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  • Li vedono i mezzi pubblici? (E le tre T)

    Dunque il governo si sta preparando a emanare regole più stringenti per l’incremento di casi di positivi al Covid e per frenare l’aumento dei contagi. La nuova convivenza con il virus, lo sapevamo, ci costringerà ancora per un bel po’ a stringere e allargare le maglie dei nostri comportamenti per riuscire a convivere con il virus. È inevitabile, lo sapevamo. Chi finge di essere stato colto impreparato dal ritorno del virus probabilmente non ha letto un giornale negli ultimi sei mesi, chi sperava che il virus fosse scomparso è un fatalista piuttosto pericoloso se si ritrova in un ruolo di governo.

    Ora, vedrete, ripartirà la caccia all’untore, che infatti comincia a puntare sui bar, sul calcetto e sulle feste private. Manca però un particolare che non è di poco conto: non si capisce, e non ci dicono, quale sia il reale peso dei contagi in queste circostanze e forse una comunicazione più chiara aiuterebbe anche un’informazione meno basata sulla paura che di certo non aiuta, no.

    C’è però un punto che sembra essere scomparso dal radar del dibattito pubblico e che continua a martellarmi in testa: ma li vedono i mezzi pubblici? Li vedono i mezzi che portano i ragazzi a scuola (quelli che vengono additati come colpevoli per gli assembramenti poi ma di entrare in classe ma hanno viaggiato tutti belli assembrati per arrivare fin lì)? Li vedono i mezzi dei lavoratori che tutte le mattine si spostano per andare sul posto di lavoro? Le immagini sono centinaia e si moltiplicano ogni giorno: tram, metropolitane, treni che sono fuori da qualsiasi norma perfino di buonsenso, gente accalcata che si infila in carrozze strapiene per non perdere l’orario di ingresso al lavoro.

    La sottosegretaria ala Salute Sandra Zampa l’ha detto a chiare lettere in un’intervista a La Stampa: «Fissare all’80% il limite massimo di capienza dei bus è stato rischioso. Avere una soglia così alta, senza un controllo effettivo a bordo, vuol dire lasciare la possibilità che si arrivi facilmente a mezzi pubblici pieni al 100%». Per questo propone di abbassare la capienza massima dei mezzi pubblici al 50% e di utilizzare i guanti. Tutto benissimo, per carità: ma se ora sono strapieni e le corse non vengono aumentate come farà la gente ad andare a lavorare o a scuola? Questo è il tema.

    Poi c’è la vecchia storia delle tre T (tamponi, tracciamento e trattamento) che sembra fare acqua in più di qualche regione. L’ex candidato alla Regione Liguria Ferruccio Sansa racconta sul suo profilo Facebook la sua esperienza con un figlio positivo: «Alla fine per avvertire i miei contatti ho dovuto fare un post su Facebook. Altro che Immuni. Altro che tracciamento. Vi promettono che tracciano i contatti dei malati: balle. Vi raccontano che useranno Immuni: fantascienza. Vi dicono che vi seguiranno mentre siete malati a casa: aspetta e spera». E aggiunge: «Consola sapere che altre centinaia di persone in Liguria oggi sono nella nostra stessa situazione. Nella stessa solitudine. Gente che non fa il calciatore e non può fare migliaia di tamponi ogni weekend. Gente che non si chiama Trump, Berlusconi o Briatore e sa di poter contare su scorte di remdesivir come Dom Perignon. Ma se io faccio un post magari qualcuno interviene. In fondo conosco medici e pneumologi per i casi di emergenza. Ma tanti altri che sono davvero soli che cosa possono fare? È tanto diverso il Covid visto da un letto se per dire che stai male devi usare Facebook».

    Buon lunedì.

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  • Trump e lo show del Covid da cui uscire vincitore

    L’ultimo in ordine di tempo è Donald Trump ma gli esempi si sprecano. Il presidente USA è risultato positivo al Coronavirus e la sua situazione continua a preoccupare i medici. Alcuni media USA rilanciano addirittura la notizia che il presidente avrebbe saputo di essere positivo fin dallo scorso giovedì, addirittura prima di apparire sul canale Fox ma non avrebbe rivelato nulla limitandosi solo a confermare la positività di alcune persone vicino a lui. Ma non è questo il punto: ieri Trump ha lasciato il Walter Reed Military Medical Center di Bethseda per un piccolo giro con il suo suv presidenziale salutando i suoi sostenitori richiamati con un messaggio su Twitter. Anche questo non stupisce: chi ha negato per mesi la pericolosità del virus (addirittura come nel caso di Trump mettendo in dubbio le statistiche sui decessi) e chi per mesi si è vantato di non indossare la mascherina (nel suo confronto televisivo con il democratico Biden Trump non ha esitato a prenderlo in giro proprio perché indossava sempre la mascherina) ha bisogno di un po’ di bullismo mediatico per rinverdire la propria immagine di uomo forte.

