Gli hanno rotto un dente. Hanno fatto i nomi dei suoi familiari, su cui sembravano molto bene informati.

Luciano Bruno (un suo articolo, due anni fa, ha aperto il primo numero di questa nuova serie dei Siciliani) è di Librino e più volte ha pubblicato articoli sulla drammatica situazione di questo quartiere, abbandonato e lasciato in mano alla mafia. E’ autore fra l’altro di un pezzo teatrale di denuncia sul dramma di Librino, che è stato portato in giro in varie città d’Italia.

Invitiamo tutti alla massima solidarietà verso Luciano e alla massima attenzione e vigilanza su Librino.

Riccardo Orioles

I Siciliani

Vale la pena anche buttare un occhio ai commenti sotto l’articolo. Per farsi un’idea.

Pippo Fava non amerebbe questo Paese

Pippo_Fava30 anni fa moriva ammazzato Pippo Fava. Oggi sono da leggere le parole (come sempre bellissime) del figlio Claudio nella sua intervista per L’Unità (qui) e riprendendo un articolo memorabile scritto proprio per I Siciliani dopo la sua morte. Perché quei ragazzi di Fava oggi sono una lezione che sarebbe meglio perseguire piuttosto che commemorare:

Un uomo

da “I Siciliani”, gennaio 1984

Pippo Fava ha scritto un sacco di libri, e cose di teatro anche.

Però Pippo Fava non è mica uno importante.

Per esempio, arriva una centoventiquattro scassata, dalla centoventiquattro esce uno con la faccia da saraceno e un’Esportazione che gli pende da un angolo della bocca e ride e quello è Pippo Fava.

Bene, un giorno a Pippo Fava gli dicono di fare un giornale, è una faccenda strana affidare un giornale a Fava che, dice la gente perbene, è uno che non si sa mai che scherzi ti combina: comunque il giornale c’è, si chiama il Giornale del Sud e subito Pippo Fava lo riempie di ragazzi senza molta carriera ma in compenso mezzi matti come lui.

«Tu, come ti chiami?». «Così e cosà». «E cosa vorresti fare?».

«Mah, politica estera…». «Ok, cronaca nera».

La cronaca, al Giornale del Sud, la si fa all’avventura.

Non si conosce nessuno, si parte proprio da zero. Ci sono storie divertenti, tipo quella del povero emarginato napoletano che arriva in redazione e tutti fanno i pezzi commoventi sul povero emarginato e poi arriva Lizzio dalla questura per un paio di stupri…

Si chiude alle tre di notte; non si “buca” una notizia.

Con grande stupore, i catanesi apprendono che a Catania c’è una cosa che si chiama mafia. E che Catania è divenuta un centro del traffico di droga.

Dopo qualche mese, un attentato: un chilo di tritolo. Ma si va avanti.

La faccenda dura un anno. Poi succedono tre cose.

La prima è che gli americani decidono che la Sicilia va bene per coltivarci missili.

E questo a Fava non va bene, e lo scrive.

La seconda che a Milano acchiappano un grosso mafioso, Ferlito, parente di un assessore e uomo di molto rispetto;

e anche qua, Fava si comporta piuttosto – come dire – maleducatamente.

La terza è che nella proprietà del giornale arrivano amici nuovi, uno dei quali è…

– ok, avvocato, niente nomi –

… un importante imprenditore catanese coinvolto nel caso Sindona e un altro un importante politico catanese coinvolto nell’assessorato all’agricoltura.

Telegramma all’illustrissimo dottor Fava:

«Comunichiamo con rincrescimento a vossignoria illustrissima che il giornale ora ha un altro direttore».

I matti, i ragazzi della redazione vogliamo dire, occupano il giornale. L’occupazione dura una settimana, durante la quale gli occupanti ricevono la solidarietà di alcuni tipografi, di una telefonista, di un guardiano notturno e di un ragazzino dell’Ansa (a pensarci, anche un giornalista ha telefonato, allora). Poi arriva il sindacato e, molto ragionevolmente, l’occupazione finisce.
Senza Fava finisce anche, e alla svelta, il Giornale del Sud (perché non-leggere le stesse notizie su un giornale nuovo, se puoi già non-leggerle su quello vecchio?).

