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La bugie di Conte sui migranti: “Con me porti mai chiusi”

Riposizionarsi in politica, si sa, costa fatica, richiede spalle molto larghe e soprattutto una credibilità che va trattata con cura. Se dovessimo pensare al principe del riposizionamento di questi ultimi anni non potremmo che cadere sulla figura di Giuseppe Conte, l’ex due volte presidente del Consiglio che è riuscito nell’impresa di governare con la Lega di Salvini per poi, nel giro di qualche mese, essere addirittura indicato come “il punto di riferimento dei progressisti” dal Partito democratico. Merito anche della liquidità di un’epoca politica in cui una buona narrazione conta molto di più degli ideali, Conte è riuscito a imbastire una drammaturgia perfettamente pop e magistralmente funzionale.

Cambiare opinioni e posizioni non è un peccato, in politica può essere un pregio se l’evoluzione è motivata e risulta credibile a vecchi e nuovi elettori ma Conte sceglie per riposizionarsi la svilente strada della negazione e questo no, non è accettabile: «con i miei governi i porti non sono mai stati chiusi» ha detto l’ex presidente del Consiglio al webinar delle Agorà a cui ha partecipato con il segretario del Pd Enrico Letta. Un’affermazione (furbescamente accettabile dal punto di vista giuridico) che cozza furiosamente con il primo Conte, quello con Salvini al ministero dell’Interno e con tutta la fanfara dei “taxi del mare” e le Ong finite in decine di inchieste che si sono tutte dissolte. Basterebbe un’immagine per raccontare quel Conte: c’è il futuro leader del Movimento 5 Stelle che sorride sornione con il suo ministro Salvini reggendo un foglio con l’hashtag #decretosalvini e la dicitura “sicurezza e immigrazione”. Quello è stato il punto più alto (o più basso, a seconda dei punti di vista) della piena condivisione della linea leghista. Quel testo era stato approvato il 24 settembre 2018: il comunicato stampa del Consiglio dei ministri precisa che ci si riunì «alle ore 11.41 a Palazzo Chigi, sotto la presidenza del presidente Giuseppe Conte».

Le parole sono importanti. Vale la pena ricordare anche come Conte, rispondendo al Pd (in quel caso nella veste di oppositore) sul caso Aquarius, appoggiò in toto la linea dura di Salvini: usare il divieto di sbarco per mostrare i muscoli contro l’Europa. Poi la Sea Watch e la comandante Carola Rackete. «È stato – disse Conte – un ricatto politico sulla pelle di 40 persone». Insomma, non proprio le parole di chi vuole prendere le distanze dalla politica di Salvini. A luglio 2018 anzi proprio l’allora premier rivendicava (sta ancora sul suo profilo Facebook) il risultato della spartizione dei migranti ottenuto lasciandoli in mare per giorni: «Francia e Malta prenderanno rispettivamente 50 dei 450 migranti trasbordati sulle due navi militari. A breve arriveranno anche le adesioni di altri Paesi europei». Come dire: se non li facciamo sbarcare gli altri si muovono, quindi il nostro agire è utile e chi se ne frega dei diritti.

L’ultimo atto del Parlamento prima della caduta del primo governo Conte? Agosto 2019, decreto sicurezza bis che stringeva ancora di più i lacci dell’immigrazione: il governo pose la fiducia per farlo passare. E anche i 159 migranti sulla nave Open Arms a cui fu impedito per 19 giorni l’accesso ai porti italiani nell’agosto del 2019 sono figli del governo gialloverde. Che Conte oggi ci dica di non avere “mai chiuso i porti” è una presa in giro alla memoria e alla verità. Potrebbe dirci di avere sbagliato, potrebbe dirci di essersi accorto che i diritti sono più importanti degli slogan, potrebbe perfino dirci di essere sceso a compromessi per tenere salda la propria posizione ma la narrazione per invertire il passato questa volta è miseramente fallita e che il Pd non alzi nemmeno un’osservazione aggiunge desolazione: se la prossima alleanza nasce sulle frottole non è un buon inizio.

L’articolo La bugie di Conte sui migranti: “Con me porti mai chiusi” proviene da Il Riformista.

