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integrazione

Gli infelici che impazziscono della felicità altrui

Ci sono persone che non riescono a essere soddisfatte di se stesse completamente senza odiare qualcuno, qualcosa, qualche nazione. Le riconosci perché cominciano ogni frase con un “ma” che è una roncola contro qualcuno

Sono persone che agiscono per sottrazione, che non riescono a immaginare una vita e un mondo in cui si possa aggiungere qualcosa, sono quelli ossessionati dal non essere all’altezza e siccome sono dei nani vedono giganti dappertutto e li chiamano intellettuali professoroni quando semplicemente usano gli altri come fondotinta per coprire le proprie insicurezze e le proprie brutture.

Gli infelici li riconosci perché impazziscono di fronte alla felicità altrui e fanno di tutto per smontarla, inetti come sono a costruirsi la propria felicità. Sono gli stessi che per reclamare i propri diritti riescono al massimo a volere che vengano tolti diritti anche agli altri, tutto per sottrazione, sempre per sottrazione.

Schivate gli infelici che impazziscono della vostra felicità, statene lontani, non nutrite la loro bile procurandovi inutili preoccupazioni: ci sono persone che non riescono a essere soddisfatte di se stesse completamente senza odiare qualcuno, qualcosa, qualche nazione. Li riconosci perché prendono un particolare, spesso ininfluente, per costruirci sopra un ragionamento utile solo a confermare (in modo fallace) i loro pregiudizi e di solito hanno bisogno di allungarsi la credibilità con qualcosa di lussuoso perché confondono la nobiltà d’animo con il possesso di oggetti.

È un intossicamento continuo che si riflette dappertutto: in politica odiano, nel lavoro malelinguano, nei rapporti sociali invidiano e in società si travestono da signorotti pienotti mentre poi cavalcano un bonus e una cassa integrazione. Sono borghesotti di provincia che hanno il terrore di esplorare anche solo la modifica di una, una solo, delle loro modeste abitudini.

Li riconosci perché cominciano ogni frase con un “ma” che è una roncola contro qualcuno.

Respirate liberi, alti, non convenzionali.

Buon venerdì.

(ps: so che vi aspettavate qualcosa su Montanelli, ma non alimenterò la sua petulante agiografia sprecando un boicottaggio)

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Abolire i Decreti Sicurezza, piuttosto che inginocchiarsi?

La vicenda di come la politica italiana stia declinando qui da noi ciò che accade negli Usa è altamente indicativa di una messa in scena che sembra avere preso il sopravvento sulle responsabilità di governo. Alcuni membri del Parlamento, di quelli che al governo ci sono, hanno deciso di inginocchiarsi come segno di solidarietà per la morte di George Floyd e per i diritti di tutti gli oppressi di qualsiasi etnia. Il gesto ha un’importante valenza simbolica, soprattutto alla luce della narrazione tossica che certa destra sta facendo della rivoluzione culturale in atto negli Usa che qualcuno vorrebbe banalizzare in qualche vetrina spaccata perdendo il focus e il senso del tutto.

Bene i simboli, benissimo. Però da un governo che si dice solidale con chi sta lottando contro la discriminazione ci si aspetterebbero anche degli atti politici, mica simbolici. I decreti sicurezza di salviniana memoria, ad esempio, sono una perfetta fotografia: criticati da ogni dove quando furono applicati durante il governo Conte I divennero la bandiera del centrosinistra su ciò che non si doveva fareAll’insediamento del Conte II ci dissero che l’abolizione di quei decreti sarebbe stata una priorità. La priorità è praticamente scomparsa. E pensandoci bene è scomparso anche tutto il dibattito sullo ius soli e sullo ius culturae che nessuno da quelle parti ha nemmeno il coraggio di pronunciare.

Così noi dovremmo accontentarci di una classe politica che fa esattamente quello che possiamo fare noi semplici cittadini scendendo in piazza come se non avessero loro le leve per modificare le cose. È tutto solo manifestazione d’intenti come se fossimo in eterna campagna elettorale e non ci sia un governo regolarmente insediato. Se invece il problema sta nell’alleanza con il Movimento 5 Stelle che è contrario all’abolizione dei decreti e a un serio percorso di integrazione e di diritti allora sarebbe il caso di dirlo e di dirlo forte per chiarire il punto agli elettori disorientati.