Ma Fava nel frattempo non s’è stato con le mani in mano. Ha raccolto una decina dei “suoi” matti: «Si fa un giornale».

Come, quando e se si farà non lo sa nessuno.

Ma intanto si mette su una bella redazione, con le sue brave “lettera ventidue” scassate.
Chi è disposto a investire qualche centinaio di milioni su due “lettera ventidue” scassate, dieci matti fra i venti e i venticinque anni e uno di sessanta? Ovviamente, nessuno.

D’altra parte dopo l’esperienza del GdS Fava e i suoi, a sentir parlare di padroni, si mettono a bestemmiare.

Allora si mette su una bella cooperativa – «Radar!». «E che vuol dire?».

«Suona bene!» – si disegna un bellissimo stemmino per la cooperativa e si firmano alcune tonnellate di cambiali.

Due mesi dopo arrivano due bellissime Roland di seconda mano, offset bicolori settanta/cento, e Fava se le cova con lo sguardo che se invece di essere due offset fossero due turiste svedesi lo denuncerebbero per stupro.

A fine novembre, Pippo Fava arriva in redazione, schiaccia l’Esportazione nel portacenere e fa:

«Ragazzi, si fa il giornale». «Quando?» «Con quali soldi?»

«Io faccio il pezzo sulla Procura!» «Come lo chiamiamo?» «Io ho un’idea per il pezzo di colore» «Ma i soldi…».

La vigilia di Natale, le Roland sputano una cosa rettangolare con scritto su

«I Siciliani».

Anno uno, numero uno, i cavalieri di Catania e la mafia, la donna e l’amore nel sud. Un tipografo porta il pupo in redazione. «Be’, potrebbe anche andare» fa uno dei redattori con nonchalance, e subito dopo si mette a ballare.
Il giornale arriva in edicola alle nove di mattina.

A mezzogiorno non ce n’è più (a piazza della Guardia, dicono, due fanno a cazzotti per l’ultima copia: ma onestamente non ne abbiamo le prove). Si brinda nei bicchieri di plastica, e si prepara il numero due; nel cassetto i mazzi di cambiali sembrano meno minacciosi.

Ed è passato un anno. La mafia, a Catania, c’è o non c’è?

«Ma no… al massimo un po’ di delinquenza…» (il signor Prefetto).

«Cristo se c’è! E sbrigatevi a fare qualcosa che qui finisce peggio di Napoli» (I Siciliani).

E quel signore, come si chiama quel signore là?

«Noto pregiudicato…» (la stampa per bene).

«Santapaola Benedetto, detto Nitto, MAFIOSO!» (I Siciliani).

 

E i missili, dite un po’, vi dispiace se lascio un paio di missili nel sottoscala? «Ma prego, si figuri, come fosse a casa sua!».

«Ahò! Ca quali méssili e méssili! I cutiddati a’ casa vostra, si vvi l’aviti a ddàri!»

 

E i cavalieri, vediamo un po’; anzi, i Cavalieri?

«Ecco dunque cioè nella misura in cui ma però… AIUTO diffamano Catania!»

«I cavalieri catanesi alla conquista di Palermo con la tolleranza della mafia.

Firmato Dalla Chiesa. Noi stiamo con Dalla Chiesa».

Ed è passato un anno.

C’è un ragazzino, a Montepò, che ancora non sa bene se andrà a fare il suo primo scippo o no. C’è una vecchia, in via della Concordia, che è rimasta fuori dall’ospedale perché non c’era posto. C’è una tizia, a viale Regione Siciliana, che costa ventimila lire ed ha quattordici anni. C’è un manovale, alla zona industriale, che ci ha rimesso una mano e dicono che la colpa è sua. C’è uno sbirro, in viale Giafaar, che ha una bambina a casa ma va di pattuglia lo stesso. C’è una bambina, da qualche parte allo Zen, che forse diventerà una puttana e forse una donna felice.