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Il passaggio parlamentare

Si potrebbe partire da quella relazione che già a ottobre alla Camera definiva «indispensabile» che «le camere siano coinvolte nell’intero iter della predisposizione del Pnrr». Il governo, che era un altro governo, aveva riconosciuto essenziale il «coinvolgimento di tutto l’arco parlamentare». Anche in Senato si era deciso di impegnare il governo perché «le camere siano parte attiva, coinvolte in modo vincolante, nella fase di individuazione e scelta dei progetti». Sui giornali era stato lo stesso: tutte le forze politiche, fin dall’inizio del percorso, hanno rilasciato decine di interviste in cui chiedevano un dibattito ampio e trasparente. Qualche forza politica, non vi sarà difficile ricordarlo, aveva indicato nell’opacità della discussione del Pnrr un buon motivo per fare cadere il governo.

L’ultimo monito è di poco fa, del 31 marzo: il Senato aveva «ribadito l’esigenza di un successivo passaggio parlamentare che riguardi la versione definitiva del piano, evidenziando quali indicazioni del parlamento siano state recepite dal governo».

Il passaggio parlamentare è avvenuto ieri 72 ore prima che il piano venga consegnato in Europa. Mario Draghi l’ha illustrato disinfettando la politica e provando a restare sui numeri, così come gli viene benissimo, raccontando cosa vorrebbe fare: «Sono certo che riusciremo ad attuare questo piano, sono certo che l’onestà, l’intelligenza e il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità e gli interessi costituiti», ha detto in chiusura del suo intervento. I parlamentari hanno ricevuto le 270 pagine alle 13.57 in Senato e a alle 14.00 alla Camera. Oggi voteranno un sì che ha la stessa matrice di tutto questo governo: una delega quasi totale alla figura di Draghi che è ispirazione, certificazione, garanzia, controllo.

I partiti che si credono più furbi, quelli che sono sempre sul limite della campagna elettorale, sanno benissimo che questa è un’occasione: potranno dire di non avere avuto modo e tempo di approfondire, potranno lamentarsi poi dei vincoli che l’Europa mette sulla spesa fingendo di dimenticarsi di averli votati. C’è già la propaganda scritta, è un copione ben noto.

«Devo ringraziare questo Parlamento per l’impulso politico che anima tutto il piano», ha detto ieri Draghi e alla Camera si è alzato un brusio, tutti a chiedersi esattamente cosa sia “l’impulso politico” e quali responsabilità possa comportare in futuro. Qualcuno dice che è stato deciso “cosa fare” ma ora rimane da decidere “il come”: sembra la giustificazione di un Parlamento che è diventato socio di minoranza, con diritto di ratifica in consiglio di amministrazione. Qualcuno fa notare che manca una seria riforma del fisco (che sta nel cassetto delle “varie e eventuali”), del mercato del lavoro, della sanità pubblica (con quei Livelli essenziali di assistenza di cui si parla da 20 anni e che non si realizzano mai) e che alle imprese vanno quasi 50 miliardi di euro mentre alle politiche per il lavoro vanno solo 6,6 miliardi.

Ma non è il tempo di discutere, ora, dicono, ora c’è da votare sì. Ora il passaggio parlamentare. Poi si vedrà.

Buon martedì.

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Insozzare la Liberazione

Ci sono molti modi di insozzare il 25 aprile, ognuno con il proprio stile ma tutti tesi (come un braccio teso) per svilire e in fondo per provare a non scontentare i fascisti. Siamo ancora al punto in cui almeno si vergognano di leccare spudoratamente i fascisti e quindi provano ad accarezzarli di sponda. Almeno questo.

Giorgia Meloni se la gioca (come era immaginabile) trasfigurando la libertà di andare al ristorante e mette in mezzo partigiani (senza citarli, sia mai) e lavoratori provando a innescare la solita guerra tra disperazioni: “La libertà, mentre la celebriamo, non è più scontata – scrive – a oltre 70 anni dall’inizio della nostra Repubblica democratica, e ad oltre un anno dall’inizio della pandemia, il governo ancora pensa di potersi arrogare il diritto di decidere se e quando gli italiani possano uscire di casa. Appello a tutti coloro che credono nel valore della libertà: aiutateci ad abolire il coprifuoco“. Insomma: il coprifuoco è il nuovo fascismo, dice Giorgia Meloni. Complimenti.