Non si governa con i simboli. Non basta più. I dirigenti non manifestano, agiscono.

Buon mercoledì.

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“Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego

Igiaba Scego è una scrittrice di origini somale che vive a Roma. Da sempre si occupa di stranieri, di integrazione e di diritti. Il suo ultimo libro è “La linea del colore” edito da Bompiani che ha come protagonista una donna afroamericana dell’ottocento che scopre l’Italia. L’abbiamo intervistata per TPI.

Negli USA è in atto una vera e propria rivoluzione culturale. Lei si occupa da anni di questi temi, come vede la narrazione di ciò che accade?
Due tipi di narrazione. Quella dei media mainstream che non hanno capito niente di quello che sta succedendo: stanno osservando questi movimenti con delle lenti molto vecchie e anche sbagliate. Quando mi tolgo gli occhiali io che sono miope vedo tutto sfocato e molti media mi hanno dato questa stessa sensazione, tranne alcune eccezioni come la giornalista de Il Manifesto Marina Catucci, veramente puntuale, Arianna Farinelli, Martino Mazzonis. Questo mi ha meravigliato perché l’immaginario statunitense è molto popolare, si pensa “almeno li conosciamo” e invece no. Noto la stessa nebulosità che scorgo quando si parla di Africa. Poi per fortuna c’è quella che arriva da giornali e esperti in lingua originale. E devo dire che è quello che mi ha aiutato ad orientarmi. Per esempio non mi perdo mai i commenti della professoressa Ruth Ben Ghiat che da anni ci spiega i meccanismi dello stato americano.

Quale distorsione nota più delle altre?
Questo parlare di saccheggi piuttosto che parlare del cuore del movimento. Molti giornali non hanno raccontato ai lettori cosa c’era prima, quei 400 anni di oppressione. Mancano ponti tra qui e lì. Io sono scrittrice e la stessa cosa la vedo nell’editoria: l’editoria italiana ha pubblicato negli ultimi anni moltissimi afroamericani ma non c’è stato quel passaggio necessario da editoria ai giornali e media in genere che aprisse un sano dibattito su questi libri e permettesse una loro diffusione anche scolastica.

Quindi si è perso ciò che è avvenuto negli anni precedenti, non ci sono stati ambasciatori e ponti. Si arriva così a non capire perché questa lotta è così lunga, non si riflette sulla genesi della schiavitù, questo è un grosso gap scolastico che non ha permesso a molti italiani di capire fenomeni come schiavitù, segregazioni negli USA e perfino lotte per i diritti civili. Pochi hanno letto Toni Morrison, anche tra i professionisti dell’informazione. E quindi mi ha colpito questo indugiare su aspetti marginali senza andare al cuore del problema. Manca una preparazione all’America, io ho visto “molta ignoranza”. Molto non sapere. Quello che si conosce è solo superficiale.

Negli USA il dibattito si è aperto non solo sulla violenza che ha portato per ultimo alla morte di Floyd, ma anche sulla profilazione razziale delle Forze dell’Ordine. C’è un razzismo insito anche nella gestione italiana secondo lei?
Sulla polizia non saprei dirti. Posso dirti che loro, negli USA, hanno questa storia di schiavitù ma da loro anche chi è contro i neri sa cosa è successo mentre in Italia quello che c’è dietro di noi, come il colonialismo, non è molto conosciuto, c’è una rimozione totale e non ci fa capire che quegli stereotipi continuano a agire sui corpi del presente. A me ha sempre colpito come per esempio le leggi italiane sull’immigrazione si basino quasi sempre su un modello astratto, su questo cosidetto altro che non è un potenziale cittadino ma un potenziale suddito coloniale, il modello è quello del sudditto somalo, eritreo o libico dei tempi del colonialismo italiano. si continua cos’ a perpetuare l’idea dello straniero nella legislazione come suddito, una persona senza diritti.

