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Morte di Fedele Bizzocca, il vero colpevole è lo Stato: è stata omissione di soccorso

Non ha fatto nemmeno in tempo a passare il dolore e lo sgomento per la morte di Nasser Yussef, ufficialmente morto al carcere di Sollicciano con “la testa incastrata nello spioncino della cella” (secondo la versione ufficiale, eppure viene difficile non notare che quello spazio è di una decina di centimetri, una testa in media è larga almeno il doppio e per morire soffocati serve una desolante assenza tutta intorno) che a Trani accade la morte di Fedele Bizzoca.

Bizzoca, si affrettano a scrivere molti giornali, era detenuto da gennaio per spaccio eppure Bizzoca era «persona sofferente di una grave patologia psico-fisica», come scrive l’ufficio del Garante nazionale dei detenuti che aveva verificato «l’incompatibilità con la detenzione in carcere», peraltro «valutata e dichiarata da tempo dalle Autorità sanitarie del carcere e dalla stessa Direzione». Il Garante nazionale nel corso di una visita in Puglia aveva riscontrato «l’assoluta inadeguatezza» della collocazione del detenuto, in una cella senza «alcuna assistenza sanitaria adeguata», tant’è che «le condizioni materiali e igieniche in cui lo si è ritrovato, si presentavano molto oltre ogni parametro di minima decenza e salubrità».

Il tema è sempre lo stesso, decidere se essere un Paese che identifica le persone in base alla loro colpa oppure per i loro bisogni, se essere un Paese in grado di mantenere compatibili i due diversi piani e soprattutto se essere un Paese che riesce a garantire almeno la sopravvivenza delle persone che ha “in custodia”. Perché “custodire” è un atto che contiene molto di più del semplice confinare. Pretende l’uso della cura e l’impegno della rieducazione e determina il grado di salute e di credibilità di una democrazia.

Sono due morti che avvengono in pochi giorni ma fotografano perfettamente la condizione di illegalità in cui versa il sistema penitenziario italiano, discarica silenziosa delle periferie cane dove lo Stato non riesce ad arrivare. Carceri come accumulo di persone “in transito” vero un luogo che non si riesce mai a trovare perché non c’è. Dal carcere di Trani dicono che «non si era riusciti ancor a trovare una struttura idonea, anche fuori regione, per curare la patologia di cui soffriva il detenuto Bizzoca»: tecnicamente è un’omissione di soccorso. Sul carcere di Sollicciano ci si dimentica di dire che gli atti autolesionistici sono nel 2020 sono stati 700: tecnicamente potrebbe essere definito un perseverare diabolico.

Del carcere non interessa a nessuno perché ogni volta che si scrive di un diritto negato tra le celle ci si scontra con l’idea diffusa che la morta sia uno dei possibili effetti collaterali della vendetta. “Se sei colpevole devi accettare di rischiare la vita”, ripete qualche leader politico: l’eccesso di legittima difesa come la sogna qualcuno è una realtà quotidiana che avviene per mano dello Stato. Sarebbe un enorme tema umanitario su cui costruire un’ampia campagna politica. Ma le carceri italiane sono messe così male che non si trova nemmeno mezzo leader politico in grado di strumentalizzarle per il verso giusto. Nemmeno quello.

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Strada, la morte ti fa bello

Lacrime, lacrime di coccodrillo dappertutto. E chissà come si sarebbe incazzato Gino osservando questi politici impudichi che si atteggiano a prefiche mentre spremono lacrime artificiali dai loro profili social, mentre usano la faccia di Gino per accelerare gli algoritmi, per allinearsi al lutto in tendenza e meritarsi un trafiletto. Il giorno dopo la morte di Gino Strada l’ipocrisia fa perfino più schifo del giorno prima, ci sono tutti in prima fila, come se si fossero tolti un peso, serbando la speranza che la morte cancelli il più in fretta possibile anche la memoria, quella recente e quella passata. Perché Gino possa essere immolato a santo laico diventando un simbolo e svuotandone il senso.

