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mattia

Tamponi privati, tamponi pubblici

Dalla Lombardia arriva una testimonianza sulla gestione della sanità e sulla difficoltà a fare i tamponi. Nel servizio pubblico, ovviamente

Mi scrive Mattia:

«Ti voglio raccontare due storie che sono strettamente connesse e che hanno a che fare con l’epidemia da coronavirus. Sono due storie che parlano di me e della mia famiglia e della gestione a dir poco folle e criminale di Regione Lombardia. La prima parte della storia riguarda la questione tamponi: mi sono contagiato, in famiglia, andando a prendere una pizza da una zia asintomatica, e ho contagiato mia mamma. Si sono contagiati, con me anche mio fratello e il mio compagno, fortunatamente tutti con sintomi lievi. E qui mi fermo, perché questa malattia ci ha spinto e ci spinge a pensare che le priorità del dolore non siano mai abbastanza: mi sento fortunato e lo sono stato, penso a chi invece non ce l’ha fatta ed è morto con i polmoni di pietra e ringrazio il destino. Ma questo non toglie la paura. E tuttavia, facendo i conti con i sensi di colpa, ho dovuto anche fare i conti con una “sanità” che non accetta più tamponi a chi non ha la febbre. Il mio medico ha dovuto mentire dicendo che fossimo ancora febbricitanti per ottenere un tampone. Inoltre, come se non bastasse, i tempi per ottenere un risultato si stanno aggirando ad oggi sui dieci giorni di attesa. E tu mi dirai “Sono tempi tecnici”, e io ti rispondo che hai ragione. Ma il problema è che i giorni di isolamento partono da quando si sa l’esito del tampone e al lavoro non ci si può tornare e si sta in attesa anche se nel frattempo si sta già facendo la quarantena. Inoltre, se il secondo tampone fosse di nuovo positivo, la Regione non ha tempo, modo, risorse di farne un terzo, quindi ti assegna ventuno giorni di quarantena e tanti saluti. Tutto questo ovviamente se si va nel pubblico, perché il privato funziona. Ma almeno si avesse la decenza allora di dire che la nostra “sanità” è all’americana, sarebbe meno ipocrita e più credibile. Dire “Signori, i “ricchi”, come in America li curiamo”, i “poveri” quando abbiamo tempo. Che poi parlarne di cosa vuol dire “ricchi”: so di gente che ha speso i soldi da parte per un tampone a 120 euro senza quasi sintomi ma per una legittima voglia di sapere. E a questa prima storia si aggiunge quella che più mi fa male: mio nonno si chiama Lucio, ha ottantanove anni e da febbraio ATS non gli concede le analisi del sangue. “Qui si fanno i tamponi” e oggi per la seconda volta lo hanno rimandato a casa. Inutile dire che mio nonno di quelle analisi ha bisogno e quindi ovviamente provvederemo a mandarlo in altri centri anche a pagamento, anche dandogli una mano con la pensione da muratore che ha e con la quale paga affitto e medicine. Ecco, ti scrivo perché c’è di sicuro una parte di rabbia, ma c’è anche tanta delusione e sconforto. E volevo condividerlo con te».

È una testimonianza singola ma che la possibilità di fare i tamponi sia diventata in molte zone una condizione che appartiene solo alla sanità privata qualche domanda forse ce la dovrebbe porre. No? Per il resto c’è poco da aggiungere. È tutto nella lettera.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

«Non ascoltate Giulio Cavalli, non leggete il suo nuovo libro»: Mattia Tortelli recensisce Carnaio

Non ascoltate Giulio Cavalli, non leggete il suo nuovo libro. È un romanzo disumano e crudele, pieno di senso dell’orrido e della bassezza a cui l’uomo può spingersi.
La storia di DF – che come dice lui “è il centro del mondo che scivola verso l’orrore” – non interessa a nessuno, non ci riguarda. 
Figuriamoci se un giorno, dal mare, potrebbero mai arrivare cadaveri di persone che non hanno il nostro colore della pelle, prima singoli corpi e poi a ondate: migliaia ogni onda. Figuriamoci poi se un sindaco e i suoi cittadini potrebbero mai accettare di costruire una barriera di plexiglass per contenere queste ondate di carne che sporca le strade e crea disagio. Figuriamoci se poi una città potrebbe mai staccarsi dallo Stato centrale, dichiarandosi autonoma e sfruttare proprio quei morti come fonte di sostentamento. Ma poi, sfruttare. È un termine che non useremmo mai per degli esseri umani, no?
Dal mare arriva gente senza passato. E quello che succede a DF non potrebbe mai succedere oggi, no. Mi dispiace che Giulio Cavalli abbia descritto per filo e per segno un’umanità – anzi una disumanità – che non ci appartiene per niente. Ha sbagliato. Non c’è nessun pericolo di renderci conto della direzione che stiamo prendendo se riusciamo a tenere lontani i problemi e fare di quei morti una risorsa. Le famose risorse. Tutto al contrario. Dalla paura e dal nemico, comincia sempre così.
Non leggete Giulio Cavalli se credete alle parole che ho scritto qui sopra. Ma se invece le avete lette come una provocazione, entrate in libreria a comprare “Carnaio”, abbiate lo stomaco forte e prendetevi il pugno in faccia che questo libro riesce a dare: una distopia perfetta.
Sono emozionato di parlarne con Giulio in persona sabato 1 dicembre alle 18 alla libreria La Storia. Per il libro, ma soprattutto per quello che, oggi, Giulio rappresenta. 📚
“Quando se ne va l’umanità, anche il vero diventa un lusso: non è per ignoranza, come potrebbe sembrare, Ma per un rimescolamento avvelenato delle priorità. Il trucco, mamma, sta nel convincere le persone che esista qualcosa di altro da proteggere […] e che tutto il resto sia terribilmente poco importante.” 📖
#ribellechilegge

(fonte)