    Fa niente che il suo show abbia messo rischio la vita di altre persone, questo sembra contare poco. Il dottor James Philips, assistant professor alla Georgetown University, chief of Disaster Medicine al dipartimento di Medicina di emergenza e analista della Cnn che frequenta anche il Walter Reed, è stato netto: «Ogni singola persona che si trovava nel veicolo durante il giro presidenziale completamente inutile ora deve essere messa in quarantena per 14 giorni. Potrebbero ammalarsi. Possono morire. Per una sceneggiata politica. Gli è stato ordinato da Trump che dovevano mettere a rischio le loro vite per una sceneggiata. Questa è follia». Ma il punto interessante è un altro: anche Trump, come molti dei leader politici che si sono ritrovati ad avere esperienza diretta della malattia, ha romanticizzato il suo contagio dicendo di avere imparato molto sul Covid, «è stata una vera scuola», ha detto in un video, ringraziando medici, infermieri e il personale sanitario. Accade sempre così: si nega un pericolo, ci si cade dentro, ci si affida alla scienza e alle regole che prima si sono sempre contestate e infine ci si riallinea velocemente per la paura di morire.

    E qui si apre una disdicevole abitudine di quest’era: governanti e pezzi della classe dirigente che imparano la lezione solo se gli cade addosso personalmente, come se i numeri, le notizie, i fatti e le testimonianze non abbiano nessun effetto sulla loro consapevolezza, incapaci di essere riflessivi e empatici su quello che gli accade intorno a meno che non avvenga nel proprio ristretto cortile. E sono quegli stessi governanti che dovrebbero occuparsi delle situazioni più estreme, capaci di sentire tutti i cittadini come propri e capaci di solidarizzare anche e soprattutto con le condizioni lontane da loro. Sono gli stessi governanti (e pezzi di classe dirigente) che faticano a trovare il vocabolario delle povertà, delle disperazioni, dei soprusi e del calpestamento dei diritti dalla loro torre dorata dove vivono una realtà anestetizzata. Ma siamo davvero sicuri che abbiamo bisogno di politici che trasformino le proprie disgrazie in un reality da cui uscire vincitori come se lo scenario di un’intera nazione possa dipendere dagli accadimenti privati? Siamo consapevoli che esistono capi di Stato che hanno a disposizione una schiera di professionisti e di esperti e invece riducono tutto solo al proprio sentire?

    Perché a questo punto allora viene il dubbio che potremmo sperare di avere scelte lungimiranti solo passando per l’esperienza diretta, allora dovremo aspettare che i nostri leader del mondo diventino poveri per riuscire a conoscere le povertà, vengano arrestati per rendersi conto della terribile situazione giudiziaria e carceraria, salgano su un gommone per provare l’ebbrezza di una migrazione disperata e così via all’infinito in un tour sentimentale che possa formarli per riuscire a governare. Sarebbe una disgrazia e una partita persa. Quindi attendiamo con fiducia e urgenza di avere leader con visioni larghe e inclusive, davvero, e riconosciamo una volta per tutte che la personalizzazione della realtà è forse il più sfortunato vizio che possiamo ritrovare in un personaggio politico. Stacchiamoci dallo show e pretendiamo governanti educati alla complessità. Ci farà bene a tutti, indipendentemente dalla parte politica. In fretta.

    L’articolo Trump e lo show del Covid da cui uscire vincitore proviene da Il Riformista.

    Fonte

  • Demonizziamo l’assassino di Lecce senza renderci conto che l’invidia è diventata il motore di quest’epoca

    Il presunto omicida di Daniele De Santis e della sua fidanzata Eleonora Manta a Lecce avrebbe confessato di avere agito perché “erano troppi felici e per questo mi è montata la rabbia” (qui le virgolette sono d’obbligo poiché la frase è stata riportata da fonti investigative ed è ancora tutto da appurare) e subito si è scatenata una ridda di criminologi e esperti di ammazzamenti che frugano nella vita del ragazzo per raccontarci tutti i suoi lati presumibilmente oscuri. La demonizzazione dell’assassino è una catarsi meravigliosa: più lo dipingiamo lontano da noi, meno assomiglia a noi e più ci sentiamo in pace con noi stessi.

