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Nadia urbinati

Nel Merito. I fatti e i miti del referendum. Di Nadia Urbinati.

(di Nadia Urbinati)

In questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione e il dibattito si riduce al chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Così la Costituzione diventa oggetto plebiscitario, o semplice programma elettorale.
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Ne è valsa la pena?
Perché questa quasi-guerra fratricida? Qual è la ragione così urgente che ha mosso la dirigenza del Partito Democratico e del Governo a imporre una campagna referendaria su questa riforma della Costituzione, così frettolosa, così imperfetta, e soprattutto così divisiva? Perché decenni di manicheismo da guerra fredda tra comunisti e democristiani non hanno diviso così fortemente il paese come questo referendum che cade in un tempo post-ideologico? Propongo due ordini di risposte a queste domande, uno che cerca di capire la filosofia di questa proposta di revisione, e uno che cerca di valutare l’impatto di questa campagna referendaria sulla cittadinanza.
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Fatti e Miti
Hanno detto i suoi promotori che è la storia a chiedere questa riforma; lo chiedono trenta (per Renzi settanta) anni di tentativi di cambiare la nostra democrazia, troppo pluralista e assembleare, troppo orizzontale e poco attenta alla governabilità. Ma nessuno sa esattamente che cosa questo significhi, anche perché la storia siamo noi, e quindi è il presente, questo presente, che vuole questa riforma. Figlia di questo presente, la filosofia sulla quale riposa questa riforma è poco amante dell’intermediazione, del pluralismo e di quella complessità che – ce lo siamo dimenticato? – è la società liberale e democratica stessa a generare. Questa filosofia riposa su due miti: velocità di decisione e semplificazione per aiutare la velocità. E si impone, o cerca di imporsi, con un metodo che è ad essi coerente: insofferente per il dissenso, violento nel linguaggio, dominatore nell’uso monopolistico dei mezzi di informazione, e plebiscitario nella forma del consenso chiesto ai cittadini. Per chi mastica un poco di filosofia politica lo scenario è Schmittiano.
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Da che cosa sono supportati i miti della velocità e della semplificazione? Non da prove fattuali, ovviamente. Certo, non sul fronte della “velocità” di decisione; anche perché questo governo di coalizione ha dimostrato di riuscire in pochi giorni a sopprimere diritti del lavoro che resistevano almeno dal 1970. Velocissimo è stato anche il precedente governo Monti nell’approvare la riforma delle pensioni e addirittura nell’inserire la norma del pareggio di bilancio nella Costituzione. La velocità in queste riforme amate dai “mercati” (e molto poco digeribili per quei democratici che assegnino a questa parola un valore superiore a quello della sigla di un partito) è stata possibile la Costituzione vigente. Quindi perché?
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E che dire del mito della “semplificazione”? Se semplificare comporta approntare mezzi per l’attuazione celere delle decisioni, allora il problema è risolvibile con regolamenti nuovi, sia parlamentari che della burocrazia. Perché andare ai poteri fondamentali dello Stato? Perché, probabilmente, il mito della semplificazione è coerente a una visione dirigistica del potere politico, che sta davvero stretta a una costituzione democratica com’è la nostra.
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Semplificare può voler dire molte cose e nulla. L’argomento piace molto ai populisti di tutti i continenti e tempi: e sta per superamento della fatica del dover cercare mediazioni e consensi, secondo il mito molto dirigistico di snellire le rappresentanze, di sfoltire i protagonisti dei processi decisionali, per contenere i tempi di decisione e togliere ostacoli a chi decide. È un mito ben poco democratico, e non perché la democrazia significa perdere tempo, ma perché, come scriveva Condorcet, non si fida di chi vuol dare più potere all’organo di decisione, il governo: un argomento di cui “sono lastricate le strade verso la tirannia”. Senza bisogno di andare così lontano come Condorcet, possiamo tuttavia nutrire seri dubbi che una semplificazione decisionale sia sicura per chi crede nel potere di controllo, limitazione e monitoraggio, ovvero sorveglianza. Chi propone questa riforma non ha un’idea molto positiva della democrazia, ritenendola troppo esosa in termini di tempo e troppo esigente in termini di controllo. Ecco perché ci propone una riforma che depotenzia la democraticità della nostra Costituzione.
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Resa meno democratica, ovvero meno rappresentativa delle diverse istanze, territoriali o politiche, e più interessata a localizzare la sede apicale della decisione trascinando gli organismi collettivi invece di essere da questi trascinato: non a caso nella proposta di revisione ha un posto di rilievo il principio della temporalità stabilita dal Governo, che può predeterminare i tempi di discussione del Parlamento e chiedere che esso sospenda i suoi ordinari lavori per occuparsi prima e subito dei suoi decreti. L’implicita ammissione è che colpa della lentezza e della complessità sia il Parlamento, e tutti gli “organi assembleari” come con fastidio chiamano la democrazia rappresentativa i dirigisti. Contro l’“assemblearismo” è in effetti da settant’anni che gli insoddisfatti della democrazia tuonano nel nostro paese, a partire proprio dalla Consulta.