Non è un caso che la Bossi-Fini e i Decreti Sicurezza più la mancata riforma sulla cittadinanza siano delle costanti nella politica italiana, perché vale lo ius sanguinis e non lo ius soli o lo ius culturae, un Paese trincerato nel suo sangue che poi se lo andiamo a “analizzare” storicamente questo famigerato sangue risulta essere è quello più meticcio del mondo. Questo mi sconvolge, questa storia passata mai discussa che si ripresenta in forma di legge e ci incasina il presente, il modello è ancora quello coloniale sarebbe interessantissimo che i giuristi ci lavorassero su questo, su come decolonizzare le leggi perché sono troppo pieni di passato.

Vede dei casi di razzismo endemici in Italia, anche da parte di quelli che non sono consapevolmente razzisti?
Il razzismo in Italia non è solo anti nero ma è anche anti meridionale. Ad esempio due ore fa stavo andando al supermercato, dove due persone stavano litigando e un signore ha detto a una signora “sporca calabrese”. Qui c’è una questione meridionale che è la mamma di tutti i razzismi italiani, quello che è stato fatto al Sud è lo stesso trattamento riservato alle colonie. Quando avevo 25 anni avevo fatto un colloquio di lavoro vestita come sono sempre vestita e la persona che avevo davanti mi ha detto “lei è musulmana, si vede” io gli ho detto “deve farmi colloquio di lavoro” e lui “ma voi volete pause di preghiera e ramadan”: sono uscita e ho pianto, è un razzismo altrettanto umiliante. Ho smesso perché ai tempi mi vedevano e mi dicevano sempre no. Lo vedi dallo sguardo e poi c’è stato tanto razzismo biologico, dalle elementari mi chiamavano sporca negra e mi hanno buttato un barattolo di coleotteri in testa “perché sono neri come te”. Oppure odiavo negli anni ’90, ero ancora adolescente, quando si fermavano le macchine mentre stavo alla fermata ad aspettare il bus e ti facevano vedere i soldi chiedendo sesso orale, perché nera significava prostituta.

Io ho imparato a schivarli anche. Ho imparato a reagire. Mia madre dice che il razzismo non lo combatti urlando, ma lo combatti con la riflessione e la conoscenza anche quando sei nel mezzo del disastro, lei mi ha sempre detto di uscirne con una frase arguta, è l’unico modo. Mia madre, James Baldwin e Malcom X sono stati i miei maestri nell’usare la riflessione, le parole, per questo scrivo. Volevo capire come mai mi succedevano una serie di cose e volevo capire qual era la radice, sempre storica. In tutto questo ho trovato molti alleati, penso alla mia professoressa di italiano alle superiori, ai professori universitari che mi hanno dato strumenti che mi hanno cambiato la prospettiva. Sandro Portelli mi ha insegnato molte cose della vita, con l’Italia che ha tutte l sue complicazioni. Ho applicato la strumentazione che loro hanno applicato alla loro lotta e alla loro riflessione teorica.

Come le sembra il dibattito politico italiano sul tema?
Qui non c’è dibattito. Qui il dibattito è finito con il tradimento sulla legge sulla cittadinanza. Poi si è riesumato un discorso sulle regolarizzazioni molto mercantile. Io ho questa sensazione di tante lotte fatte anche collettive: afrodiscendenti, albanesi, arabi, sudamericani, i loro figli nati qui italiani senza diritti e poi anche moltissimi italiani bianchi… Ecco tutti noi ci siamo ritrovati dal 2005 fino al governo Renzi a lottare in piazza, cambiavano le piazze, c’erano tanti bambini e tecnicamente con le scuole abbiamo lavorato moltissimo (penso a due scuole di Roma in particolare la Pisacane e la Di Donato i cui professori si sono spesi tantissimo per far avere diritti ai loro studenti) , però poi questa lotta è stata tradita da tutto l’arco costituzionale: la destra ha fatto ostruzionismo ma gli altri l’hanno reso possibile ed è una cicatrice che mi fa molto male.