E c’è un’altra bambina, in un cortile pieno di sole, e ora Pippo Fava prende in braccio la bambina e la bambina ride.

«Nonno, nonno, ora faccio l’attrice».

«Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…

Beh, te lo prendi un caffé? E l’occhiello, vedi che dieci righe per un occhiello a una colonna sono troppe».

Forse mezzo milione, forse di più: il tizio, con l’altro tizio e quello che doveva dare il segnale, era là ad aspettare e ha alzato la 7,65 e ha sparato. Professionale.

Certo, in una villa di Catania, s’è brindato, quella notte.

Forse ha avuto il tempo di guardarlo negli occhi. Non pensiamo spaventato.

Forse, impietosito. Sapendo benissimo che il tizio pagato – uscito forse da un miserabile quartiere, uno di quelli che lui non era riuscito a salvare – sparava anche contro se stesso, contro la propria eventuale speranza.

Forse ha pensato che un giorno o l’altro quelli che venivano dopo di lui ci sarebbero riusciti a farli smettere di sparare, a…

Ma forse non gliene hanno dato il tempo.

***

E questo è tutto.

Ok, ringraziamo tutti quanti, grazie di cuore a tutti.

Adesso dobbiamo ricominciare a lavorare, c’è ancora un sacco di lavoro da fare per i prossimi dieci anni.

Mica possiamo tirarci indietro con la scusa che è morto uno di noi.

Se qualcuno vuole dare una mano ok, è il benvenuto, altrimenti facciamo da soli,

tanto per cambiare.
Va bene così, direttore?

Elena Brancati, Cettina Centamore, Santo Cultrera, Claudio Fava, Agrippino Gagliano, Miki Gambino, Giovanni Iozzia, Rosario Lanza, Nanni Maione, Riccardo Orioles, Nello Pappalardo, Tiziana Pizzo, Giovanna Quasimodo, Antonio Roccuzzo, Fabio Tracuzzi, Lillo Venezia.

Anticorpi contro la mafia al Nord (editoriale per I SICILIANI GIOVANI)

(Questo articolo è stato scritto per il numero di marzo/aprile de I Siciliani Giovani che potete scaricare qui o dal sito www.isiciliani.it)

Schermata 2013-04-04 alle 10.07.13C’è una frase di Pino Maniaci che mi colpisce profondamente. Pino è così: vola con leggerezza dai giudizi più sprezzanti fino alle considerazioni più intime che meritano di essere al più presto collettive. Diceva, durante un suo incontro con i ragazzi su Milano, “dovete stare attenti, perché in Sicilia abbiamo il virus ma anche gli anticorpi, qui il virus è arrivato, ma non avete ancora gli anticorpi”.

Gli anticorpi, appunto: ho passato serate a spaccarmici la testa, sugli anticorpi, su queste proteine umanoidi che dovrebbero neutralizzare i corpi estranei alla legge e alla Costituzione riconoscendone ogni determinante antigenico. E’ possibile? mi chiedevo. Come impiantarceli qui dove la malattia è in incubazione continua mentre la devastazione è in corso d’opera?