A ruota arriva Salvini, che ormai è una Meloni in versione analcolica. Pubblica un video sui suoi social e urla: “Noi, donne e uomini liberi d’Italia, chiediamo la cancellazione dell’insensato COPRIFUOCO e la riapertura di TUTTE le attività nelle zone (gialle o bianche) in cui il virus sia sotto controllo’. Al momento le adesioni sono 7.750. Nel video pubblicato sul web, Salvini aggiunge: “Se saremo 10mila è un conto, se saremo 100mila o un milione… Oggi è la giornata della Liberazione. Io e la Lega daremo l’anima dentro al governo, perché le le battaglie si combattono stando dentro e non uscendo o scappando, cercando di limitare la prepotenza di chi vede solo rosso, divieti, chiusure e coprifuoco”. Insomma, una Giorgia Meloni al maschile con la differenza che lui sta al governo con quelli che vorrebbe pugnacemente combattere. Un eroe.

Pietro Ichino prova a allargare il campo riuscendoci male: “La Festa della Liberazione non può ridursi a un’acritica celebrazione dell’epopea partigiana: deve essere anche occasione per riflettere sulle responsabilità delle forze antifasciste nell’avvento della dittatura”. Benissimo: poi scriviamo un saggio sulla colpa degli ebrei che la Shoah se la sono andata a cercare.

Il sindaco di Codogno Francesco Passerini dimostra di essere più pandemico della pandemia rifiutando di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini con motivazioni che fanno spavento: “Codogno diede l’onoreficenza a Mussolini nel 1924, fu una iniziativa nazionale dell’Anci del tempo. E’ un atto storico, come quando Napoleone ha dormito a Codogno e poi andò a Lodi a far guerra. Non è che poi è venuto giù il palazzo dove dormì. Abbiamo anche alcune strutture che ricordano il periodo fascista, come Villa Biancardi che è ancora lì. E per fortuna. Non si può pensare di cancellare e demolire tutto perché costruito da una parte della storia ‘particolare’”. Insomma erano particolari, mica fascisti.

Fenomenale anche il sindaco di Salò: “Dopo la caduta del Fascismo – dice all’opposizione che chiedeva simbolicamente di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini – sui banchi dove state ora accomodati, si sono seduti uomini che di antifascismo e lotta partigiana potevano sicuramente fregiarsi di sapere tanto, tanto più di Voi, e di Noi, avendo fatto parte personalmente di quella lotta, avendoci messo la faccia e, avendo spesso, rischiato la vita per gli ideali in cui credevano. Eppure queste persone non si posero, allora, il problema della Cittadinanza onoraria”. Insomma: se non l’hanno fatto gli altri io mi sento assolto.

Sceglie la linea del banalissimo e goffo provocatore anche il professore universitario Riccardo Puglisi, star presso se stesso su Twitter, che ci butta un po’ di liberismo d’accatto: “Mi sembra di capire che parecchi partigiani comunisti volessero passare direttamente dalla liberazione alla dittatura del proletariato”. Che spessore, ma dai.

Infine lui, Renzi: “Oggi è festa di libertà. Memoria di chi ha combattuto per salvarci, impegno per il futuro. Rileggere oggi le lettere dei condannati a morte della resistenza commuove e spalanca l’anima”. Non è festa di libertà ma festa della Liberazione dal nazifascismo, ma figurati se riesce a dirlo. E scrive “resistenza” in minuscolo, genio. Però la festa della libertà, se gli può interessare, si festeggia proprio domani in Sudafrica. Sempre che non abbia impegni dal principe saudita.

Buon lunedì.

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Il fascino della divisa

Ve lo ricordate Sandro Gozi? Un “traditore dello Stato”, un “nemico dell’Italia”, un “meschino”, un “disertore”, “uno a cui bisognerebbe togliere la cittadinanza”: sono solo alcune delle definizioni che sono state usate da esponenti di Lega e Fratelli d’Italia quando l’ex sottosegretario dei governi Renzi e Gentiloni assunse un ruolo politico per Macron in Francia. Sia chiaro: tutto alla luce del sole, al di là dell’opportunità su cui ognuno può avere la sua idea.