    Stupisce però che ci si stupisca dell‘invidia senza rendersi conto che è il motore politico e sociale di quest’epoca, invidia intesa come il soffrire del bene (o spesso del bene percepito) degli altri per rifocillare un’identità fragile. Perché la domanda “perché lui sì e io no?” è in fondo la domanda delle domande di un certo ragionamento sociale e politico che qui sembra andare per la maggiore. L’invidioso che non è contento di sé e che percepisce il bene dell’altro come una diminuzione di se stesso è lo stesso che si lamenta ogni volta che ci si batte per i diritti di qualcuno a cui lui non sente di appartenere (gli altri possono essere gli stranieri, la casta, i percettori del reddito di cittadinanza, i dipendenti pubblici e un’infinità di altre categorie).

    Su una certa malsana invidia si è scatenato un certo populismo di questi anni che punta a maledire e smontare ciò che viene vissuto come più in alto piuttosto che proporre ragionamenti complessi. Sull’invidia tra poveracci si basa tutta la retorica di chi ha instillato una guerra tra disperati convincendoci che erodere i diritti degli altri garantisca i nostri diritti. Come oggetti di invidia sociale si propongono alcuni modelli culturali che mostrano inaccessibili stili di vita.

    Poi l’invidia diventa risentimento e infine rancore e così si accende la guerra (e talvolta la violenza) di cui infine ci stupiamo. Scriveva Paul Valéry: guardando bene, si scopre che nel disprezzo c’è un po’ di invidia segreta. Considerate bene ciò che disprezzate e vi accorgerete che è sempre una felicità che non avete, una libertà che non vi concedete, un coraggio, un’abilità, una forza, dei vantaggi che vi mancano, e della cui mancanza vi consolate col disprezzo”. Nietzsche scriveva di una versione più feroce dell’invidia come gioia maligna che porta a godere del male dell’altro.

    Siamo sicuri che l’invidia sia solo una mostruosa eccezione da relegare all’omicidio di Lecce? Perché il giorno che decideremo di non demonizzare, non deridere, non compiangere, non disprezzare ma comprendere le azioni umane forse riusciremo ad aprire un dibattito più proficuo e interessante.

    Leggi anche: 1. I bigliettini, la mascherina, la foto Whatsapp: i passi falsi di Antonio De Marco, il presunto killer di Lecce; // 2. Omicidio Lecce, la confessione di Antonio De Marco: “Sì, sono stato io. Erano troppo felici”; // 3. Lecce, “Il killer deriso dai due in un sms”. Si indaga sul movente della vendetta; // 4. Chi è Antonio De Marco, il 21enne di Lecce che ha ucciso Eleonora Manta e Daniele De Santis

    L’articolo proviene da TPI.it qui

  • Castra la Casta

    Il governo del fare ha risolto tutti i nostri problemi. Finalmente. C’è voluto tempo ma hanno trovato finalmente la soluzione a tutti i nostri mali. Per risollevare il Paese bastava tagliare i parlamentari. E in effetti il risparmio è notevole e ora davvero le casse dello Stato possono stare tranquille: parliamo dello 0,0000258% del Pil nazionale. Su uno stipendio di mille euro da domani tutti avranno in tasca 2 euro e 58 centesimi in più. Si prevedono ingenti investimenti e un appuntito rilancio dei consumi e delle assunzioni. Era ora.

    Certo ora rimane semplicemente da studiare una riforma elettorale che garantisca la rappresentatività di tutti i cittadini, di tutte le zone d’Italia. Bisogna semplicemente ridisegnare l’architettura parlamentare perché tutte le opinioni possano avere la possibilità di avere voce. Ma è una cosa da poco: questi hanno dimostrato di essere dei geni di leggi elettorali e di contrappesi democratici. Niente di cui preoccuparsi, quindi.

    Poi ci sarebbe da capire come assicurare le pensioni a una generazione che le vede come una chimera, senza mandare in fallimento lo Stato. Ma ci penseremo con calma.

    C’è da ristrutturare il mondo della scuola che chiede la carta igienica da casa. Ma con due euro in tasca in più per ognuno di noi vedrete che in giro si troverà qualche buona offerta.

    Ci sarebbe da rimpinguare una sanità pubblica ormai allo sbando e senza abbastanza medici per coprire il fabbisogno futuro. Ma vuoi mettere la soddisfazione di ammalarti con il Parlamento dimezzato?