Le opinioni di Gino Strada scivolate come il vento

Sì, perché se è vero che Strada ha dato con Emergency un contributo monumentale alla cura nelle zone di guerra è vero anche che Gino Strada ha ribadito spesso giudizi e opinioni che sono scivolate via come vento. Il Gino medico nelle zone più oscure del mondo andava benissimo ma gli occhi e la lingua di Gino sulle cose nostre erano trattati come si fa per gli ospiti indesiderati. Onorano Gino da morto, mica l’hanno ascoltato da vivo. Però, vorrebbero essere credibili. Vorrebbero essere credibili coloro che hanno insozzato il Mediterraneo più di quanto possano fare i cadaveri e che oggi lo piangono. I protagonisti dei Decreti Sicurezza e della becera propaganda sovranista: lo piange ipocrita Conte che è stato presidente del governo più apertamente inumano, lo piange ipocrita il Pd che ha spianato la strada fin dai tempi di Minniti, lo piange Draghi che però non aveva trovato il tempo di rispondergli sulla Libia, lo piange Gentiloni, lo piange Renzi, lo piange perfino Salvini. Che prega per Gino Strada dopo averlo additato come protagonista della «mangiatoia dell’immigrazione clandestina» è la fotografia perfetta del sudiciume che vorrebbe odorare d’incenso.

Alla fine basterebbe leggere i commenti sotto il (finto) cordoglio di Zaia per capire il tilt a cui stiamo assistendo: «Quanta retorica! Ma che fine ha fatto la Lega? Ah già! Sta al governo con quelli che una volta erano gli antagonisti. Che fine miserabile! Pensare che vi ho creduto! Bleah!», scrive un elettore leghista, poi «Governatore non mi sembra il caso di santificare», «Per lui esisteva chiunque che non era italiano», «Se per impegno umanitario s’intende quello di far arrivare migranti in Italia a iosa è meglio se ti iscrivi al Pd caro Zaia. Sei sempre più come il latte scaduto caro governatore». Questo per capire il livello della discussione.

Nessuna risposta prima e onore oggi

La politica omaggia Strada eppure è la stessa politica che ha pensato e attuato una sanità diventata profitto, a disposizione in base al reddito, mercificata attraverso le privatizzazioni. Nessuna risposta prima e onore oggi. Gino Strada stava con quelle Ong che sono state combattute da Renzi, Minniti, Gentiloni, Di Maio, Conte, Lamorgese e Draghi: morto Gino gabbato lo santo. Lo definivano burbero Gino, perché caratterizzarlo come un perenne stizzito era il modo migliore per annacquare le sue parole e per delegittimarlo in modo dolce: è un nevrastenico che esagera, uno che dice cose giuste ma estreme. Non prendetelo alla lettera e semplicemente ringraziatelo con un buffetto. Questo era il messaggio.

La convinzione che sarà difficile trovare un altro come lui

È proprio per questo che la perdita di Gino è enorme: si annusa nell’aria una certa convinzione feroce che ci vorrà parecchio tempo prima di trovare un altro che come lui ha guardato dritto negli occhi il potere dalle mani insanguinate con il coraggio che può dare il salvataggio estremo di un bambino saltato in aria su una mina a forma di giocattolo. C’è molta politica che si è tolta un grande peso nella quotidiana battaglia per riaffermare valori non negoziabili come i diritti che siano davvero di tutti. O come il dovere di salvare anche l’uomo più sconosciuto nell’angolo più nascosto del mondo.

Piangono ma sono lacrime di coccodrillo, posture finte che dureranno giusto il tempo del funerale eppure nessuno che abbia il coraggio di dire che Emergency, in un mondo umano e normale, nemmeno avrebbe dovuto esistere. E basta leggere gli editoriali di oggi per rendersi conto che si sta raccontando una storia di buoni dappertutto, in guerra contro la guerra e contro i mali del mondo. Tutto bellissimo, certo, anche piuttosto funzionale per scriverci un editoriale ma mancano i cattivi. Qualcuno è responsabile del dolore che Gino Strada e Emergency curano e hanno curato. Almeno non lasciamogli la facoltà di mimetizzarsi in mezzo al dolore.

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Adil Belakhdim, la morte come routine

Innescare e disinnescare, amplificare e minimizzare, promettere ciò che è già previsto e negare quello che è successo. C’è un pezzo di classe dirigente di questo Paese che ha capito benissimo come il segreto del successo stia tutto nel rendere governabili gli altri, concentrandosi sulla qualità che conta di più: scegliere i cassetti. Ci sono eventi che vengono subito annacquati in incidenti. Incidenti incidentali che si devono leggere senza avere nemmeno la tentazione di costruire una chiave di lettura collettiva e così vedrete che la morte di Adil Belakhdim verrà messa nel cassetto degli infortunati che si sono impigliati in un camion.