Salvini e Meloni sono pronti a individuare “tradimenti dell’Italia” in ogni frangente, soprattutto quando si tratta di nemici politici. In questi giorni in Italia c’è l’ipotesi di un tradimento proprio bello e finito, roba quasi da film, un capitano di fregata, Walter Biot, sorpreso dai Ros a vendere segreti militari ai russi in un parcheggio di Roma: anche se fa piuttosto ridere comunque siamo di fronte a uno dei più gravi episodi di spionaggio degli ultimi anni.

Nessuna parola di Meloni e Salvini, ovviamente. È il fascino della divisa: se scorrete i loro social trovate le solite badilate sugli immigrati, sulla sinistra (più Giorgia Meloni ovviamente, poiché Salvini ora si deve fingere moderato), indignazione per la condanna ridotta a Kabobo ma niente sull’ufficiale. Eppure, oh, se ci pensate è proprio il prototipo del traditore perfetto. Ma niente di niente.

Curiosa anche certa stampa che da giorni ci racconta come Biot avrebbe venduto documenti riservati ai russi per problemi di soldi (la moglie ci dice che hanno “quattro cani da mantenere”, tra le altre cose). Parliamo di un dipendente dell’Esercito, eh. Provate a chiedere in giro per strada alla gente in pandemia, a proposito di povertà. Tutta la pietas che non hanno per i poveri senza divisa è esplosa per il capitano di fregata.

Che ipocrisia, che bassezza, che poca roba. Che peccato.

Buon venerdì.

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Tutte le falle del piano vaccinale

È sempre quella vecchia storia dell’innamorarsi degli uomini e di sottovalutare i sistemi: il “nuovo” piano vaccinale italiano, quello che avrebbe dovuto portare la sferzata decisiva per fare ripartire il Paese o almeno per uscire dal tunnel buio del virus è lastricato di buone intenzioni (com’era quell’altro) proferite da nuovi protagonisti ma nei fatti continua a incepparsi negli stessi granelli e ad ora continua a difettare allo stesso modo nei risultati. Se avessimo perso meno tempo a pesare e analizzare le posture e le parole di Draghi, di Figliuolo e di Salvini a cui ora tocca addirittura di sembrare “responsabile” forse avremmo potuto discutere di un impianto malato nelle fondamenta, di questa delega alle Regioni che rimane il punto critico di un’operazione che viene pensata a livello centrale ma poi si perde tra i rivoli dei regionalismi.

Il Piano strategico per la vaccinazione anti Sars-Cov-2 è stato elaborato lo scorso 12 dicembre dal ministero della Salute. Il decreto della sua attuazione ufficiale risale allo scorso 2 gennaio, con decreto del ministro, e poi aggiornato l’8 febbraio con il documento “Raccomandazioni ad interim sui gruppi target della vaccinazione anti Sars-Cov-2/Covid-19”. Leggendo il piano risulta subito evidente che il governo sia responsabile della definizione delle «procedure, gli standard operativi e il layout degli spazi per l’accettazione, la somministrazione e la sorveglianza degli eventuali effetti a breve termine»: risulta quindi evidente che gran parte della fase operativa e strategica sia sostanzialmente demandata alle autorità regionali e già questo potrebbe bastare per comprendere il motivo di risultati così diversi da regione e regione.

Il numero delle persone vaccinate, la percentuale di vaccini che rimangono inutilizzati, perfino…

L’articolo è tratto da Left del 2-8 aprile 2021

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Non ce n’è Covvidi!

I dati relativi all’andamento del contagio Covid che Regione Sicilia inviava quotidianamente all’Istituto superiore della sanità venivano alterati diminuendo il numero dei positivi e alzando il numero dei tamponi per rientrare nei parametri che evitano nuove restrizioni. È l’accusa rivolta dalla procura di Trapani ad alcuni dipendenti del Dipartimento regionale per le Attività sanitarie e osservatorio epidemiologico (Dasoe) dell’Assessorato della Salute della Regione Sicilia, indagati per falso materiale e ideologico. Per il giudice per le indagini preliminari si è trattato di un «disegno politico scellerato». E non si tratterebbe di qualche caso isolato: secondo la procura sarebbe accaduto almeno 40 volte. Si tratterebbe di un atteggiamento sistematico.