Forse (è una mia umile considerazione personale) facendo rete (sì, ce lo siamo detti mille volte e tutte le sante mille volte abbiamo applaudito) ma diversamente da come lo stiamo facendo. E’ un’autocritica certo (mica un rimestamento di macerie), ma è un fatto visibile e evidente che l’antimafia sociale, culturale e dell’associazionismo viaggi ad una velocità (colpevolmente) troppo diversa e troppo slegata da quello che accade là dentro dove i cambiamenti cambiano per davvero le cose: centinaia di insegnanti spendono energie e tempo per organizzare incontri di alfabetizzazione sulle mafie ma la scuola intanto resta inerte (quella dell’Aprea, della Gelmini, di Comunione e Liberazione e di Formigoni, per intendersi, quella terribile idea di scuola tutta minuscola come servizio obbligatorio per adempiere stancamente ai doveri della Costituzione), decine di amministratori si incontrano per scambiarsi esperienze e buone pratiche su riciclaggio e gioco d’azzardo ma la Regione (e il Parlamento) si ridestano al massimo un secondo solo per congratularsi in carta bollata, invitiamo testimoni di giustizia a raccontarsi mentre abbiamo un programma di protezione testimoni che viene smantellato quotidianamente, applaudiamo nelle serate gli uomini della Catturandi mentre ci raccontano l’ultimo arresto dell’ultimo latitante e intanto le forze dell’ordine scivolano nel volontariato per terminare le indagini. Queste e molte altre discrepanze (usiamo un eufemismo, va) testimoniano le maglie troppo larghe di una rete che non riesce a contenere.

Stringersi, forse. Servirebbe stringersi per rendere più palesi (e leganti) le responsabilità di tutti i nodi. Avere il coraggio, stretti, di indicare referenti certi con potere legislativo, testimoni attivi nella magistratura, interpreti responsabili nell’imprenditoria, in un’attività di “lobby” nell’accezione positiva: tre o più persone che si occupano dell’interesse pubblico danneggiando (anche, se serve) l’interesse privato. Una sorta di 416 quater che non sia un delitto ma un dovere di anticorpi.

Costa, lo so, non è facile: richiede un’esposizione a tutto campo che superi i confini della testimonianza. Eppure l‘antimafia non può restare sospesa, non è credibile nei mezzi toni di una scala con un estremo buio; richiede luce, vita, scelta e politica.

Da che parte stare: essere partigiani e non tollerare indifferenze.

Io la Lombardia la difendo


Editoriale scritto  per ArcipelagoMilano

cavalli screenLa Lombardia è la mia terra e la difendo, da cittadino, mica eletto, e nemmeno da scortato antimafioso perché mi verrebbe troppo comodo e troppo paratelevisivo, ma da cittadino con i figli che lavoreranno e faranno altri figli qui in Lombardia, la difendo dai faccendieri, gli affaristi, i viscidi commensali, i lacchè senza dignità e la retorica della propria terra che ha innescato un meccanismo perverso (e inverso alla democrazia) che in alcuni settori chiede “chi ti manda” e “a chi appartieni” per decidere la possibilità di assunzione e di carriera. La Lombardia la difendo dall’analfabetismo (coltivato ad hoc) verso le persone serie, oneste e dedite all’etica come dovere morale, in una regione che per decenni ci ha convito che la spericolatezza fosse una virtù in politica e nell’imprenditoria e una regione che ha voluto convincerci che la solidarietà sia un vezzo democratico che non possiamo permetterci per non mettere a rischio la sicurezza dei nostri figli.

Io non so cosa debba succedere ancora per chiederci di andare oltre all’indignazione sulle associazioni criminali che sono arrivate fino ai gangli più alti della politica regionale; se serva un morto ammazzato proprio in mezzo al corridoio del Pirellone o l’arresto di un altro assessore con la coppola in testa e la lupara sotto il cappotto per convincerci che l’emergenza è passata da un pezzo e l’infiltrazione mafiosa è stata un momento di una diffusione radicata e ormai difficilmente riconoscibile che svena ma non tormenta, non si sente: sembrano al massimo un paio di linee di febbre.

Io non tollero più di fare lo scortato buono per le interviste, le televisioni, gli antimafiosi una volta al mese nei convegni tra amici e poi non riuscire a raccontare cosa è cambiato alla sera quando me lo chiedono i miei figli. Perché abbiamo sbagliato noi, forse, a credere che bastassero questi ultimi mesi per dare l’idea di un allarme che suona muto da decenni e invece siamo ancora visionari (forse meno di una volta), allarmisti (anche se con più seguaci) e minoranza. Di una battaglia che è politica dove mafia e Stato (o Regione) fanno lo stesso identico mestiere: offrono occupazione, welfare e protezione. E due concorrenti nello stesso territorio o si fanno la guerra all’ultimo respiro oppure viene il dubbio che si siano messi d’accordo.