Parole d’ordine: attutire e diluire

Attutire, attutire, attutire, non subito però, perché sarebbe troppo compromettente, diluire nel tempo: che un sindacalista venga schiacciato da un crumiro mentre offre la sua copertura sindacale durante un picchetto è una notizia troppo lancinante. Di solito accade così: come prima reazione la si butta sul lutto: i figli che ha lasciato, era un bravo ragazzo, era uno che si impegnava. Già dai primi minuti qualche inquinatore ha buttato lì che avesse avuto un diverbio con il camionista. Capito la genialità? Un litigio finito male. Pensa. Il punto vero scompare, è solo per pochi addetti: che fuori dal centro logistico della Lidl di Biandrate stessero manifestando per l’uso sconsiderato di contratti da 800 euro al mese in cui solo gli straordinari permettono di raggiungere una cifra dignitosa e gli straordinari vengono elargiti come privilegio solo agli schiavi più mansueti nell’essere schiavi sembra non interessare quasi a nessuno. Che il mondo della logistica sia in agitazione ormai da anni (ancora più ora in questo di tempo di post pandemia) è un elemento che stona, meglio non dirlo. Se poi qualcuno dovesse metterci in fila anche gli scontri che sono avvenuti negli ultimi giorni tra Tavazzano, San Giuliano Milanese, Prato si rischierebbe addirittura di offrire il fianco alla possibile corruzione di una chiave di lettura collettiva. Non sia mai. Anzi, per fortuna quel sindacalista aveva pure il cognome straniero e questo rende tutto più facile, tutto più lontano, meno impattante.

La povertà è come il Covid: finché non la prendi non esiste

Innescare e disinnescare, amplificare e minimizzare, promettere ciò che è già previsto e negare quello che è successo. Nella settimana in cui si prova con tutte le forze a raccontare la bomba sociale che si chiama povertà l’Istat ci ha perfino dato i numeri: 5,6 milioni di poveri, dicono. Ma la povertà è come il Covid: se non la prendi e non l’ha presa nessuno di quelli che ti sta vicino conviene pensare che non esista. Sarà la dittatura pauperistica di qualche brigatista della narrazione, evidentemente. E quindi? Meglio concentrarsi sul mix di vaccini, utilissimo per buttare un po’ di fumo negli occhi dando il privilegio di sentirsi virologi. Vaccinarsi per “fare cosa” è già un pensiero troppo lungo: ci si ferma allo spritz.

La milionesima puntata della saga ristoratori

A proposito di spritz: questa settimana è stata anche la milionesima puntata della saga dei ristoratori. Anche qui, per carità, niente numeri, tutto sul “si dice” come piace alla classe dirigente che si applica alla politica percepita. La nuova brillante idea è quella di spedire tutti i percettori del reddito di cittadinanza a fare i camerieri, poiché ormai di piramidi non ne servono più: qualcuno si è permesso di fare notare che le offerte di lavoro alla voce “cameriere” sul portale Trovolavoro e Corriere della Sera siano 45 su tutto il territorio nazionale. Su Infojobs ci sono 1.053 offerte. Su Bachecalavoro circa 14 mila. E tenete conto che ovviamente molte sono ripetute poiché vi sono anche le agenzia a moltiplicare lo stesso annuncio. Ma guardare i numeri non conta, conta inoculare la sensazione di essere circondati da scansafatiche, questo conta, lasciate perdere i sindacalisti che si impigliano nei camion o gli operai che si bastonano per un litigio davanti alla macchinetta del caffè.

la turbonarrazione di una certa politica
Matteo Salvini (Getty Images).

Ci diranno che il sole è sorto grazie a loro

Ma il livello più alto lo raggiunge questa nuova moda di prevedere quello che sicuramente accadrà e intestarsene il merito: segretari di partito che esultano per le riaperture (avvenute grazie al vaccino che loro di sguincio hanno sempre osteggiato) e che ora si sono intestati come battaglia settimanale la dismissione delle mascherine. Le mascherine, com’è normale che sia, verranno tolte e loro diranno «avete visto come siamo bravi?». Poi si spingeranno oltre, in questa turbonarrazione in cui i fatti sono dei fastidiosi intoppi e ci diranno che il sole è sorto per merito loro. E ci saranno anche quelli che applaudono. Intanto sotto la brace continua a scaldare e prima o poi erutta e lì ci sarà la scena più patetica, quando tutti fingeranno di essere stati colti di sorpresa.