I dialoghi tra l’assessore alla Sanità della Regione Ruggero Razza (che ieri ha rassegnato le dimissioni) al telefono con la dirigente del Dasoe Maria Letizia Di Liberti sono di quelli che fanno venire la pelle d’oca per la ferocia e per il disinteresse verso la salute pubblica: discutono dei numeri dei morti dicendosi «Ma sono veri?». «Sì, solo che sono di tre giorni fa». «E spalmiamoli un poco…». «Ah, ok allora oggi gliene do uno e gli altri li spalmo in questi giorni, va bene, ok. Mentre quelli del San Marco, i sei sono veri e pure gli altri cinque sono tutti di ieri… quelli di Ragusa, Ragusa cinque! E questi sei al San Marco sono di ieri.. perché ieri il San Marco ne aveva avuti ieri altri cinque del giorno prima, in pratica. Va bene? Ok». «Ok». «Ciao, ci metto questi io».

Allo stesso modo ci si comportava con i nuovi contagi: «61 Agrigento, 75 Caltanissetta, 90 Catania, 508 Palermo…», snocciola il funzionario Salvatore Cusimano, uno dei tre dirigenti regionali finiti agli arresti domiciliari. Dati che fanno saltare sulla sedia Di Liberti, che urla: «Ma che dici? Ma che dici? No, scusa non può essere, se sono quei i dati definitivi, Palermo va in zona rossa subito, subito». E la zona rossa, come è accaduto anche dalle parti di Bergamo in Lombardia a inizio pandemia, deve essere evitata per non perdere soldi.

Allora conviene fare un passo indietro, al 5 novembre scorso, quando il presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci sparava fuoco e fiamme contro il governo nazionale per le restrizioni imposte alla sua regione: anche in quell’occasione aveva parlato di un complotto antisiciliano, di un governo che chiudeva tutto senza «evidenza di dati» e di una «Sicilia senza colpe». Accade in Sicilia ma è un refrain a cui ormai siamo abituati: le restrizioni viste come “una punizione” possono essere buone per la propaganda di qualche complottista ma che a lanciare l’accusa siano stati spesso dei presidenti di Regione ha alimentato non poco l’idea di una dittatura sanitaria appiattendo un dibattito che invece meritava (e merita) di essere fatto senza che sia sempre e solo propaganda e scontro.

Non è una questione di profili penali (quelli ci penserà la giustizia a approfondirli): si tratta di un uso spregiudicato del potere che sembra non avere mai la capacità di valutare la salute pubblica serenamente, senza metterla in competizione con il fatturato. Siamo sempre qui, siamo ancora qui. E forse la questione è molto più larga della semplice Sicilia: da mesi molti analisti (gente che i numeri li maneggia per mestiere) segnalano “stranezze” nei dati giornalieri. E il dubbio è che il tempo ci mostri il vero volto del potere in questa pandemia. E non sarà un bel vedere.

Buon mercoledì.

* In foto, l’assessore alla Sanità della Regione Sicilia Ruggero Razza e il governatore Nello Musumeci

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Contro i furbetti dei vaccini il governo dei migliori scontenti gli egoriferiti governatori e cambi passo

Qualcuno prova a dirlo fin dall’inizio della pandemia, quando il problema erano le difformi azioni intraprese dalle diverse regioni con i rispettivi presidenti nel ruolo di sceriffi per racimolare un po’ di facile consenso, e oggi alla luce di una campagna vaccinale che di nazionale ha solo il nome e che vede le regioni andare in ordine sparso forse sarebbe il caso di scriverlo con ancora più forza perché c’è un modo, stabilito dalla Costituzione e dalle leggi, per cambiare passo per davvero: smetterla di dipendere dalle capacità organizzative delle regioni e avocare allo Stato tutte le competenze della campagna vaccinale.

È vero, la riforma del Titolo V ha demandato alle regioni la gestione della sanità sotto il controllo dello Stato centrale ma una campagna vaccinale di queste proporzioni e di questa urgenza rientra nelle competenze dello Stato perché attiene alla dimensione collettiva della salute (come dice l’articolo 32 della Costituzione) e perché rientra in un piano di profilassi internazionale (art. 117, c. 2, lett. q, Costituzione). Anche la legge di bilancio nel comma 458 del suo articolo I prevede il potere del Commissario straordinario di sostituirsi alle regioni «in caso di mancata attuazione del piano o di ritardo».