Poi c’è stata la raccolta firme dei Radicali e quella era una buona iniziativa ma poi a causa degli eventi caduta nel vuoto e adesso il dibattito è stato sulle regolarizzazioni perché servivano braccia per l’ortofrutta e basta. Queste persone cadono in irregolarità per un meccanismo della Bossi-Fini, sono ricattabili in situazione di pandemia, dovremmo avere più persone regolari possibili ma così è stato un mercato degli schiavi. Io capisco gli sforzi di chi ha chiesto la regolarizzazione ma il risultato è stato misero. Servirebbe più coraggio: l’Italia non può pensare che sia un tema possibile da scacciare in eterno, il Paese è già cambiato, io alla manifestazione per George Floyd a Roma ero con i miei 46 anni vecchia in confronto a chi è sceso in piazza. Tu vedi che hai seconde e terze generazioni, più di 50 anni di popolazione transculturale che ha varie origini. Ma ancora tutto questo non si trasforma in quotidianità. E come se ci fossero enormi barriere. Così non vedi maestri, autisti dell’autobus, professori con altra origine: alcuni luoghi del lavoro non sono al passo con i tempi. Anche nell’editoria.

Lei è fiduciosa che la lezione che arriva dagli USA possa avere un impatto importante anche qui?
Secondo me quella americana è una grande rivoluzione culturale perché gli afrodiscendenti sono legati tra loro, è una rete, per noi sono un modello e quello che sta succedendo negli Usa è clamoroso, è una rivoluzione culturale, non è solo rabbia per Floyd ma è un momento che è stato preparato negli ultimi 20 anni. Da loro la cultura è sempre stata forte, nella musica nella letteratura, i premi Pulitzer quest’anno molti erano neri e penso al disco di Beyoncè di alcuni anni fa tutto sull’identità nera. Questo forse spingerà pure noi qui ad avere una riflessione più ampia e profonda, probabilmente ci spingerà a produrre più libri, più musica, più film, più lotte sociali e non solo afrodiscendenti, perché l’Italia ha una migrazione a mosaico, complessa, fatta di tante diversità che vanno dall’Est Europa al Sudamerica.

Già vedo dei talenti per esempio del giornalismo come Angelo Boccato e Adil Mauro che non parlano solo di immigrazione o della loro identità, ma usano il loro sguardo per riflettere sui nodi della società. Adil e Angelo mi fanno ben sperare per il futuro. Ma ecco tutto deve partire da una riflessione anche storica che attraversa il dolore che abbiamo provato, In Italia nel 1979 un uomo somalo, Ahmed Ali Giama, in piazza della Pace a Roma è stato bruciato viva e Giacomo Valent nel 1985 è stato ucciso con 63 coltellate, era il fratello della prima eurodeputata nera Dacia Valent, ho scritto per Feltrinelli su questo (“Politica della violenza”, Feltrinelli Editore). In Brasile c’è stata Marielle Franco e ognuno sta producendo cultura e rivendicazioni partendo dalle proprie ferite, dai propri martiri e chiaramente questo momento rimarrà a lungo e potrà provocare cambiamenti perché i cambiamenti sono sempre prima culturali e poi sociali.

Leggi anche: 1. Quanti contagi possono causare le proteste in Usa? Un virologo ha provato a calcolarlo / 2. Si sposano in mezzo alla protesta per George Floyd a Philadelphia: “È stato ancora più memorabile” /3.  George Floyd, Minneapolis smantella il dipartimento di polizia: “Vogliamo un nuovo modello di sicurezza” /4. Banksy e l’omaggio a George Floyd: “Il razzismo è un problema dei bianchi”

L’articolo proviene da TPI.it qui

No, Mahmood non è un esempio di integrazione. Mahmood è italiano


Si sente in giro che la vittoria di Mahmood (che di nome si chiama Alessandro, notate che effetto diverso farebbe chiamarlo così?) ha scatenato come sempre le solite tifoserie (tristissime) sulla purezza della razza. Qualcuno invece ha preso un abbaglio è ha voluto prendere la sua storia come modello di integrazione. Peccato che qui non ci sia niente da integrare: Alessandro è nato a Milano, Alessandro è italiano.
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La terza via dell’integrazione

(Riccardo Staglianò su Venerdì di Repubblica)