Una normalizzazione mafiosa e anche sociale (editoriale per “I Siciliani giovani”)

La discussione in corso sul ruolo della magistratura e sugli argini permessi ai magistrati nell’esprimere giudizi politici è la ciclica riproposizione di uno scontro che sembra essere diventato inevitabile in Italia. Un campo di battaglia tra favorevoli e contrari, una tribuna (spesso televisiva) di tifosi delle diverse fazioni che si esibiscono nella continua delegittimazione l’uno dell’altro e ha portato alla banalizzazione di fondo da cui sembra così difficile uscire: ci si dice che in questo Paese esistano poteri buoni e poteri cattivi, dimenticandosi le persone che li interpretano. E il risultato è fatto: giustizialismo contro il partito antiprocure, antipolitica contro politicismi e, quando il gioco sembra farsi duro, complottisti contro innocentisti. E sotto spariscono i fatti, le persone, i riscontri e alla fine la verità.

Ricordo molto bene una mia discussione qualche anno fa quando mi capitò di essere “accusato” da alcuni colleghi teatranti di scrivere spettacoli con giornalisti di giudiziaria e giudici, “è compito degli intellettuali la cultura, mica dei giudici” mi dissero. Erano colleghi che stimo, gente che scrive spettacolo preferendolo all’avanspettacolo, che ha un senso alto dell’arte e della cultura, per dire, ma quello che mi aveva colpito era l’eccesso di difesa legittimato dalla presunzione di un’invasione di campo che non poteva e non doveva essere tollerata. Confesso anche che il concetto di intellettuale oggi, nel 2012 in un’Italia culturalmente berlusconizzata alle radici, è un tipo che mi sfugge perché si arrotola troppo sugli scaffali o nei salotti televisivi di una certa sinistra piuttosto che tra le idee della gente. Un nuovo intellettuale imborghesito e bolso che mostra il suo spessore nel “l’avevo detto” piuttosto che anticipare i tempi come quei belli intellettuali che si studiavano a scuola. C’è la mafia a Milano, l’avevo detto, c’è la massoneria tra le righe del Governo, ve l’avevo detto, c’è l’Europa antisolidale, ve l’avevo detto e via così come una litania di puffi quattrocchi che svettano come giganti per il nanismo degli avversari.

C’è un momento storico negli ultimi decenni che ha svelato l’arcano: 1992-93, le bombe, Falcone e Borsellino, la mafia, Palermo che si ribella, la Sicilia che rialza la testa e per un momento si sente abbracciata da una solidarietà nazionale come non sarebbe più successo. La gente che decide di non potere stare a guardare e la magistratura che cerca la vendetta con la verità: due mondi così distanti, con regole e modi così diversi, spinti dallo stesso sdegno e uniti nella stessa ricerca. Ma non comunicanti. Il popolo con la fame dei popoli, quella tutto e subito, per riempire la pancia di quel dolore e avere almeno una spiegazione e la magistratura ingabbiata tra i veti, la politica, i depistaggi e i falsi pentiti e le leggi che non lasciano spazio all’urgenza democratica. Forse gli intellettuali ci sono mancati proprio lì. Chi poteva avere il polso di quegli anni così caldi e aveva gli occhi per metterci in guardia dai demoni che si infilano nei grandi cambiamenti storici: sono rimasti isolati, inascoltati o morti ammazzati. E tutto intorno un allineamento rassicurante, come chiedeva il popolo sotto le mura; come se la “normalizzazione” non sia stata solo mafiosa ma anche e soprattutto sociale. La rassicurazione normalizzante è stata l’ultima chiave di lettura collettiva. Poi la frantumazione, prima composta come quando si saluta per tornare a casa fino al cagnesco muso contro muso degli ultimi vent’anni.