Ad oggi siamo fermi al Piano strategico per la vaccinazione anti-SARS-CoV-2 elaborato lo scorso 12 dicembre dal ministero della Salute e attuato con decreto ufficiale dello scorso 2 gennaio poi aggiornato l’8 febbraio. In quel piano risulta che il compito dello Stato sia limitato alla definizione delle «procedure, gli standard operativi e il layout degli spazi per l’accettazione, la somministrazione e la sorveglianza degli eventuali effetti a breve termine». Troppo poco per avere davvero la capacità di coordinare un’operazione di queste dimensioni e per attivare il controllo «per garantire (come si legge nel Piano) l’implementazione dei piani regionali di vaccinazione e il loro raccordo con il Piano Nazionale di Vaccinazione».

Nella dicitura nazionale degli “altri servizi essenziali”, ad esempio, ogni Regione ha deciso di andare per conto proprio includendo chi gli insegnanti, chi i magistrati, chi gli avvocati e favorendo inevitabilmente l’intrufolarsi dei furbetti dei vaccini: per questo Figliuolo si è ritrovato a dover definire con più precisione le “categorie estremamente fragili” eliminando gli “altri servizi essenziali” per provare a fare un po’ di ordine. Allora se questo è il Governo dei migliori, o comunque dei più coraggiosi, si prenda la briga di rischiare di scontentare i presidenti di Regione più egoriferiti e i partiti (che tra l’altro sono quasi tutti al comodo in maggioranza) e cambi passo per davvero con gli strumenti giuridici a disposizione. Altrimenti la sensazione è il solito decisionismo annacquato che non funziona contro il virus.

L’articolo Contro i furbetti dei vaccini il governo dei migliori scontenti gli egoriferiti governatori e cambi passo proviene da Il Riformista.

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Luigi de Magistris: «La Calabria non sarà più la periferia d’Europa»

Luigi de Magistris, a pochi mesi dalla fine del suo doppio mandato come sindaco di Napoli, è pronto a ributtarsi in un’altra sfida politica che appare impossibile: diventare presidente della Calabria così sempre uguale a se stessa e farlo da ex magistrato che proprio lì, in Calabria, ha vissuto i suoi momenti più difficili. Gli abbiamo chiesto sensazioni e prospettive.
De Magistris, perché questa decisione di candidarsi come presidente proprio in Calabria?
È stata una scelta imprevedibile e imprevista. Non era nei programmi. Poi, a dicembre dell’anno scorso, sono arrivate una serie di sollecitazioni da persone che conosco e che mi hanno conosciuto nel corso degli anni, da amici, e hanno cominciato a chiedermi se fossi disponibile. Devo ammettere che all’inizio non ci pensavo molto, poi ho cominciato a rifletterci. La condizione vera è il mio amore per la Calabria: una terra a cui sono legato fin da bambino, in cui ho vissuto dieci anni e in cui per nove anni ho lavorato come pubblico ministero. È una scelta di passione e di amore legata a un progetto politico, all’idea di un laboratorio che possa realizzare la rottura di un sistema e la costruzione di un buon governo credibile attraverso storie e persone con le quali ci stiamo connettendo giorno dopo giorno. La definirei una scelta di profondo amore legato alla Calabria.
Però vista anche la sua vicenda personale, ciò che la Calabria le ha portato in passato, vedendo anche i risultati delle tornate regionali, non le viene il dubbio, come dicono alcuni, che sia una terra irredimibile?
No. È una terra fertile che una certa politica ha voluto desertificare rendendola arida e incoltivabile. Io credo che la Calabria – l’ho visto con i miei occhi e quindi ne sono testimone – sia ricca di storie personali e collettive straordinarie; penso al mondo della cultura, dell’impresa, dell’agricoltura, dell’artigianato. Penso all’impegno forte nel campo dell’ambientalismo e della lotta alle mafie. È una ricchezza che non ha mai trovato, soprattutto a livello regionale, un’adeguata rappresentanza politica.
A proposito di lotta alle mafie, c’è in corso in Calabria un processo storico come Rinascita-Scott e la sensazione è che ci sia intorno un evidente calo di attenzione non solo da parte dei media ma anche da parte dei cittadini. L’antimafia è passata di moda?
Che ci sia un calo di attenzione lo registro soprattutto a livello politico nazionale, il tema non fa parte più di un’agenda prioritaria. Rinascita-Scott è un processo molto importante. Che per tanti anni si sia abbassata l’attenzione, lo dimostra il fatto che uno dei principali imputati di quel processo, l’avvocato Pittelli, fu da me coinvolto in maniera forte nelle due indagini che mi furono sottratte illegittimamente, Poseidone e Why not, e anche all’epoca avevamo ricostruito il suo ruolo di anello di collegamento tra settori della criminalità e settori delle professioni, delle istituzioni, della politica e della magistratura. Ora siamo a 13 anni dopo. Pensate quanto questo personaggio avrà fatto in questi 13 anni. Se 13 anni fa ci fu un potere che ci fermò significa che c’è stato un clima…