Brescia. Le tre sorelle arrivano a braccetto. Una piccola legione compatta e sorridente. L’appuntamento è davanti all’entrata dell’università, ora di punta. Sms: «Come vi riconosco?». Messaggino di risposta: «Portiamo il velo». In verità solo Asmaa e Hasna Bouchnafa, gemelle ventiquattrenni e studentesse di ingegneria, lo indossano. Dounia, appena maggiorenne, ha lunghi e vaporosi capelli castani. Ci sediamo in un’aula deserta. Chiacchieriamo un bel po’ prima di arrivare al punto: «È cambiato qualcosa al tempo dell’attentato al Bardo, le decapitazioni in streaming e i morti a Parigi?». Quel giorno un collega di Hasna, che per mantenersi agli studi fa turni di otto ore in una fabbrica di componentistica per auto, è andato da lei a brutto muso: «Voi avete ammazzato sei persone!». La ragazza non se l’aspettava. Ha balbettato qualcosa, si è addirittura scusata prima di riaversi e dire che no, le dispiaceva moltissimo per le vittime, ma lei non aveva ammazzato proprio nessuno. Intanto in classe di Dounia, che frequenta un istituto professionale per la finanza, una solerte prof aveva fatto irruzione in classe per chiedere a tutti di pronunciare l’ultima versione del giuramento di fedeltà all’occidente: «Ma io non l’ho fatto. Condanno gli assassini, ma non sono Charlie. Per il semplice fatto che quella rivista mi ha offesa, in quanto musulmana. E ho il diritto di poterlo dire». Né con l’Is, né con gli spernacchiatori del Profeta. Questa, provando a riassumere conversazioni con persone diversissime tra loro che solo l’elementare retorica leghista mette in caricatura come un pericoloso monolite, è la terza via bresciana. Doppiamente interessante perché è espressione di un posto dove gli immigrati sono molti, quasi tre volte la media nazionale (il 22 per cento dei residenti), e molto integrati, perché questi lombardi ruvidi ma pragmatici tendono a misurare gli uomini con il metro laicissimo della voeuja de laurà. Almeno fino a oggi.

A complicare il quadro, giorni dopo la mia visita la polizia ha arrestato ed espulso Ahmed Riaz, un trentenne pakistano con frequentazioni jihadiste su internet. E una settimana dopo la procura locale ha smantellato una cellula terrorista composta da due albanesi e un piemontese.

Fin qui tutto bene ripete, a ogni piano che supera, l’uomo che precipita dal grattacielo nel film di Kassovitz sull’odio nelle banlieues. Perché l’importante non è la caduta, ma l’atterraggio. È un’associazione di idee facile davanti a questo cilindro di sedici piani di cemento armato in cui otto campanelli su dieci sono di nomi arabi, africani, indiani. Il quartiere di San Polino è un satellite recente della città, dove gli italiani sono l’intruso del vecchio gioco enigmistico. Akram scende a prendermi in ciabatte. Ha finito di lavorare alle sei, l’ho chiamato alle sette e nonostante fosse ora di cena mi ha detto di andare a casa sua, che avrebbe preparato del tè. Nato in marocco ventidue anni fa, ha i capelli corti nerissimi come gli occhi e un bel viso. È arrivato qui dieci anni fa, ha fatto medie e superiori prima di approdare nell’azienda metalmeccanica per cui fa rettifiche e controlli qualità. Su sette dipendenti quattro immigrati, al punto che il titolare ha imparato un po’ di arabo con cui azzarda battute non sempre divertenti. Il fatidico 7 gennaio un collega sbotta: «Bombardiamoli tutti». Parla dell’Is, verosimilmente, ma Akram gli fa notare che non è gente che vive nel deserto e morirebbero tanti, troppi civili. Segue escalation verbale. A raccontarlo il ragazzo diventa ancora paonazzo: «Quelli che hanno ucciso non mi rappresentano, mi fanno schifo e se vengono sono pronto a combatterli. Io sono cresciuto qui, questa è la mia terra e in Marocco ci vado solo per vacanza. Ma sono, siamo stufi di giustificarci». All’indomani degli attentati parigini, ricorda, su Facebook era la sagra dell’islamofobia: «Il commento più gentile che ho trovato era “muori musulmano”». In quei giorni le varie comunità islamiche di Brescia hanno organizzato una manifestazione per una condanna pubblica. Akram voleva organizzarne un’altra per rivendicare la distinzione cui hanno già accennato le sorelle Bouchnafa: «Noi non siamo Charlie Hebdo». Articola: «Perché se offendono gli ebrei scatta l’accusa di antisemitismo e se lo fanno con noi va bene?». Il tema del doppio binario tornerà spesso. Un’altra parola che ritorna nell’arringa di Akram è «rispetto», termine-spia di una frustrazione al livello di guardia. Dunque: «Prima di giudicarci studiate il vero Islam, che non ha niente a che fare con il terrorismo».