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La sinistra si scalda per i processi a Salvini e ignora i migranti: 500 morti in 4 mesi (+200%)

Il Mediterraneo continua ad essere un cimitero liquido e il campo di battaglia di emergenze che spuntano solo quando tornano comode alla sfida politica. L’ipocrisia dei partiti sta tutta in quei numeri che diventano roncole quando servono per attaccare l’avversario e poi scompaiono se richiedono senso di responsabilità. Fra qualche mese, sicuro, comincerà di nuovo la fanfara degli sbarchi incontrollati come accade ciclicamente tutte le estati (con il miglioramento delle condizioni atmosferiche e quest’anno anche con l’allentamento del virus) e intanto sembra impossibile riuscire a costruire una chiave di lettura collettiva su cui dibattere e da cui partire per proporre soluzioni.

Però nel Mediterraneo un’emergenza c’è già, innegabile, e sta tutta nello spaventoso numero di morti in questi primi mesi dell’anno: mentre nel 2020 furono 150 le vittime accertate nel Mediterraneo quest’anno ne contiamo già 500, con un aumento quasi del 200%. A lanciare l’allarme è stata Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, che ha partecipato al briefing con la stampa del Palais des Nations di Ginevra dal porto di Trapani in Sicilia, dove circa 450 persone stavano sbarcando in seguito al salvataggio da parte della nave della ONG Sea Watch: «Dalle prime ore di sabato 1 maggio – ha spiegato Sami – sono sbarcate in Italia circa 1.500 persone soccorse dalla Guardia Costiera italiana e dalla Guardia di Finanza o da Ong internazionali nel Mediterraneo centrale. La maggior parte delle persone arrivate è partita dalla Libia a bordo di imbarcazioni fragili e non sicure e ha lanciato ripetute richieste di soccorso».

Sami ha anche tracciato un primo quadro degli sbarchi nel 2021: «Mentre gli arrivi totali in Europa sono in calo dal 2015, – ha spiegato Sami – gli ultimi sbarchi portano il numero di arrivi via mare in Italia nel 2021 a oltre 10.400, un aumento di oltre il 170 per cento rispetto allo stesso periodo del 2020. Ma siamo anche profondamente preoccupati per il bilancio delle vittime: finora nel 2021 almeno 500 persone hanno perso la vita cercando di compiere la pericolosa traversata in mare lungo la rotta del Mediterraneo centrale, rispetto alle 150 dello stesso periodo del 2020, un aumento di oltre il 200 per cento. Questa tragica perdita di vite umane sottolinea ancora una volta la necessità di ristabilire un sistema di operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale coordinato dagli Stati».

L’agenzia Onu «sta lavorando con i suoi partner e con il governo italiano nei porti di sbarco per aiutare ad identificare le vulnerabilità tra coloro che sono arrivati e per sostenere il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo» ma Sami sottolinea come continuino a mancare «percorsi legali come i corridoi umanitari, le evacuazioni, il reinsediamento e il ricongiungimento familiare devono essere ampliati» mentre «per le persone che non hanno bisogno di protezione internazionale, devono essere trovate soluzioni nel rispetto della loro dignità e dei diritti umani». L’incidente più grave finora è quello del 22 aprile, quando un naufragio ha causato la morte di 130 persone sollevando i prevedibili lamenti che ogni volta vengono spolverati per l’occasione. Solo una questione di qualche ora, come sempre, poi niente. La zona continua a essere completamente delegata alla cosiddetta Guardia costiera libica: «Nell’ultimo naufragio si parla di almeno 50 morti, noi abbiamo la certezza solo di 11 persone.  Quello che sappiamo è che erano in zona una nave mercantile e un’altra barca e che non sono intervenute, nonostante sia stato lanciato l’sos. E questo è molto grave: se c’è un natante in distress si deve intervenire, perché l’imbarcazione può affondare in qualsiasi momento. Ma ormai questa sembra essere una prassi consolidata: nessuno interviene in attesa che arrivi la Guardia costiera libica e riporti le persone indietro. Questo ci preoccupa molto», ha spiegato Carlotta Sami.

Secondo le stime dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) siamo al 60% di persone che tentano la traversata in mare e che vengono sistematicamente riportate indietro: «Almeno una su due è matematicamente riportata in Libia – spiega Flavio Di Giacomo, portavoce Oim, a Redattore Sociale -. Dopo l’ultimo naufragio abbiamo lanciato un appello all’Ue perché si rafforzi il sistema di pattugliamento in mare e si evitino altre tragedie, ma è caduto nel vuoto. C’è un silenzio politico assordante su questo tema. Si parla solo genericamente di un aumento degli arrivi: ma attenzione a evitare narrazioni propagandistiche perché nonostante la crescita i numeri restano bassi. Non esiste un’emergenza in termini numerici ma solo un’emergenza umanitaria, di morti e dispersi in mare».