    Ci sarebbe anche da discutere del fatto che di questo passo nel pianeta Terra non ci sarà più il clima per avere un Parlamento. Ma non ha senso inseguire gli allarmi della scienza. Dai, su.

    Ci sarebbe anche un mondo del lavoro che diventa sempre più stretto, sempre più povero e sempre assassino. Ma non è elegante parlare di soldi, no.

    Comunque abbiamo risparmiato 2 euro a testa. Per chi dice che l’importante è iniziare da qualche parte: vero, tipo dimezzare gli stipendi dei parlamentari, ad esempio solo per non citare corruzione, mafie, malaffare e evasione fiscale delle multinazionali, che diventa troppo complicato.

    Solo che di questi argomenti non è il caso di parlarne ora che c’è in ballo il referendum. La soddisfazione di colpire la casta è un’occasione imperdibile, e chi ce lo dice? Loro, loro stessi. Come se ammettessero di essere in troppi troppo incapaci e chiedessero a noi di intervenire riducendo il coefficiente di probabilità che vengano eletti degli idioti. Qualcuno potrebbe sommessamente fare notare che dovrebbero essere loro, quelli che ci dicono sì, a occuparsi di selezione della classe dirigente. Ma è un discorso troppo lungo, troppo difficile, troppo da professoroni.

    E allora via: un bel referendum per tagliare il Parlamento e al resto ci penseremo dopo. Un po’ come quelli che tolgono l’ascensore prima di avere pensato di costruire le scale. Ma vuoi mettere che risparmio, non avere l’ascensore.

    Noi qui a Left abbiamo provato a fare un po’ di chiarezza con un ebook che trovate qui.

    Buon mercoledì.

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  • La classe dirigente sommersa

    Insegnanti, bidelli, autisti dei mezzi pubblici. La pandemia ha evidenziato l’importanza del ruolo pubblico di questi ed altri lavoratori. E la loro responsabilità nel dettare la crescita sociale del Paese che verrà

    Primo giorno di scuola in buona parte d’Italia. Fioccano i commenti, le interviste a volte un po’ leziose a genitori e ai ragazzi, si moltiplicano i racconti e accade che moltissime scuole in Italia, ancora una volta, si siano arrangiate e abbiano fatto i salti mortali per applicare regole incerte (e piuttosto contestabili) e protocolli che spesso rimangono lettera morta perché si scontrano con una realtà che è spesso molto diversa da quella discussa in certi ambienti ministeriali.

    Però è stato il primo giorno di scuola e ieri, nell’aria, si respirava la speranza che la scuola riparta davvero, che un po’ di normalità possano godersela anche i nostri figli, quei giovani che per mesi sono scomparsi dal radar dell’informazione per tornarci solo qualche settimana nella veste degli untori.

    Però il primo giorno di scuola ci racconta ancora una volta qualcosa che sembra difficile raccontare: gli insegnanti, gli operatori della scuola, chi si occupa degli spostamenti dei nostri ragazzi, chi si occupa della loro sicurezza (mica solo in tempi di pandemia) e chi si occupa della loro istruzione e della loro formazione culturale (non solo in tempo di pandemia) sono classe dirigente di questo Paese, nel seno pieno del termine, sono quelli che hanno la responsabilità di dettare la crescita sociale (e politica e economica) del Paese che verrà. E ieri, complice il coronavirus, ci si è accorti che un pezzo importante delle famiglie sta negli istituti scolastici, quei palazzotti spesso decadenti a cui si fa sempre troppo poco caso.

    Ricordo quando uno dei miei figli andò al suo primo giorno di scuola, lo ricordo perfettamente. Ricordo l’arrivo all’istituto, era il periodo delle minacce, della paura e della scorta e ricordo quei minuti all’ingresso mentre lo tenevo per mano, Ricordo perfettamente che un collaboratore scolastico venne fuori, da me e lui e i carabinieri e prese per mano mio figlio per portare all’interno dell’istituto e mi ricordo di avere pensato che quell’uomo in quel momento era il più importante rappresentante dello Stato che interveniva nella mia vita, una responsabilità enorme. E avrei voluto dirglielo.

    Il punto è questo e non vale solo per la scuola: ci ritroviamo nelle nostre funzioni e nelle nostre professioni a avere responsabilità da classe dirigente e non ce ne rendiamo conto, abbiamo un importante ruolo pubblico, ognuno nel suo mestiere e se ce ne assumessimo l’orgoglio e le responsabilità questo sarebbe un Paese sicuramente più solidale e più unito. E la smetteremmo di delegare, e vedremmo anche quanta orgogliosa responsabilità c’è intorno. Nonostante certa classe dirigente.