(continua qui)

Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

La dignità nelle parole

Condivido questo video perché nonostante il clamore e la polvere su Tor Sapienza e sulle periferie e nonostante la continua legittimazione sotto traccia del razzismo, le parole di Carlotta Sama hanno un suono che riporta a fare pace con il mondo e nonostante la delicatezza del tono impongono principi costituzionali che hanno bisogno di essere ricordati:

(Grazie a Laura Caputo per la segnalazione)

#nonmifermo il programma che stiamo costruendo: integrazione, cooperazione e diritti degli immigrati

Sarà che siamo ostinati e contrari ma alla fine l’agorà di Non Mi Fermo a Bergamo è diventata anima, spunti e programma. Forse perché è giovanile e giovanilistico occuparsi dei comunicati stampa che rilanciano un hashtag su twitter e invece le proposte costano curiosità e la curiosità, si sa, costa fatica. Claudio mette in fila le parole della giornata e le condensa in un programma politico dei punti che vogliamo sostenere. Non è una lista ma è civica lo stesso, forse. Intanto noi stiamo già chiudendo il programma della prossimo incontro. A Brescia.

Molte idee e proposte hanno caratterizzato la nostra recente agorà (Bergamo, 12 maggio) dedicata a “inte(g)razione contro il razzismo”. Fra queste, riportandole su base tematica, ne cito alcune su cui stiamo lavorando per farne proposte politiche.

Valutazione degli impatti discriminatori su immigrati e minoranze.

Una proposta molto concreta è giunta durante il suo prezioso intervento di apertura da Luciano Scagliotti, già Presidente Enar ed esperto di razzismo. L’assunto è molto semplice. Se da una lato è indispensabile che non esistano diritti diversi o differenziati a seconda della provenienza di una persona; dall’altro, per prevenire ogni forma di discriminazione razziale, essa dovrebbe essere contrastata “ex ante”, ovvero già in fase di elaborazione normativa.

La proposta è dunque quella di istituire – sia a livello locale che nazionale –commissioni interne alle istituzioni (ovvero, senza alcun costo aggiuntivo per le stesse) con il compito di valutare i possibili impatti di leggi, ordinanze o disposizioni in termini di discriminazione su immigrati e minoranze.

Così come esiste in molti casi l’obbligo di valutazione d’impatto ambientale, la stessa cosa può essere fatta in una prospettiva anti-discriminatoria affinché siano tutelati i principi d’uguaglianza e i diritti inviolabili della persona, per altro come già espresso così bene nella nostra Costituzione.

Art. 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,economica e sociale.

Revisione/abrogazione dell’attuale legislazione “speciale”

Riaffermare con forza i diritti fondamentali della persona significa cercare di garantirne l’esercizio in primis a tutte quelle fasce in difficoltà perché deboli ed emarginate per motivi di natura culturale o razziale.

Gli stranieri in Italia rappresentano ormai il 10% della popolazione residente e, sebbene contribuiscano pienamente al loro dovere di cittadini (rispettando le nostre leggi o pagando contributi e tasse), ancora non sono riconosciuti come tali dalla legislazione vigente. Così come non lo sono i loro figli che, anche se nati in suolo italiano, si trovano di fatto a non avere patria. In questa direzione s’inseriscono – e a ragione – le battaglie, tutte sacrosante, per il riconoscimento del diritto al voto e di cittadinanza, ma più in generale qui dovrebbe rientrare un processo di rinnovamento legislativo più ampio a difesa dei principi d’uguaglianza.

Perché la legge non è uguale per tutti. Certamente non è uguale per gli stranieri che in Italia lavorano, vivono e qui hanno costruito una vita. E non si tratta solo dell’attuale sistema d’ingresso e gestione dei flussi sancito prima dalla “Turco-Napolitano” e infine dalla “Bossi-Fini”. Qui contano anche le piccole cose: la difficoltà di rinnovo dei permessi; le complicazioni burocratiche (meno file più autocertificazioni); l’assistenza sanitaria. Siamo convinti che la politica italiana abbia finora affrontato il tema dell’immigrazione prevalentemente attraverso una cultura dell’emergenza (l’immigrazione come problema), senza essere stata invece capace di coglierne la straorinaria opportunità dal punto di vista economico e sociale. L’immigrazione e la diversità andrebbero considerati per quello che sono: un riflesso fisiologico della storia dell’umanità e, per questo motivo, un valore fondante del progresso umano. Ed è solo partendo da questa prospettiva che le forze di “centro-sinistra” dovrebbero impegnarsi insieme per una politica inclusiva e solidaristica, che abbia come obiettivo l’abrogazione di ogni legge o prassi burocratica pensata in termini “speciali”.