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Distanza dei cittadini e poteri accentrati
La revisione della Costituzione pone inoltre problemi molto seri quanto al rapporto tra istituzioni e cittadini. Su questo aspetto pochi si sono soffermati e propongo qui alcune riflessioni.
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Le ragioni per non sostenere questa proposta di revisione sono di vario genere: da quelle relative al merito (a come ridisegna il Senato, le funzioni delle Regioni e la relazione tra i poteri dello Stato) a quelle più direttamente politiche o di prudenza politica. Su queste seconde non si discute mai abbastanza. La Costituzione di uno stato democratico dovrebbe avere uno sguardo lungo, essere pensata in relazione non all’oggi ma a qualunque tensione o problema possa succedere domani. Questa prospettiva ha reso la Costituzione italiana vigente un’ottima Costituzione, capace di reggere molti stress: gli anni di piombo, impedendo che le istituzioni si facessero convincere dal canto delle Sirene che chiedevano governi di emergenza, sospensione dei diritti e stato di polizia; e poi l’assalto da parte della corruzione dei partiti prima e del patrimonialismo berlusconiano poi. Se l’opinione, anche politica, ha spesso tentennato, le istituzioni hanno tenuto la barra diritta perché la Costituzione ne disegnava i poteri e le funzioni in maniera tale che nessuna di esse potesse prendere sopravvento o avere un potere superiore.
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Se la nostra democrazia ha tenuto e la stabilità è stata garantita nel corso degli anni nonostante i diversi governi (un problema da attribuirsi semmai al sistema elettorale) è stato perché le istituzioni hanno tenuto. E questo è dimostrato dal fatto che il declino di legittimità dei partiti e degli attori politici non ha scalfito la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, perché queste non hanno dato l’impressione di essere dominate completamente dai partiti. Vi è da temere che un Senato composto per voto indiretto alimenti nei cittadini l’impressione che la loro incidenza sulle istituzioni sarà più debole mentre il potere di decisione degli attori politici più opaco e fuori dal loro controllo. Il rischio è che le istituzioni siano a poco a poco percepite come proprietà di chi le occupa; che la distanza tra istituzioni e società aumenti. E con essa che cresca il senso di illegittimità delle istituzioni.
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Inoltre, pensata in funzione di neutralizzare esecutivi ingombranti (scritta in funzione anti-fascista), la Costituzione del 1948 si presenta come molto ben corazzata contro i nuovi populismi. Decentrare il potere e spezzarne la tendenza alla concentrazione (con un governo che impone i tempi e l’agenda al Parlamento) è mai come in questo tempo essenziale a fermare i tentativi di assalto che possono venire dalle forze nazional-populiste. Questo non è il tempo migliore per una Costituzione che concentra i poteri e indebolisce i controlli e il ruolo delle opposizioni.
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Negli Stati Uniti ci si preoccupa in questi giorni degli effetti che potrà avere l’accumulo di potere e l’allineamento sotto un unico partito di tutti i poteri dello Stato: la Casa Bianca, il Congresso, il Senato e la maggioranza della Corte Suprema. Indubbiamente la governabilità e la velocità delle decisione saranno facilitate con l’amministrazione Trump e la sua maggioranza granitica. Ma siamo convinti che questo sia desiderabile?
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Una campagna velenosa
Chi si è schierato con Renzi, leggiamo spesso sui quotidiani, ha rischiato il linciaggio morale. D’altro canto chi si è schierato contro Renzi ha perso amici e si è trovato/a classificata con i Casa Pound o gli anti-sistema e con i populisti di tutte le risme. Una guerra di parole e dichiarazioni fratricida, come non si era visto neppure con la proposta di riforma lanciata dal Governo Berlusconi. Forse perché la lotta è ora tutta a sinistra o tra chi in modi diversi si sente vicino al Partito Democratico, questa campagna ha avuto il sapore di una piccola guerra civile, di una guerra civile di parole. Ricordiamo il caso Roberto Benigni, il primo a scatenare questa guerra.
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Rispondendo alla domanda di Ezio Mauro se non avesse paura di passare per “renziano” confessando di votare Sì al referendum costituzionale, Benigni la scorsa primavera ha rivendicato il diritto di votare come pensa e non per conformarsi a chi non si conforma. E il diritto di votare implica il diritto di schierarsi: “Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero. E la libertà non serve a nulla se non ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto”. Risposta pertinente perché coerente ai due principi aurei della democrazia liberale e non plebiscitaria: votare con la propria testa e non con quella del leader, e rivendicare il valore del voto che è e non può che essere partigiano. Voto schierato non voto plebiscitario. È questa la distinzione che oggi è difficile fare e mantenere. All’origine della difficoltà vi è stata la decisione di Renzi di identificare il Sì con la sua persona e il suo governo, trasformando il No automaticamente in un giudizio sulla sua persona e in una causa di instabilità politica. Chi non sta dalla sua parte è messo nell’“accozzaglia” degli sgradevoli.