Per questo mi incuriosisce ascoltare il dibattito sui modi e le parole della magistratura che non tiene conto del percorso che ci ha portato fino a qui, della polvere che si è appoggiata su verità che cominciano a mancare come un lutto piuttosto che un viaggio. Tutto condito con un’etica slegata dalla storia, dagli interpreti della classe dirigente che abbiamo dovuto digerire e dai protagonisti che ci siamo trascinati legati al piede da quegli anni. Non esiste un modus operandi decontestualizzato dal mondo, non sarebbe concepibile nemmeno per un filosofo utopista con fiducia illimitata negli uomini. C’è un tempo per alzare la voce, dopo anni di latitanza degli intellettuali asserviti troppo spesso al padrone di turno, un buco da colmare per tenere in piedi i pilastri della democrazia. Come dice bene Gian Carlo Caselli ci sono stagioni che impongono la parola. E ci vuole la schiena diritta per portarla in tasca, la parola.

(pubblicato per I SICILIANI GIOVANI, il numero è scaricabile dal sito)

Tesserati senza tessere

Vi racconto una piccola atroce storia per capire quale possa essere talvolta la posizione del potere politico dentro una vicenda mafiosa, una storia vecchia di alcuni anni fa e che oggi non avrebbe senso e che tuttavia in un certo modo interpreta tutt’oggi il senso politico della mafia. Nel paese di Camporeale, provincia di Palermo, nel cuore della Sicilia, assediato da tutta la mafia della provincia palermitana, c’era un sindaco democristiano, un democristiano onesto, di nome Pasquale Almerico, il quale essendo anche segretario comunale della DC, rifiutò la tessera di iscrizione al partito ad un patriarca mafioso, chiamato Vanni Sacco ed a tutti i suoi amici, clienti, alleati e complici. Quattrocento persone. Quattrocento tessere. Sarebbe stato un trionfo politico del partito, in una zona fino allora feudo di liberali e monarchici, ma il sindaco Almerico sapeva che quei quattrocento nuovi tesserati si sarebbero impadroniti della maggioranza ed avrebbero saccheggiato il Comune. Con un gesto di temeraria dignità, rifiutò le tessere.
Respinti dal sindaco, i mafiosi ripresentarono allora la domanda alla segreteria provinciale della DC, retta in quel tempo dall’ancora giovane Giovanni Gioia, il quale impose al sindaco Almerico di accogliere quelle quattrocento richieste di iscrizione, ma il sindaco Almerico, che era medico di paese, un galantuomo che credeva nella DC come ideale di governo politico, ed era infine anche un uomo con i coglioni, rispose ancora di no. Allora i postulanti gli fecero semplicemente sapere che, se non avesse ceduto, lo avrebbero ucciso, e il sindaco Almerico, medico galantuomo, sempre convinto che la Dc fosse soprattutto un ideale, rifiutò ancora. La segreteria provinciale s’incazzò, sospese dal partito il sindaco Almerico e concesse quelle quattrocento tessere. Il sindaco Pasquale Almerico cominciò a vivere in attesa della morte. Scrisse un memoriale indirizzato alla segreteria provinciale e nazionale del partito denunciando quello che accadeva e indicando persino i nomi dei suoi probabili assassini. E continuò a vivere nell’attesa della morte. Solo, abbandonato da tutti. Nessuno gli dette retta, lo ritennero un pazzo visionario che voleva continuare a comandare da solo la città emarginando forze politiche nuove e moderne.
Talvolta lo accompagnavano per strada alcuni amici armati per proteggerlo. Poi anche gli amici scomparvero. Una sera di ottobre mentre Pasquale Almerico usciva dal municipio, si spensero tutte le luci di Camporeale e da tre punti opposti della piazza si cominciò a sparare contro quella povera ombra solitaria. Cinquantadue proiettili di mitra, due scariche di lupara. Il sindaco Pasquale Almerico venne divelto, sfigurato, ucciso e i mafiosi divennero i padroni di Camporeale. Pasquale Almerico, per anni, anche negli ambienti ufficiali del partito venne considerato un pazzo alla memoria. (Pippo Fava da I Siciliani, gennaio 1983)