Sempre a proposito di proporzioni poi ci sarebbe da capire perché le eventuali (gravi) responsabilità penali di Salvini quando fu ministro e lasciò alla deriva le navi delle Ong debbano infiammare più di questo spaventoso numero di morti che sembra non avere responsabili. Forse anche il centrosinistra, se vuole davvero occuparsi di diritti umani e non solo di dialettica politica, dovrebbe avere il coraggio di ripartire da qui.

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Caro Conte, anche tu hai tenuto i porti chiusi

La Mezzaluna Rossa libica (l’equivalente più o meno della nostra Croce Rossa) ieri ha annunciato altri 50 morti in un naufragio al largo della Libia. Poco prima l’Oim, l’agenzia dell’Onu per le migrazioni, aveva riferito della morte di almeno 11 persone dopo che il gommone su cui viaggiavano era affondato. La Guardia Costiera libica come al solito dice di non esserne informata. Una cosa è certa: nel Mediterraneo si continua a morire ma la vicenda non sfiora la politica nazionale, merita qualche contrita pietà passeggera e poi scivola via.

L’importante, in fondo, è solo mantenere ognuno la propria narrazione: ci sono i “porti chiusi” di Salvini che rivendica di averlo fatto ma poi in tribunale frigna chiamando in causa anche i suoi ex compagni di governo, c’è il “blocco navale” evocato da Giorgia Meloni, c’è il PD che finge di avere dimenticato di essere il partito che con Minniti ha innescato l’onda narrativa e giuridica che ci ha portati fin qui e c’è il Movimento 5 Stelle che si barcamena tra una posizione e l’altra.

A proposito di M5S: il (prossimo) leader Conte è riuscito a dire in scioltezza “con me porti mai chiusi” provando a cancellare con un colpo di spugna quel suo sorriso tronfio mentre si faceva fotografare al fianco di Salvini con tanto di foglietto in mano per celebrare l’hashtag #decretosalvini e la dicitura “sicurezza e immigrazione”.

Conte che sembra avere improvvisamente dimenticato le sue stesse parole su Sea Watch e sulla comandante Carola Rackete: “è stato – disse Conte – un ricatto politico sulla pelle di 40 persone”. Insomma, non proprio le parole di chi vuole prendere le distanze dalla politica di Salvini.

Oltre le parole ci sono i fatti: l’ultimo atto del Parlamento prima della caduta del primo governo Conte nell’agosto 2019 è stato il “decreto sicurezza bis” che stringeva ancora più i lacci dell’immigrazione. Sempre ad agosto 2019, 159 migranti sulla nave Open Arms sono stati 19 giorni in mare senza la possibilità di attraccare nei porti italiani.

Insomma: partendo dal presupposto che i porti non si possano “chiudere” per il diritto internazionale è vero che Conte a braccetto con Salvini ha sposato l’idea dei “porti chiusi” nel senso più largo e più politico. Ed è pur vero che nessun governo, compreso questo, sembra avere nessun’altra idea politica che non sia quella di galleggiare tra dittature usate come rubinetto per frenare le migrazioni in un’Europa che galleggia appaltando i propri confini. Gli unici che non galleggiano sono i morti nel Mediterraneo.

Leggi anche: I poveri sono falliti e i ricchi sono radical chic: così Salvini non risponde mai nel merito a chi lo critica

L’articolo proviene da TPI.it qui

Il vero allarme sicurezza

Pensateci bene, non avete la sensazione che il problema degli omicidi sia il primo problema della sicurezza in Italia? Non vi è capitato ogni volta, tutte le volte, di vedere rilanciato, di sentire dibattuto un delitto qualsiasi soprattutto se torna utile alle esigenze televisive (quindi con qualche efferatezza di cui disquisire in studio) o se torna utile alle esigenze della propaganda (e qui lo straniero viene perfetto)?

Se dovessimo disegnare il Paese come esce raccontato dai giornali e dalla televisione verrebbe da dire che gli omicidi siano moltissimi. Pensate ai morti sul lavoro e ai morti di lavoro: da 24 ore si parla (e per fortuna) della morte di Luana D’Orazio risucchiata da un macchinario tessile a Prato. D’Orazio è perfetta per la narrazione perché era giovane (22 anni), mamma da appena un anno e bella.