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Questa trappola ci ha impedito di battagliare da “partigiani amici”, come direbbe Machiavelli, e ci ha fatto essere “partigiani nemici”. I primi sono quelli che si schierano nella libera competizione delle idee per favorire o contrastare un progetto politico. I secondi sono quelli che personalizzano la lotta politica mettendo nell’arena pubblica non le ragioni pro e contro un progetto, ma le rappresentazioni colorite delle tipologie di chi sta da una parte e dell’altra. I primi si rispettano come gli avversari di una battaglia legittima, i secondi si offendono e creano le condizioni per un risentimento che sarà difficile da dimenticare.
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È da anni, da quanto Berlusconi “scese in campo”, che la lotta politica ha preso la strada dello stile teatrale, della rappresentazione estetica – con forme mediatiche che hanno lo scopo di colpire le percezioni per mobilitare le emozioni e rendere la contesa radicale, non dialogica. Di creare identificazioni non forti nelle convinzioni ideali ma forti nella vocalizzazione e nella pittorica rappresentazione. Come se ogni battaglia fosse l’ultima, come se la catastrofe e il diluvio seguissero a una vittoria o a una sconfitta. È questo stile populista del linguaggio estetico e tutto privato (ingiudicabile con la ragione pubblica) che ha corroso negli anni la nostra abitudine alla lotta partigiana, trasformandola in un Colosseo, uno spettacolo che vuol vedere il sangue che colora di rosso l’arena.
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Le ragioni a favore o contro sono spessissimo passate in secondo piano. Questo succede soprattutto oggi che siamo in dirittura di arrivo. Per cui i blog e i social network assalgono chi si schiera con il Sì come fosse un rinnegato, e offendono mortalmente chi vota No come fosse un nazi-fascista, un “falso” partigiano. A chi vota Sì è affibbiato il titolo di lacchè del potere, a chi vota No è appiccicata l’immagine della “palude”. Chi vota No sarebbe per la conservazione e chi vota Sì sarebbe per l’innovazione e intanto non si riesce a spiegare senza essere sbeffeggiati e sbeffeggiare che cosa si vuole preservare e che cosa si desidera innovare.
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Siccome i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, sarebbe stato opportuno mettere sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla nostra Costituzione: il carattere di questa nuova versione della Costituzione e gli effetti che potrebbe generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum (una legge dello Stato il cui peso ingombrante è stato accantonato da Renzi, con la promessa verbale a Gianni Cuperlo di rivederla dopo il 4 dicembre). Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte per i demoni, non per gli angeli. E come Peter sobrio che scrive le regole per Peter ubriaco, le carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quello istituzionalizzato, nell’eventuale occorrenza che venisse tenuto da mani sconsiderate. Come Benigni, anche altri sostenitori del Sì riconoscono che il nuovo Senato è pasticciato; diversi, anche nel Pd, si preoccupano degli effetti combinati della riforma con l’Italicum, che contrariamente a quanto succede per i sindaci premia non chi ha raggiunto il cinquanta per cento, ma il quaranta per cento. È legittimo farsi queste domane e voler discutere di queste questioni. È legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quando potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce.
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E invece, il clima è da mesi rovente, rabbuiato dalla retorica del plebiscito. Il manicheismo fa spettacolo ma non fa prendere decisioni sagge – la deliberazione democratica deve poter contare sul fatto che si entra in una discussione con un’idea e se ne può uscire con un’altra. Ma in questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione: ciascuno alla fine resta dell’idea che aveva all’inizio, mentre gli incerti e gli indifferenti saranno probabilmente colpiti da una battaglia più personalizzata che ragionata. Chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Tutti ci siamo fatti e ci facciamo conformisti. A questo si giunge quando la Costituzione è fatta oggetto plebiscitario, o usata come un programma elettorale – per contare nemici e amici. Di costituzionale vi è davvero poco. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.
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Quale che sia l’esito, dopo il 4 dicembre 2016 il nostro sarà un paese più diviso.Cui prodest?
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sbilanciamoci.info, 21 novembre 2016