    Buon martedì.

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  • Lettera ai negazionisti: “Venite a Lodi a tenere i vostri comizi davanti a orfani del Covid”

    Oggi è il giorno in cui anche l’Italia si accoda ai negazionisti in piazza, per non essere meno con la cretinità del mondo. Oggi è il giorno in cui alle 16 in piazza Bocca della Verità a Roma ci sarà l’annunciata manifestazione contro la “dittatura sanitaria” orchestrata, come accade in quasi tutto il mondo, dalla destra più destrorsa, quella del pregiudicato Giuliano Castellino e che raggruppa come sempre accade, tutti quelli che per mancanza di profondità delle proprie opinioni ha bisogno di negare, di aizzare i complotti, di disegnare un fantasioso mondo da combattere, tutti presenti con gli accoliti di Forza Nuova, i No Vax, i No Mask, l’arruffato provocatore Vittorio Sgarbi e perfino l’indimenticato ex M5S Davide Barillari.

    E mi sarebbe tanto piaciuto andarci, essere invitato, avere avuto l’occasione di intervenire anch’io per raccontargli la storia di quelli che il Covid l’hanno vissuto. Gli avrei raccontato, ad esempio, di cosa abbia significato vivere a Lodi nel momento in cui Lodi era la ferita più sanguinante del Paese, quando l’unica colonna sonora di giornate schiacciate dalla paura erano le sirene delle ambulanze che incessantemente, come una goccia che ti fa impazzire il sonno, passavano sotto le mie finestre a qualsiasi ora del giorno, in una macabra e lenta processione che ancora adesso risuona e ci lascia storditi, che ci accomuna mentre camminiamo per strada.

    Avrei voluto raccontargli che qui il Covid, dalle nostre parti, è stata una tagliola che ha cambiato la geografia della città, che ha disegnato assenze nei nostri luoghi abituali, che ha spazzato via le stesse persone con cui dividevamo gli aperitivi. Avrei voluto raccontargli di coetanei che hanno avuto nel giro di pochi giorni entrambi i genitori rinchiusi dentro i sacchi senza nemmeno il tempo di sentirsi arrivare addosso il lutto, con partenze che sono state sparizioni. Avrei potuto raccontargli la difficoltà di parlare ai nipoti, spiegargli che i nonni sono partiti e non tornano più perché la morte spazza via certe generazioni.

    Avrei potuto raccontargli del lutto che ancora oggi si respira nella piazza e nel corso, come una nebbia ancora prima della stagione della nebbia. Gli avrei proposto di venire qui, da noi, a dire che è tutto finto, a parlare di un’invenzione dei poteri forti, di tenere i loro comizi guardando negli occhi gli orfani, senza abbassare lo sguardo, senza sentirsi gli usurpatori di carogne che sono. Vedere se davvero riuscirebbero a non vergognarsi.

    Leggi anche: 1. Coronavirus, a Roma la manifestazione dei negazionisti No Mask / 2. Forza Nuova, Sgarbi, Povia: negazionisti Covid in piazza a Roma. “Contro la dittatura sanitaria”

    3. Berlino, corteo negazionisti Covid sciolto dalla polizia: “Mancato rispetto norme anti-contagio” /4. Coviddi (non) ce n’è: la crociata negazionista degli anti-virus

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  • Essere Flavio Briatore

    Io vorrei essere per qualche ora, qualche ora soltanto, nella testa di Flavio Briatore, del manager dei manager che quest’estate ci siamo dovuti sciroppare un po’ dappertutto perché la stampa qui da noi funziona così: chiami un volto noto, qualcuno che funziona, gli chiedi di spararla grossa o forse non glielo chiedi nemmeno perché gli autori del programma sanno già per certo che la sparerà grossa, e lo intervisti su tutto, lo intervisti sul virus, lo intervisti sull’economia, lo intervisti sulla politica, lo intervisti sulla società e tutto il resto.

    La testa di Flavio Briatore deve essere uno spazioso loft non ancora arredato in cui si misura il resto del mondo secondo canoni tutti suoi: un piatto è buono solo se lo mangiano i calciatori, una discoteca è bella se viene frequentata da personaggi pubblici, un lido è interessante solo se è estremamente costoso e una donna è interessante solo se può essere sua. Misurare il mondo attraverso i soldi e osservare la realtà come se fosse solo un’escrescenza del proprio ego deve avere qualcosa di mistico, deve essere la stessa sensazione di un nirvana solo che questo tende verso il basso.