Eppure si muore più di lavoro che di omicidio: l’anno scorso 1.270 persone hanno perso la vita sul lavoro e gli omicidi sono stati 271. Se le emergenze devono essere pesate con i numeri l’allarme sicurezza che dovrebbe far strepitare la classe politica e su cui si dovrebbero accapigliare dovrebbero essere questi morti. Attenzione, quest’anno sta andando tutto molto peggio: le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Inail entro il mese di marzo sono state 185, 19 in più rispetto alle 166 registrate nel primo trimestre del 2020 con un incremento dell’11,4%. Per capirsi: lo scorso 29 aprile una trave aveva ceduto nel deposito Amazon di Alessandria causando un morto e 5 feriti, a Taranto un gruista di 49 anni è morto precipitando sulla banchina e a Montebelluna (Treviso) un operaio di 23 anni era stato investito da un’impalcatura, morendo sul colpo. Tre morti in un giorno.

Parlare dei morti sul lavoro è molto meno redditizio dell’altra “sicurezza” di cui si ciancia un po’ dappertutto: c’è da mettere mano a una normativa che risale al 1965 e il Decreto 81 del 2008 che ha ampiamente superato i 10 anni non ha mai visto il completamento di alcuni articoli che attendono ancora la firma di una ventina di decreti attuativi che avrebbero dovuto renderli operativi.

E se qualcuno pensa che sia inaccettabile morire a 22 anni sul lavoro allora vale la pena rileggere la dichiarazione di ieri della madre di Luana D’Orazio: «Sul lavoro non devono morire né ventenni, né trentenni, né più anziani, sono tutte vite umane».

Buon mercoledì.

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A proposito di priorità

Ogni tanto converrebbe prendersi la briga di leggere gli atti parlamentari perché in fondo è proprio il Parlamento che dovrebbe essere la sede per l’azione politica più importante, quella più sostanziosa e evidente.

Le parole, si sa, sono importanti e in politica le parole disegnano l’azione che si ha in mente per il futuro. Ogni tanto si crede che i leader politici esagerino durante le loro comparsate televisive per semplificare il loro messaggio e per fomentare un po’ la propaganda.

Ecco, proviamo a metterci le mani, tanto per capire di cosa stiamo parlando. Per Fratelli d’Italia il deputato De Toma è intervenuto alla Camera per presentare una mozione (la 1/00469) di cui è primo firmatario il suo compagno di partito Lollobrigida, dal titolo impegnativo: Mozione concernente iniziative per il rilancio produttivo e economico della nazione. Uno si immagina finalmente di vedere una proposta di soluzione da parte dell’unico partito di opposizione, sono quelli che dicono che i diritti non siano una priorità e che bisogna occuparsi del bene del Paese, non perdersi in chiacchiere. Benissimo. Nel suo discorso alla Camera ha usato parole altissime: «Più volte è stato annunciato l’avvento di tempi nuovi. Oggi ci staremmo preparando ad affrontare un’altra svolta, con il Governo dei migliori alla guida del Paese, eppure è evidente a tutti che così non è. L’Italia ha bisogno di gente che sappia fare le cose e che abbia il contatto con la vita reale».

E uno pensa: oh, finalmente si esce dalle barriere ideologiche e si lavora per il bene del Paese. Perfetto, cosa si dice nella mozione? Ecco qui uno stralcio, del “visto che”:

si assiste alla perdurante furia «gender» portata avanti dalla sinistra, a cominciare dalla sostituzione della mamma e del papà con la triste dizione «genitore uno» e «genitore due», mentre per alcune forze di Governo tematiche quali lo «ius soli» sembrano avere maggiore importanza della ripresa economica, che è la vera sfida di oggi, con la crisi che morde milioni di famiglie e di imprese italiane;

la cosiddetta «cancel culture» e l’iconoclastia, cioè la vandalizzazione o addirittura l’abbattimento di parte del patrimonio culturale considerato «politicamente scorretto», è un fenomeno che dagli Usa e da alcune nazioni europee sta arrivando, grazie ad alcuni presunti intellettuali, in Italia; il dibattito sul passato, totalmente decontestualizzato, rischia d’inasprire il confronto e di cancellare, dai libri e dal nostro patrimonio, la nostra cultura;