Nel merito. Nadia Urbinati: «Ecco come la propaganda per il referendum fa leva sulla paura»

In una “Lettera aperta ai coordinatori dei circoli del Pd” del 13 ottobre scorso, i Democratici per il No argomentavano il loro dissenso con la dirigenza del loro partito affidandosi al “Manifesto dei valori del partito democratico” approvato il 16 febbraio 2008 (firmato tra gli altri, da Alfredo Reichlin, Giorgio Ruffolo, Pierluigi Castagnetti, Piero Terracina, Paola Gaiotti de Biase).

Questa l’idea centrale del Manifesto: “la sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difendere la stabilità, a mettere fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza”.

Parole che non hanno bisogno di commento e che ci convincono senza troppi giri di parole a votare No (anche se alcuni dei firmatari oggi sono schierati con il Sì). Ma più interessanti, e inquietanti, sono le parole con le quali la “Lettera aperta” si chiude: “Queste parole basterebbero per dare un giudizio sul metodo scelto per arrivare a una modifica così importante della Costituzione. Ma queste parole dovrebbero soprattutto servire a convincere della bontà, nelle settimane che ci separano dal voto, di favorire nei circoli che voi coordinate confronti tra le ragioni del Sì e le ragioni del No: del confronto tra le diverse posizioni e delle idee, in particolar modo sui temi costituzionali, non si deve e non si può avere paura.”

Sono molte le riflessioni che questa “Lettera aperta” suscita, anche in chi come la sottoscritta ha per anni sentito di appartenere idealmente a una formazione politica di sinistra, di condividere le ragioni del riformismo e della giustizia civile e sociale, di pensare che la cittadinanza democratica abbia nel voto un momento importantissimo benché non il solo. Quella che vorrei qui proporre è una riflessione centrata sulla lealtà al Partito – ovvero sul problema della scelta morale: fino a che punto il dovere di lealtà può imporsi al dovere di seguire con onestà la propria coscienza.

Ovviamente se un partito chiede di perseguire o sostenere atti illeciti il problema non si pone perché in questo caso la lealtà sarebbe omertà, propria dei gruppi criminali. Il problema si pone quando si tratta di opinioni, e di divergenze relative alle opinioni su questioni importanti. Quali?

Ora, se la divergenza riguarda l’interpretazione della dottrina politica che il partito abbraccia, allora il dissenso incontra un legittimo dubbio: se infatti una persona decide di iscriversi a un partito è perché ne accetta l’ideologia, per questo essere in dissenso significa far cadere la ragione stessa della propria adesione. In questo caso l’opposto della lealtà sarebbe l’uscita dal partito.

Altrettanto può dirsi della violazione dello statuto del partito – un atto che dà alla dirigenza del partito l’autorevole legittimità di intervenire. È vero che partiti dottrinari non ce ne sono più, e che gli stessi statuti sono (quello del PD in particolare) improntati al pluralismo: questo li rende molto meno severi nella richiesta di disciplina di partito.

Anche per questa ragione, la “Lettera aperta” sopra riportata è inquietante, perché dimostra che la richiesta di fedeltà agli iscritti del Pd sia più forte ora di quando c’era un partito fortemente ideologico come il PCI. Più forte, e soprattutto, con un’ombra di paura di emarginazione che traspare dalla chiusa della lettera laddove si invita a “non aver paura” a disobbedire al partito trattandosi di Costituzione.