    Così Flavio Briatore quest’estate è diventato esperto di Covid e ci ha insegnato come gestire un’emergenza. Ne è uscito alla grande. Prima se l’è presa con il sindaco di Arzachena accusato di essersi occupato della chiusura dei locali che favorivano assembramenti e contagio (“Abbiamo trovato un altro grillino contro il turismo!”, ha detto) e poi si è lanciato in una considerazione elegantissima: “A me spiace per i nostri clienti, la costa Smeralda si stava riprendendo, abbiamo portato giù i calciatori, non capisco è una vendetta? Questa è gente che non ha mai fatto un cazzo nella vita, Arzachena nessuno sa dove cazzo sia, la conoscono lui e due pecore!”. Ha portato giù i calciatori. Capito, che figo, Briatore.

    Il sindaco Roberto Ragnedda, al contrario di quelli che strisciano servili ai piedi dei tanti briatori che abbiamo in giro, gli ha risposto per le rime: “questa ordinanza serve a tutelare soprattutto gli anziani come lui”. Chissà come si è sentito male Briatore, lui che la gioventù se l’è comprata via internet ma non capisce perché non gliel’abbiano ancora consegnata.

    E per chiudere in bellezza la sua estate si finisce con sei suoi dipendenti positivi al Covid e qualche centinaio messi in isolamento. Chissà come sono contenti quelli di avere preso il virus in versione deluxe. E cosa ha fatto Briatore? Se n’è tornato mesto mesto nella sua Montecarlo, perché il grande vate dell’economia italiana ovviamente paga le tasse in giro per l’Europa. Qui da noi “porta giù i calciatori” e noi dovremmo volergli bene per questo.

    Bene, bravo, bis.

    Buon lunedì.

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  • Governare l’incertezza

    Ci ripetono che dobbiamo convivere col Covid. Ma il governo fatica a dare risposte chiare, a partire dalla scuola. Mentre l’opposizione propone di “tornare come prima”. Come se il virus non esistesse più

    La sfida è esattamente questa: governare l’incertezza. E l’incertezza è un sentimento che rende un popolo irrequieto, inevitabilmente spaventato, che rende difficili le giornate e soprattutto che rende complicata la programmazione. E questa epoca, così ferocemente incastrata al millimetro, ci chiede di essere perfettamente programmati, noi, le nostre giornate, i nostri figli, i nostri affetti, i nostri mestieri, i nostri rapporti, le nostre cose. E la sfida, lo si diceva già in tempi non sospetti, è esattamente questa.

    Nel dibattito tra catastrofisti e negazionisti sembra sparita la via di mezzo: convivere con il virus, che è quello che ci continuano a ripetere, non è per niente semplice se non c’è una guida chiara con regole certe e con limiti definiti. Accade con la scuola, ad esempio: non sapere cosa accadrà a scuola e come si muoverà la scuola a poche settimane dall’inizio (ma inizierà davvero?) ripropone quello stesso sentimento che ha appiattito anche sentimentalmente e dal punto di vista vitale molte persone durante il periodo del lockdown: intorno a un figlio c’è tutta un’organizzazione famigliare che coinvolge moltissimi elementi e che modifica le proprie abitudini. E sarà così anche per il lavoro, che in questo periodo vacanziero è sparito dal dibattito pubblico e invece si riproporrà con forza: milioni di persone aspettano di sapere se avranno un rinnovo di contratto e le loro aziende cercano di leggere un mercato che rimane con la spada di Damocle del virus.

    Il fatto è che ci avevano detto che avremmo dovuto imparare a convivere con il virus e invece qualcuno propone come soluzione quella di tornare esattamente come prima, come eravamo prima quando non ci ammalavamo mica se qualcuno ci respirava in faccia in un posto qualsiasi. E noi la convivenza con il virus, mesi dopo, non abbiamo ancora imparato nemmeno a immaginarla, non sappiamo darle una forma e un nome e continuiamo a aspettare che passi, banalmente, semplicemente.

    Eppure governare l’incertezza e leggere il presente e il futuro è esattamente il compito della politica: è la stessa politica che ha avuto sei mesi (sei mesi) per programmare il ritorno nelle aule e che non ci ha spiegato nulla di più dei banchi, che sono ancora oggi l’argomento principe della discussione. Intanto dall’altra parte l’opposizione insiste nel dire irresponsabilmente “torniamo come prima”.

    Ed è una discussione che diventa tifo, così bassa, così triste, così pericolosa.