I Siciliani, giornalismo contro la mafia

Durante il periodo natalizio del 1982 esce nelle edicole dell’isola il primo numero del mensile I Siciliani diretto da Pippo Fava. L’inchiesta principale, che accende i riflettori sul nuovo giornale, è I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa in cui si attaccano i quattro principali imprenditori catanesi da diecimila posti di lavoro complessivi: Mario Rendo, Carmelo Costanzo, Francesco Finocchiaro e Gaetano Graci.

Il dispiegamento pubblico delle collusioni e commistioni tra gli imprenditori e la mafia accende la curiosità della stampa nazionale, che si trova di fronte a una realtà colpevolmente sconosciuta a soli quattro mesi dall’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a Palermo.

Il giornalismo catanese, infatti, non si era mai occupato di raccontare e svelare gli intrecci tra mafia, imprenditoria e politica fino a quando Giuseppe e i suoi colleghi non si assunsero quest’onere decidendo di fondare un nuovo mensile che avesse come linea editoriale il “concetto etico di giornalismo”, ovvero, come diceva Fava, di “un giornalismo fatto di verità”.

Ed è proprio questo nuovo modo di essere (non di fare il) giornalista che ha infastidito il sistema editoriale catanese, che ancora oggi è monopolizzato da Mario Ciancio Sanfilippo, ex presidente della Fieg, la federazioni degli editori di giornali, indagato per concorso in associazione mafiosa. Tutta l’informazione, scritta, radiofonica e televisiva di Catania è sempre passata dalle mani di Ciancio, a parte il mensile diretto da Fava.

In questo contesto I Siciliani è una rivista scomoda, irriverente e preoccupante per la classe dirigente dell’isola, che invano tenta di comprare il giornale attraverso Mario Rendo, il quale propone al direttore la gestione di una nuova emittente televisiva.

La sera del 5 gennaio 1984, a Catania, dopo undici numeri del periodico, Pippo Fava viene ucciso. Sono ormai passati ventisei anni, ma la situazione a Catania non è cambiata di molto. A parte l’accusa ex art. 416 bis per Ciancio, il monopolio informativo è rimasto lo stesso.

Per questo accolgo con entusiasmo l’annuncio dell’amico Riccardo Orioles sulla rinascita de I Siciliani. Il primo numero dovrebbe debuttare già dal prossimo novembre in formato pdf e da febbraio 2012 dovrebbe uscire nelle edicole siciliane. Ringrazio anche i sostenitori del progetto, le persone che hanno convinto Riccardo a mettersi a disposizione per il risveglio di un mensile che non poteva finire tra i ricordi: i magistrati Giambattista Scidà e Giancarlo Caselli e il prof. Nando Dalla Chiesa.

Sono convinto che il concetto etico di giornalismo, che accompagna ancor’oggi Orioles e gli altri redattori che daranno vita a I Siciliani, sarà la giusta cinghia di trasmissione tra lavecchia esperienza e la nuova e sarà l’ennesima occasione per dimostrare che si può essere giornalisti senza svendersi al miglior offerente. Il “risveglio” de I Siciliani è un filo rosso che qualcuno voleva nascondere sotto la sabbia e invece soffia forte. E noi soffiamo insieme perché Riccardo e I Siciliani corrano veloci.

PUBBLICATO SU IL FATTO QUOTIDIANO

Una meravigliosa notizia

L’inossidabile Riccardo parte con una straordinaria e importante avventura.

Va bene. E ora? Ci lasciamo così, dopo aver chiacchierato? E no, santiddìo, stavolta no. Stavolta giochiamo grosso, puntiamo tutto quello che abbiamo. Il nome, la storia, la forza dei Siciliani. Amici, rimettiamo in campo i Siciliani. Loro hanno i killer, loro hanno i miliardi – ma noi, noi uomini di questa terra abbiamo i Siciliani.