Il dissenso sulla revisione della Costituzione è non solo legittimo ma sacrosanto, poiché la fedeltà alla Costituzione viene prima nella gerarchia delle fedeltà politiche di un cittadino democratico. E se un partito chiede la fedeltà al di sopra della Costituzione o lascia credere che la fedeltà al partito sia più importante, allora c’è da essere davvero preoccupati perché sembrerebbe che il bene perseguito con questa revisione non sia prima di tutto quello del paese e della sua democrazia, ma quello del partito che la vuole a ogni costo. La vittoria del partito viene prima e sopra tutto.

L’appello ai Democratici del No a “non aver paura” è un argomento fortissimo per stare dalla loro parte e votare NO. Il NO salva loro dalla “paura” di disobbedire e salva tutti gli Italiani da una riforma imposta non solo a colpi di maggioranze variabili in Parlamento, ma poi con il ricatto, anzi con vari ricatti a tutti noi: da quello ormai classico per cui se vincesse il NO l’Italia piomberebbe in una crisi al buio dagli esiti incerti (e perché mai, visto che le costituzioni contengono le procedure per risolvere crisi di governo?), a quello più recente per cui se vincesse il NO l’Italia si troverebbe ad affrontare una crisi peggiore della Gran Bretagna con Brexit.

La propaganda fa il proprio lavoro, e per vincere fa leva sulle passioni negative come la paura. Chi non vuole questa riforma fa leva sulle passioni positive e respinge al mittente il peso della paura.

(Nadia Urbinati, Presidente di Libertà e Giustizia)

L’Huffington Post, 3 novembre 2016

Sul referendum un manicheismo che fa male a tutti

firmacostituzione

Bravissima Nadia Urbinati su La Repubblica di oggi:

Rispondendo alla domanda di Ezio Mauro se non avesse paura di passare per renziano confessando di votare Sì al referendum costituzionale, Roberto Benigni ha rivendicato il diritto di votare come pensa e non per conformarsi a chi non si conforma. E il diritto di votare implica il diritto di schierarsi: “Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero.”

E la libertà non serve a nulla se non ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto”. Risposta pertinente perché coerente ai due principi aurei della democrazia liberale e non plebiscitaria: votare con la propria testa e non con quella del leader, e rivendicare il valore del voto che è e non può che essere partigiano. Voto schierato non voto plebiscitario. È questa la distinzione che oggi è difficile fare e mantenere. All’origine della difficoltà vi è stata la decisione di Matteo Renzi di identificare il Sì con la sua persona e il suo governo, trasformando il No automaticamente in un giudizio sulla sua persona e in una causa di instabilità politica.

Questa trappola ci impedisce di battagliare da “partigiani amici”, come direbbe Machiavelli, e ci fa essere “partigiani nemici”. I primi sono quelli che si schierano nella libera competizione delle idee per favorire o contrastare un progetto politico. I secondi sono quelli che personalizzano la lotta politica mettendo nell’arena pubblica non le ragioni pro e contro un progetto, ma le rappresentazioni colorite delle tipologie di chi sta da una parte e dell’altra. I primi si rispettano come gli avversari di una battaglia legittima, i secondi si offendo e creano le condizioni per un risentimento che sarà difficile da dimenticare.

È da anni, da quando Silvio Berlusconi “scese in campo”, che la lotta politica ha preso la strada dello stile teatrale, della rappresentazione estetica — con forme mediatiche che hanno lo scopo di colpire le percezioni per mobilitare le emozioni e rendere la contesa radicale, non dialogica. Di creare identificazioni non forti nelle convinzioni ideali, ma forti nella vocalizzazione e nella pittorica rappresentazione. Come se ogni battaglia fosse l’ultima, come se la catastrofe e il diluvio seguissero ad una vittoria o ad una sconfitta. È questo stile populista del linguaggio estetico e tutto privato (ingiudicabile con la ragione pubblica) che ha corroso negli anni la nostra abitudine alla lotta partigiana, trasformandola in un Colosseo, uno spettacolo che vuol vedere il sangue che colora di rosso l’arena.

Le ragioni a favore o contro passano in secondo piano. Questo succede oggi. Per cui i blog e i social network assalgono chi si schiera con il Sì come fosse un rinnegato, e offendono gravemente chi vota No come fosse un nazi-fascista, un “falso” partigiano. A chi vota Sì è affibbiato il titolo di lacché del potere, a chi vota No è appiccicata l’immagine della “palude”. Chi vota No sarebbe per la conservazione e chi vota Sì sarebbe per l’innovazione e intanto non si riesce a spiegare senza essere sbeffeggiati e sbeffeggiare che cosa si vuole preservare e che cosa di desidera innovare.