    Buon venerdì.

     

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  • Le lezioni scolastiche? In discoteca

    Il punto è sempre lo stesso: rifiutare la complessità, sempre, comunque, ostinarsi a banalizzare tutto, sempre, comunque, trovare particolari da rivendere come se fossero la fotografia del tutto e soprattutto, come nei peggiori trucchi, trovare un colpevole, sempre.

    Il governo italiano si muove per serrare le discoteche. Il 16 agosto dell’anno 2020 della pandemia. Basterebbe scriverlo così per rendersi conto che c’è qualcosa di sbagliato se stiamo viaggiando su e giù per l’Italia (e per fortuna) in treno distanziati indossando la mascherina, c’è qualcosa di sbagliato se il teatro e lo spettacolo dal vivo continuano a essere pericolosamente claudicanti, quasi morti, c’è qualcosa di sbagliato se gli infermieri e i medici continuano a chiederci di ascoltarli e nel frattempo nelle discoteche italiane ci si può sudare addosso con la mascherina sotto il mento.

    Perché i controlli in questa estate italiana non ci sono stati. Meglio: sono stati pochi. Infinitamente pochi se si pensa che siamo quello stesso Paese che qualche mese fa andava alla ricerca dei corridori solitari sulla spiaggia con tanto di drone e di esercito. Ma ve lo ricordate?

    No, purtroppo siamo il Paese con il ricordo breve, corto, spesso distorto. E così il periodo del lockdown è diventato carne fresca per i complottisti ma ha perso tutta la sua eredità sociale e sentimentale. È tutto passato, non c’è più niente anzi forse non è mai esistito: il discorso Covid l’abbiamo chiuso così, come i bambini che strizzano gli occhi sperando di riaprirli e non c’è più la paura.

    E mentre il governo richiude le discoteche (e ci dirà che è colpa “solo” delle discoteche, secondo la stessa logica di banalizzazione che ci ha portato a mirare coloro che portavano in giro il cane) ora si può ricominciare a sentirsi tranquilli. Chiuse le discoteche e tutto a posto.

    Nel frattempo, tra le persone da ascoltare, ci sono i dirigenti scolastici che mi scrivono di avere rinunciato alle vacanze per girare classe per classe con il metro in mano, di avere provato a progettare la didattica integrata e di avere passato mesi a rispondere ai “monitoraggi urgenti” richiesti dal governo che dovevano essere pronti per il giorno successivo. Lo so, non se ne legge in giro, già. Eppure la riapertura della scuola è in imbarazzante ritardo e tra poco scoppierà il bubbone, appena si finisce questa risibile polemica sulle discoteche. E via così.

    A pensarci bene i nostri ragazzi potrebbero studiare in discoteca, senza sudare, senza ballare. No?

    Buon lunedì.

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  • Ma cos’è stata Sant’Anna di Stazzema?

    Lo racconta un superstite. Enio Mancini aveva 6 anni.

    Non avevo ancora compiuto sette anni all’alba di quello splendido sabato estivo; niente faceva presagire ai circa quattrocento abitanti di Sant’Anna e agli oltre mille sfollati che si trattasse di un cupo giorno di terrore e di morte, il giorno del massacro di cinquecentosessanta vittime innocenti, delle quali circa centocinquanta erano bambini sotto i quattordici anni.

    Mio padre aveva scorto le colonne naziste che scendevano dai passi montani sui borghi di Sant’Anna.

    Prima di andare a nascondersi con gli altri uomini nel bosco, ci sveglio’ e ci invito’ a mettere in salvo la nostra “roba”.

    Pensavamo si trattasse di un rastrellamento e temevamo l’incendio delle nostre case, come era avvenuto nel vicino paese di Farnocchia.

    Nessuno immaginava che donne, vecchi e bambini avessero a subire violenze.

    Poco dopo ecco entrare in casa un gruppetto di S.S., indossavano la tuta mimetica, erano armati fino ai denti e portavano l’elmetto sul capo; notammo che due nascondevano il volto con una specie di maschera e parlavano come noi.

    Ci buttarono letteralmente fuori, non permettendoci di prendere nemmeno gli zoccoli e, mentre alcuni con strani attrezzi che lanciavano lunghe lingue d fuoco incendiavano la casa, altri ci condussero sull’aia che dominava il borgo di Sennari.

    Li’ trovammo gia’ molte persone, ci addossarono contro un muro di una casa e iniziarono ad installare, su un poggio sovrastante, degli strani attrezzi, tipo treppiedi.