L’articolo prosegue su Left del 26 marzo – 1 aprile 2021

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San Fatturato

La sentite l’aria che tira? A volte basta mettere insieme un po’ di pezzi, provare a ricomporre le tessere per farsi un’idea del punto in cui siamo, anche perché la preoccupante uniformità di pensiero che si respira ottunde le sensazioni e non c’è niente di meglio delle sensazioni ottuse per inseguire interessi particolari che così sfuggono più facilmente.

Ricapitoliamo: a inizio pandemia si sviluppa un pericoloso focolaio nella bergamasca che provoca una strage di cui abbiamo memoria per i camion militari costretti a trasportare le bare. Ci si interroga (anche la magistratura) sul perché non sia stata istituita per tempo una “zona rossa” che avrebbe potuto limitare i danni e Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, rilasciò una sconcertante intervista in cui disse testualmente che erano «contrari a fare una chiusura tout court così senza senso» e di averne parlato direttamente con la Regione: «Ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse. Non si poteva fermare la produzione», disse.

Poi, pensateci: in un anno di pandemia abbiamo visto puntare il dito un po’ contro tutti, siamo passati dagli anziani che pisciano il cane ai corridori agli spiaggiati agli aperitivisti alle scuole – presumibilmente saremmo passati anche ai cinema e ai teatri, ma sono chiusi da un’eternità – e chi poi ne ha più ne metta. Niente su fabbriche e pochissimo sui pendolari. Il mondo del lavoro (soprattutto quello produttivo) sembra immune al virus, se fate la rassegna stampa di quest’anno.

In compenso certa stampa si è lanciata in un piuttosto ridicolo sforzo per dirci che fare il rider è un lavoro bellissimo: ve li ricordate quei giorni in cui si leggevano articoli che favoleggiavano di ciclisti che guadagnavano 4mila euro al mese (poi si scoprì che non era vero) tanto per convincerci che chi non trova lavoro è uno sfaticato e chi è povero è un fallito? Ecco, tenetelo a mente.

Poi. Qualche giorno fa Bonomi ha rilasciato un’intervista da brividi in cui ha chiesto di avere più possibilità di licenziare per rilanciare il lavoro. E nessuno che gli ha riso in faccia, pensa te.

Poi ve la ricordate Letizia Moratti che chiedeva di vaccinare in base al Pil? Prese gli applausi dei soliti turboliberisti ma poi fece un po’ marcia indietro. Bene: ieri Regione Lombardia (la disastrosa regione che non riesce a vaccinare poco più di qualche manciata di anziani che dovrebbero essere una priorità) ha annunciato in pompa magna di avere stretto un accordo con Confindustria (questa volta alla luce del sole) per vaccinare i dipendenti nelle aziende. Qualcuno ha fatto notare che forse ci sono altri problemi a cui dedicarsi e loro hanno risposto che sì, sì ma hanno fatto la conferenza stampa solo così per dire.

Tutto questo mentre ci si prepara per l’ennesima volta al lockdown che ci permetterà di uscire per andare a lavorare, di respirare aria aperta per tornare indietro e addirittura di avere una libera uscita per andare a comprare cibo.

Straordinario.

Buon giovedì.

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