Siccome i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, mettiamo sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla nostra Costituzione: parliamo del carattere di questa nuova versione della Costituzione e degli effetti che potrebbe generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum.

Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte per i demoni non per gli angeli. E come Peter sobrio che scrive le regole per Peter ubriaco, le carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quello istituzionalizzato, nell’eventuale occorrenza che venisse tenuto da mani sconsiderate.

Come Benigni, anche altri sostenitori del Sì riconoscono che il nuovo Senato è pasticciato; diversi, anche nel Pd, si preoccupano degli effetti combinati della riforma con l’Italicum, che contrariamente a quanto succede per i sindaci premia non chi ha raggiunto il cinquanta per cento, ma il quaranta per cento. È legittimo farsi queste domande e voler discutere di queste questioni. È legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quanto potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce.

E invece il clima, già da quando la proposta di revisione costituzionale era ancora in Parlamento, è stato rabbuiato dalla retorica del plebiscito. Il manicheismo fa spettacolo ma non fa prendere decisioni sagge — la deliberazione democratica deve poter contare sul fatto che si entra in una discussione con un’idea e se ne può uscire con un’altra.Ma in questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione: ciascuno resta dell’idea che aveva all’inizio, mentre gli incerti e gli indifferenti saranno probabilmente più colpiti da una battaglia personalizzata che ragionata. Chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi.

Per dirla con Benigni — ci facciamo tutti conformisti. A questo si giunge quando la Costituzione è fatta oggetto plebiscitario, o usata come un programma elettorale — per contare nemici e amici. Di costituzionale vi è davvero poco. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.

Fanno audience e lo chiamano politica

Su Repubblica, oggi:

Nel­la de­mo­cra­zia con­tem­po­ra­nea (quel­la ita­lia­na in mo­do mol­to vi­si­bi­le) i par­ti­ti po­li­ti­ci, es­sen­zia­li at­to­ri del si­ste­ma rap­pre­sen­ta­ti­vo fin dal­la sua ap­pa­ri­zio­ne nel­l’In­ghil­ter­ra dei Sei­cen­to, han­no mu­ta­to la lo­ro fun­zio­ne­ma non so­no fi­ni­ti co­me spes­so si so­stie­ne; a que­sta lo­ro mu­ta­zio­ne è cor­ri­spo­sta una tra­sfor­ma­zio­ne del­la de­mo­cra­zia da rap­pre­sen­ta­ti­va a ple­bi­sci­ta­ria. Il nuo­vo ple­bi­sci­ta­ri­smo non è quel­lo del­le mas­se mo­bi­li­ta­te da lea­der ca­ri­sma­ti­ci ma quel­lo del­l’au­dien­ce, l’ag­glo­me­ra­to in­di­stin­to di in­di­vi­dui che com­pon­go­no il pub­bli­co, un at­to­re non col­let­ti­vo che vi­ve nel pri­va­to del­la do­me­sti­ci­tà e quan­do è agen­te son­da­to di opi­nio­ne ope­ra co­me spet­ta­to­re di uno spet­ta­co­lo mes­so in sce­na da tec­ni­ci del­la co­mu­ni­ca­zio­ne me­dia­ti­ca e re­ci­ta­to da per­so­nag­gi po­li­ti­ci. La per­so­na­liz­za­zio­ne­del po­te­re e del­la po­li­ti­ca è un sin­to­mo e un se­gno di que­sta mu­ta­zio­ne. Cir­ca la tra­sfor­ma­zio­ne dei par­ti­ti, es­sa ri­guar­da il lo­ro di­ma­gri­men­to de­mo­cra­ti­co al qua­le cor­ri­spon­de un’o­be­si­tà di po­te­re ma­te­ria­le ef­fet­ti­vo nel­le isti­tu­zio­ni del­lo sta­to, co­me ha mo­stra­to Mau­ro Ca­li­se. Non è per que­sto con­vin­cen­te pre­sen­ta­re la de­mo­cra­zia dei par­ti­ti co­me una fa­se, or­mai tra­mon­ta­ta, del­la sto­ria del go­ver­no rap­pre­sen­ta­ti­vo (que­sta è la te­si so­ste­nu­ta da Ber­nard Ma­nin). Ve­ro è che es­sa è di­ven­ta­ta a tut­ti gli ef­fet­ti una de­mo­cra­zia “dei” par­ti­ti in­ve­ce che “per mez­zo dei” par­ti­ti.
Il de­cli­no del par­ti­to-or­ga­niz­za­zio­ne ha cor­ri­spo­sto al­la cre­sci­ta del par­ti­to-spu­gna che se­gue gli umo­ri po­po­la­ri e li ali­men­ta ad ar­te per me­glio gua­da­gna­re con­sen­so. Il par­ti­to co­sid­det­to li­qui­do è di dif­fi­ci­le con­trol­lo da par­te di sim­pa­tiz­zan­ti e iscrit­ti (i qua­li non di­spon­go­no del re­sto di strut­tu­re e re­go­le per l’ar­ti­co­la­zio­ne in­ter­na del dis­sen­so e del con­trol­lo) e fun­zio­na­le al­l’e­sal­ta­zio­ne del­la per­so­na del lea­der; può far­si isti­ga­to­re di po­li­ti­che po­pu­li­sti­che, se tro­va ciò con­ve­nien­te, in­ve­ce di es­se­re una di­ga che le ar­gi­na co­me era il par­ti­to-or­ga­niz­za­zio­ne. Que­sto slit­ta­men­to a li­qui­di­tà e pro­fes­sio­na­liz­za­zio­ne son­dag­gi­sti­ca fa sì che la de­mo­cra­zia “dei” par­ti­ti sia una de­mo­cra­zia pro­te­sa ver­so for­me po­li­ti­che ple­bi­sci­ta­rie. E’ que­sto l’a­spet­to che fa da re­tro­ter­ra al­la tra­sfor­ma­zio­ne dal­la de­mo­cra­zia del par­ti­ti al ple­bi­sci­to del­l’au­dien­ce.
La de­mo­cra­zia del pub­bli­co o ple­bi­sci­ta­ri­smo del­l’au­dien­ce fa le­va sul mu­ta­men­to di si­gni­fi­ca­to del “pub­bli­co” da ca­te­go­ria giu­ri­di­co- nor­ma­ti­vo (ciò che per­tie­ne al­lo sta­to ci­vi­le) a ca­te­go­ria este­ti­ca, co­me di ciò che è espo­sto al­la vi­sta e esi­sten­te in sen­so tea­tra­le. Al­la cen­tra­li­tà del­la vo­ce (par­te­ci­pa­zio­ne co­me ri­ven­di­ca­zio­ne e au­to­no­mia) fa se­gui­to la cen­tra­li­tà del giu­di­zio spet­ta­to­ria­le, una for­ma di po­li­ti­ca che si mo­del­la sul fo­ro ro­ma­no in­ve­ce che sul­l’a­go­rà ate­nie­se. La ri­na­sci­ta di in­te­res­se per le idee che pi­lo­ta­ro­no la cri­si del par­la­men­ta­ri­smo nei pri­mi de­cen­ni del ven­te­si­mo se­co­lo — quan­do la con­ce­zio­ne ple­bi­sci­ta­ria pre­se una con­fi­gu­ra­zio­ne al­ter­na­ti­va al­la de­mo­cra­zia rap­pre­sen­ta­ti­va — è un’in­di­ca­zio­ne pre­oc­cu­pan­te del nuo­vo fi­lo­ne di ri­cer­ca teo­ri­ca e ap­pli­ca­zio­ne pra­ti­ca in­ter­no al­la de­mo­cra­zia con­tem­po­ra­nea, un fi­lo­ne an­co­ra una vol­ta cri­ti­co nei con­fron­ti del­la strut­tu­ra par­la­men­ta­re e del­la fun­zio­ne me­dia­tri­ce dei par­ti­ti po­li­ti­ci. Il de­cli­no del­la de­mo­cra­zia del par­ti­to po­li­ti­co e la cre­sci­ta del­la de­mo­cra­zia del pub­bli­co