Campagna d’informazione sul popolo e la cultura Rom, Sinti e Caminanti

Quante volte abbiamo sentito ripetere che i Rom sono sporchi, rapiscono i bambini, rubano?

Sono questi solo alcuni dei più tipici pregiudizi che ricorrono intorno ai Rom presenti in Italia. Semplici pregiudizi di carattere razziale spacciati per fatti o verità storiche. Insomma, semplice e barbaro razzismo. Eppure, di queste menzogne sono pieni persino le pagine dei nostri quotidiani così come le dichiarazioni di numerosi politici (non solo leghisti).

Piccole o grandi che siano queste bugie quotidiane svelano i pericolosi effetti dell’ignoranza e della mancanza di conoscenza. È dunque importante ripristinare la verità. Per esempio, quella dei fatti e della storia. In Italia la condizione in cui si trovano a vivere Rom, Sinti e Caminanti è al limite dell’incostituzionalità, se non già abbondantemente oltre. Ce lo raccontano così bene persone come Pino Petruzzelli (qui un suo video a TED, qui il suo intervento a Bergamo), attore e scrittore, e Romana Vittoria Gandossi (qui il suo intervento a Bergamo), insegnante in pensione che vive nel bresciano, più precisamente in quel di Adro, nota alle cronache nazionali per alcuni episodi di razzismo ai danni di alcuni bambini. Non è un caso che solo pochi anni fa l’Alto Commissario dell’Onu per i Diritti Umani, Navi Pillay, sia stata ascoltata in audizione dalla Commissione per i diritti umani del Senato esprimendo parole di sconcerto e di forte critica rispetto a quanto riscontrato nel corso di sopralluoghi nei campi Rom italiani (qui il Rapporto conclusivo dell’indagine sulla condizione di Rom, Sinti e Caminanti in Italia della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato.

Per queste ragioni, siamo convinti della necessità di attivarsi affinché siano promosse iniziative e campagne d’informazione volte alla conoscenza della cultura Rom, Sinti e Caminanti.

Meno C.I.E. più cooperative

Introdotti dalla Turco-Napolitcano, i “CIE” – Centri di Identificazione ed Espulsione – sono nati con l’obiettivo di ospitare tutti gli stranieri “sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera nel caso in cui il provvedimento non sia immediatamente eseguibile”.

A noi sembrano più che altro dei centri di detenzione, per altro ingiustificata. Insomma, campi di reclusione il cui utilizzo (e abuso) è palesemente contrario ai principi costituzionali.

Già nel 2003 la Corte dei Conti affermava in un suo rapporto la “programmazione generica e velleitaria”, le “strutture fatiscenti”, la “scarsa attenzione ai livelli di sicurezza” e “mancata individuazione di livelli minimi delle prestazioni da erogare”. A queste critiche nel tempo se ne sono aggiunte molte altre (Medici Senza Frontiere, Croce Rossa Italiana, Amnesty International, Chiesa Cattolica), ma l’istituzione dei C.I.E. non è mai stata messa in discussione.

La loro eliminazione, invece, dovrebbe costituire un punto fermo del programma politico di tutti i movimenti politici, non solo a sinistra.

Le alternative ci sono e sono tante. A Bergamo ne abbiamo conosciuta una. Si tratta della Cooperativa Ruah, attiva anche con il supporto del Segretariato Migranti della Diocesi di Bergamo. Il suo obiettivo è quello di sostenere e formare donne e uomini immigrati e in grave difficoltà. È spontaneo domandarsi perché non potrebbero essere utilizzate strutture come queste in alternativa ai C.I.E. per ospitare le migliaia di persone che hanno solo il torto di essere fuggite dal proprio paese perché alla ricerca di un po’ di benessere o per scampare a una morte annunciata?