è insensato pensare di invertire il trend della caduta della curva demografica e della natalità zero nel nostro Paese, attraverso l’agevolazione di un ingresso incontrastato di immigrati e clandestini, anche attraverso la semplificazione contenuta nell’ultimo «decreto sicurezza» delle pratiche necessarie per ottenere accoglienza e residenza, non solo per chi provenga da zone teatro di guerra ma anche per motivi di lavoro, ove ne ricorrano i requisiti;

sul fronte della sicurezza e della lotta all’immigrazione clandestina Fratelli d’Italia ha proposto fin da subito la soluzione del blocco navale: per evitare che il Mediterraneo continui ad essere un mare di morte, regno degli scafisti e delle organizzazioni non governative che, dietro presunte operazioni umanitarie, sono state spesso complici anche involontarie ma non per questo meno colpevoli del traffico di esseri umani.

Fa bene leggere gli atti parlamentari. Perché di questo stiamo parlando: della propaganda che addirittura non viene più usata per rendere vendibili i contenuti ma che diventa essa stessa contenuto. Il rilancio del Paese, per Giorgia Meloni, è anche questa cosa qui. Segnatevelo.

Buon martedì.

(nella foto Francesco Lollobrigida e Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia)

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Insozzare la Liberazione

Ci sono molti modi di insozzare il 25 aprile, ognuno con il proprio stile ma tutti tesi (come un braccio teso) per svilire e in fondo per provare a non scontentare i fascisti. Siamo ancora al punto in cui almeno si vergognano di leccare spudoratamente i fascisti e quindi provano ad accarezzarli di sponda. Almeno questo.

Giorgia Meloni se la gioca (come era immaginabile) trasfigurando la libertà di andare al ristorante e mette in mezzo partigiani (senza citarli, sia mai) e lavoratori provando a innescare la solita guerra tra disperazioni: “La libertà, mentre la celebriamo, non è più scontata – scrive – a oltre 70 anni dall’inizio della nostra Repubblica democratica, e ad oltre un anno dall’inizio della pandemia, il governo ancora pensa di potersi arrogare il diritto di decidere se e quando gli italiani possano uscire di casa. Appello a tutti coloro che credono nel valore della libertà: aiutateci ad abolire il coprifuoco“. Insomma: il coprifuoco è il nuovo fascismo, dice Giorgia Meloni. Complimenti.

A ruota arriva Salvini, che ormai è una Meloni in versione analcolica. Pubblica un video sui suoi social e urla: “Noi, donne e uomini liberi d’Italia, chiediamo la cancellazione dell’insensato COPRIFUOCO e la riapertura di TUTTE le attività nelle zone (gialle o bianche) in cui il virus sia sotto controllo’. Al momento le adesioni sono 7.750. Nel video pubblicato sul web, Salvini aggiunge: “Se saremo 10mila è un conto, se saremo 100mila o un milione… Oggi è la giornata della Liberazione. Io e la Lega daremo l’anima dentro al governo, perché le le battaglie si combattono stando dentro e non uscendo o scappando, cercando di limitare la prepotenza di chi vede solo rosso, divieti, chiusure e coprifuoco”. Insomma, una Giorgia Meloni al maschile con la differenza che lui sta al governo con quelli che vorrebbe pugnacemente combattere. Un eroe.

Pietro Ichino prova a allargare il campo riuscendoci male: “La Festa della Liberazione non può ridursi a un’acritica celebrazione dell’epopea partigiana: deve essere anche occasione per riflettere sulle responsabilità delle forze antifasciste nell’avvento della dittatura”. Benissimo: poi scriviamo un saggio sulla colpa degli ebrei che la Shoah se la sono andata a cercare.

Il sindaco di Codogno Francesco Passerini dimostra di essere più pandemico della pandemia rifiutando di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini con motivazioni che fanno spavento: “Codogno diede l’onoreficenza a Mussolini nel 1924, fu una iniziativa nazionale dell’Anci del tempo. E’ un atto storico, come quando Napoleone ha dormito a Codogno e poi andò a Lodi a far guerra. Non è che poi è venuto giù il palazzo dove dormì. Abbiamo anche alcune strutture che ricordano il periodo fascista, come Villa Biancardi che è ancora lì. E per fortuna. Non si può pensare di cancellare e demolire tutto perché costruito da una parte della storia ‘particolare’”. Insomma erano particolari, mica fascisti.