cor­ri­spon­de a una evi­den­te per­so­na­liz­za­zio­ne del­la lea­der­ship edel­lo stes­so di­scor­so de­mo­cra­ti­co a cui fa eco una con­ce­zio­ne del­la po­li­ti­ca co­me mac­chi­na per la crea­zio­ne del­la fi­du­cia nel lea­der. La cre­scen­te at­ten­zio­ne per le eli­te e per un in­cre­men­to del po­te­re ese­cu­ti­vo ri­spet­to a quel­lo par­la­men­ta­re è in sin­to­nia con que­sto mu­ta­men­to in­ter­no al­la de­mo­cra­zia. Un aspet­to non an­co­ra stu­dia­to sta nel de­cli­no del­la po­li­ti­ca co­me eser­ci­zio di au­to­no­mia a fa­vo­re del­la po­li­ti­ca co­me azio­ne giu­di­can­te. Nel pri­mo ca­so la “vo­ce” era l’or­ga­no di un’a­zio­ne col­let­ti­va che vo­le­va es­se­re di com­pren­sio­ne, di­scus­sio­ne, con­te­sta­zio­ne e pro­po­sta; nel se­con­do ca­so, l’or­ga­no ege­mo­ne è l’“oc­chio”, con la ri­chie­sta di tra­spa­ren­za (del met­te­re in pub­bli­co).
Il ple­bi­sci­ta­ri­smo del­l’au­dien­ce ri­sul­ta in un di­vor­zio in­ter­no al­la so­vra­ni­tà tra il po­po­lo co­me in­sie­me di cit­ta­di­ni par­te­ci­pan­ti (con ideo­lo­gie, in­te­res­si e l’in­ten­zio­ne di com­pe­te­re per con­qui­sta­re la mag­gio­ran­za) e il po­po­lo co­me un’u­ni­tà im­per­so­na­le e scor­po­ra­ta che ispe­zio­na e giu­di­ca il gio­co po­li­ti­co gio­ca­to da al­cu­ni e ge­sti­to da par­ti­ti elet­to­ra­li­sti­ci. La par­ti­gia­ne­ria non è espul­sa dal do­mi­nio del­la de­ci­sio­ne; è espul­sa dal fo­rum, nel qua­le il po­po­lo sta co­me una mas­sa in­di­stin­ta e ano­ni­ma di os­ser­va­to­ri che guar­da­no sol­tan­to e non chie­do­no più par­te­ci­pa­zio­ne. La de-co­sti­tu­zio­na­liz­za­zio­ne che que­sto nuo­vo ple­bi­sci­ta­ri­smo com­por­ta ri­po­sa sul­l’as­sun­to che il ve­ro con­trol­lo de­mo­cra­ti­co sia l’oc­chio po­po­la­re in­ve­ce che le nor­me e gli isti­tu­ti giu­ri­di­ci. Ep­pu­re, co­me ha di­mo­stra­to l’I­ta­lia nel­l’e­ra Ber­lu­sco­ni, non sem­pre que­sto ba­sta.
Il pa­ra­dos­so di in­si­ste­re sul fat­to­re este­ti­co del­l’o­pi­nio­ne pub­bli­ca a spe­se di quel­lo co­gni­ti­vo e po­li­ti­co-par­te­ci­pa­ti­vo — sul­l’oc­chio in­ve­ce che sul­la vo­ce — è di non te­ner con­to del fat­to che le im­ma­gi­ni so­no la sor­gen­te di un ti­po di giu­di­zio che va­lu­ta gu­sti più che fat­ti po­li­ti­ci, ed è quin­di ir­ri­me­dia­bil­men­te sog­get­ti­vo e po­li­ti­ca­men­te inet­to. Il pas­sag­gio dal di­scu­te­re e di­bat­te­re (e vo­ta­re sui pro­gram­mi e quin­di per mez­zo di par­ti­ti-or­ga­niz­za­zio­ne) al guar­da­re e giu­di­ca­re stan­do in una po­si­zio­ne spet­ta­to­ria­le (rea­gi­re agli sti­mo­li pro­dot­ti dal lea­der e da­gli esper­ti di co­mu­ni­ca­zio­ne del par­ti­to li­qui­do) cor­ri­spon­de a un se­gno di ma­les­se­re del­la de­mo­cra­zia rap­pre­sen­ta­ti­va più che a una sua mag­gio­re de­mo­cra­tiz­za­zio­ne.
(Il te­sto è una sin­te­si del sag­gio “Dal­la de­mo­cra­zia dei par­ti­ti al ple­bi­sci­to del­l’au­dien­ce” che usci­rà su “Pa­ro­le­chia­ve” a cu­ra di Ma­riuc­cia Sal­va­ti, de­di­ca­to a “Po­li­ti­ca e par­ti­ti”)

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