Dunque, meno C.I.E. più Cooperative!

I problemi dell’attuale legislazione italiana su immigrazione e stranieri

Ci sono almeno tre falle nell’attuale legislazione italiana che regola l’immigrazione e la vita degli stranieri in Italia. La prima di ordine umanitario; la seconda costituzionale; la terza di carattere generale.

Come ha messo così bene in evidenza Manila Filella durante il suo intervento a Bergamo (qui), siamo di fronte a una normativa che ogni giorno mette in evidenza l’urgente necessità di essere riformata.

I problemi principali:

  • Norme sui respingimenti, in particolare le disposizioni introdotte dalla Bossi-Fini che prevedono la possibilità da parte della polizia di agire in acque extraterritoriali senza far attraccare le navi sul suolo italiano. Tali norme hanno dimostrato di aver più volte violato la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come per altro messo già in evidenza dalla sentenza della Corte Europea di Strasburgo che all’inizio di quest’anno ha condannato l’Italia per i respingimenti attuati verso la Libia, a seguito degli accordi bilaterali e del trattato di amicizia italo-libico siglato dal governo Berlusconi.
  • Illegittimità costituzionale del reato penale di clandestinità. Sebbene il tema sia stato molte volte sollevato senza successo, resta a nostro giudizio evidente quale sia il bene giuridico leso. Il nostro ordinamento prevede, infatti, ammende (da 5.000 a 10.000 €) per chi si trova illegalmente nel territorio italiano e la pena della reclusione da 1 a 4 anni per gli stranieri che non rispettano i decreti di espulsione.  Fortunatamente, ma solo attraverso il contributo attivo di numerosi avvocati, è stato più volte salvaguardato il cittadino straniero che versa in uno stato di bisogno o perché in attesa del rinnovo.
  • Disfunzioni e paradossi generali. Di maggior rilevanza l’assenza del diritto di voto a chi risiede regolarmente in Italia e di cittadinanza (attualmente disponibile solo dopo 10 anni). A riprova dell’assurdità legislativa, oggi in Italia è prevista la possibilità di ottenimento della cittadinanza a nipoti di italiani che vivono in Argentina, laddove il nostro ordinamento non riconosce lo ius soli (ovvero il riconoscimento della cittadinanza a chi nasce sul suolo italiano) ai figli degli immigrati. Infine, sussistono altri numerosi elementi di carattere generale che andrebbero abrogati e rivisti. Fra questi: il meccanismo dei “contratti di soggiorno”; gli attuali termini di validità dei permessi (troppo brevi in molti casi); le procedure di rilascio (che potrebbero passare di competenza ai Comuni); il mancato riconoscimento dei titoli professionali conseguiti all’estero.

Dare voce allo sport di base

Lo sport è uno strumento fondamentale di coesione e integrazione. Affinché lo sia sempre di più, come ha spiegato Filippo Fossati (Presidente UISP, Unione Italiana Sport per Tutti) nel suo intervento a Bergamo (qui), è necessario promuovere una cultura sportiva solidale e lontana dalle luci effimeri dei riflettori dei grandi stadi.

Sulla questione, riprendiamo volentieri quanto espresso dal documento DIAMO VOCE ALLO SPORT DI BASE, presentato il 3 marzo 2012 a Roma alla presenza di molte società sportive e importanti associazioni quali CSI, UISP, US ACLI, ACSI e del CONI. Il documento chiede un riconoscimento del valore delle attività sportive svolte, della loro funzione di tipo sanitario, preventivo, ambientale e sociale. Troppo spesso si trovano fondi e risorse solo per le grandi squadre, per le manifestazioni ad alto livello (ovvero, con ritorno televisivo o un richiamo turistico) e vengono dimenticate l’attività motoria o la pratica sportiva svolte nelle scuole.Gravare troppo sulle tasche delle famiglie significa porre lo sport come prima rinuncia, in un momento di crisi come questo. Il documento, in particolare, evidenzia l’importanza che potrebbero avere l’introduzione di agevolazioni fiscali, spazi attrezzati in modo efficace, la sensibilizzazione degli Enti Locali, contributi per lo sport di base. Infine, nello stesso documento troviamo l’interessante proposta di una legge per la cultura sportiva.