Fenomenale anche il sindaco di Salò: “Dopo la caduta del Fascismo – dice all’opposizione che chiedeva simbolicamente di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini – sui banchi dove state ora accomodati, si sono seduti uomini che di antifascismo e lotta partigiana potevano sicuramente fregiarsi di sapere tanto, tanto più di Voi, e di Noi, avendo fatto parte personalmente di quella lotta, avendoci messo la faccia e, avendo spesso, rischiato la vita per gli ideali in cui credevano. Eppure queste persone non si posero, allora, il problema della Cittadinanza onoraria”. Insomma: se non l’hanno fatto gli altri io mi sento assolto.

Sceglie la linea del banalissimo e goffo provocatore anche il professore universitario Riccardo Puglisi, star presso se stesso su Twitter, che ci butta un po’ di liberismo d’accatto: “Mi sembra di capire che parecchi partigiani comunisti volessero passare direttamente dalla liberazione alla dittatura del proletariato”. Che spessore, ma dai.

Infine lui, Renzi: “Oggi è festa di libertà. Memoria di chi ha combattuto per salvarci, impegno per il futuro. Rileggere oggi le lettere dei condannati a morte della resistenza commuove e spalanca l’anima”. Non è festa di libertà ma festa della Liberazione dal nazifascismo, ma figurati se riesce a dirlo. E scrive “resistenza” in minuscolo, genio. Però la festa della libertà, se gli può interessare, si festeggia proprio domani in Sudafrica. Sempre che non abbia impegni dal principe saudita.

Buon lunedì.

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Quante Malika ci sono in giro?

Sta facendo (per fortuna) molto rumore la storia di Malika, la ragazza di Castelfiorentino (Firenze) che nei giorni scorsi ha rilasciato la sua drammatica testimonianza a Fanpage.it in cui racconta di essere stata cacciata di casa, di essere stata umiliata e di essere minacciata di morte dalla sua famiglia dopo avere raccontato di essersi innamorata di una donna.

La storia ha tutti gli ingredienti della famosa “famiglia tradizionale” che si preoccupa molto più dell’orientamento sessuale dei propri figli che dei figli stessi. «Ti auguro un tumore», «Meglio una figlia drogata che lesbica», «Mi parli di altra gente? Son fortunati perché hanno figli normali, e solo noi s’ha uno schifo così», sono solo alcune delle frasi che la madre di Malika le ha rivolto con dei messaggi vocali. Il fratello da mesi – racconta Malika – la minaccia promettendole di tagliarle la gola. Lei è uscita con niente, solo quello che aveva addosso e da gennaio cerca di volta in volta una sistemazione di fortuna. Ha provato anche a ripresentarsi a casa della madre almeno per recuperare i suoi effetti personali ma la madre, di fronte agli agenti che accompagnavano la ragazza, l’ha addirittura disconosciuta.

Dopo l’uscita della notizia la mobilitazione è stata altissima: il sindaco della città si è subito attivato per aiutare la ragazza, molti cittadini si sono fatti avanti e Malika ha ricevuto anche qualche offerta di lavoro. Intanto la procura di Firenze, dopo 3 mesi e solo dopo l’enorme pubblicità che si è creata intorno all’evento, ha deciso di aprire un’inchiesta. La storia di Malika ha anche riacceso i fari sul Ddl Zan.

Insomma potrebbe sembrare una storia a lieto fine se non fosse che rimane addosso quella sensazione che c’è ogni volta che qualcosa si risolve dopo avere fatto rumore: quante Malika ci sono in giro? E la domanda giusta la pone proprio Malika intervistata da Fanpage quando dice: «Purtroppo ho dovuto sperimentare sulla mia pelle la lentezza della burocrazia italiana, che contribuisce a creare un clima di isolamento intorno a chi è vittima di odio omofobico, di bullismo, di stalking o di qualsiasi altro genere di violenza. Ho sporto denuncia contro i miei genitori il 18 gennaio 2021, ma fino a ieri l’altro non è stato fatto praticamente nulla di concreto. Ho dovuto ricorrere alla stampa per farmi sentire, sono felice che alla fine la mia richiesta di ascolto sia arrivata, ma mi chiedo: quante grida di aiuto si perdono nelle maglie della burocrazia italiana? Io ho dovuto urlare per vedere riconosciuto quello che è un mio diritto, se non l’avessi fatto sarei ancora invisibile».

Eccola, è questa la domanda.

Buon lunedì.

Nella foto un frame dell’intervista a Fanpage.it

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