    Qualcuno comincio’ a piangere e ad implorare per la disperazione; una vecchina, forse per ingenuita’ o per sdrammatizzare il momento, disse di non preoccuparci che forse stavano per farci una fotografia.

    Quando anche la mitragliatrice fu montata e lo sgomento e la paura erano ormai generali, arrivo’ nell’aia un ufficiale tedesco, forse un generale, che imparti’ degli ordini in tedesco: “Raus… Valdicastello”, ripeteva.

    Le spregevoli belve con il volto mascherato tradussero: l’ordine era quello di scendere verso Valdicastello.

    Al nostro nucleo familiare si erano aggiunti la nonna materna, la zia e gli altri.

    Scendendo, passammo davanti alle nostre case, ormai quasi completamente incendiate (si udiva ancora il muggito della mucca rimasta intrappolata nella stalla).

    Decidemmo di non ubbidire all’ordine di scendere a Valdicastello, ma di nasconderci nei pressi, con la speranza di poter fare presto ritorno alle nostre case per salvare il salvabile.

    Ci nascondemmo in un anfratto naturale che si trovava nella selva, duecento metri sotto casa.

    Dopo circa mezz’ora si udirono quelle voci gutturali che si avvicinavano al nostro nascondiglio; lo sgomento fu totale, ci videro, erano una decina, alzammo le mani in segno di resa.

    Ci incolonnarono e ci spintonarono lungo il sentiero che portava verso il centro del paese, verso la chiesa di Sant’Anna.

    Malgrado le pedate e i colpi coi calci dei fucili nella schiena, si riusciva a procedere molto lentamente.

    Alcuni, infatti, erano scalzi ed il sentiero era pieno di rovi e ricci di castagno.

    Ad un certo punto decisero di proseguire (sembrava avessero molta fretta), lasciando di guardia un solo soldato che, nel frattempo, si era tolto l’elmetto dal capo; era molto giovane, quasi un adolescente e non ci faceva piu’ tanta paura.

    Quando il gruppo dei tedeschi scomparve dalla nostra vista, il giovane soldato comincio’ ad impartirci degli ordini, che non capivamo, ma ci faceva anche dei gesti eloquenti.

    Questi si’ erano facilmente intuibili: ci diceva di tornare velocemente indietro.

    Salimmo il ripido pendio, si udi’ una scarica di arma automatica che ci fece trasalire, ci girammo di scatto temendo che ci stesse sparando addosso ed invece imbracciava il fucile verso l’alto e sparava verso le fronde dei castagni.

    Si continuo’ a salire verso Sennari, mentre sul versante opposto, verso la chiesa, si udivano in un frastuono generale crepitio di spari, scoppi di bombe, tetti di case che crollavano, lamenti di animali che stavano bruciando vivi nelle stalle e poi si scorgeva il fuoco ed il fumo nero che proveniva da ogni direzione, da ogni borgo del paese.

    Non ci rendevamo pero’ conto di tutto quello che realmente stava accadendo.

    Giungemmo a casa poco prima delle dieci e tutti ci adoperammo per salvare dal fuoco quella parte non ancora completamente distrutta.

    Ci sembrava cosa gravissima aver perso gran parte della nostra roba e soprattutto la mucca che, in quel periodo, ci aveva permesso di sopravvivere.

    Verso le cinque del pomeriggio, pero’, la tremenda notizia.

    Un giovane della borgata, allontanatosi al mattino con gli altri uomini per nascondersi nei boschi e che, al ritorno, aveva attraversato il centro e gli altri borghi, arrivo’ a Sennari urlando, sembrava impazzito: “Una strage! Sono tutti morti! Sono bruciati!” ripeteva.

    Lasciammo le nostre case che ancora fumavano per correre verso il centro, verso la chiesa.

    Ogni gruppo andava la’ dove abitavano i propri congiunti, i propri parenti.

    Passammo al “Colle”.

    Ne avevano uccisi diciassette (una ragazza, ferita, ed un uomo anziano si erano miracolosamente salvati sotto il cumulo dei cadaveri).

    Arrivammo alle “Case” dove abitavano i nostri parenti: cadaveri sparsi dappertutto, rovine, fuoco e i pochi sopravvissuti impietriti dal dolore.

    In una casa, sventrata dal fuoco, su una trave che ancora ardeva – incastrata – una rete di un letto e sopra tre corpi quasi completamente consumati.

    Al nero dei tessuti carbonizzati faceva contrasto il bianco dello scheletro; uno dei corpi era piccolo, il corpo di un bambino.

    E poi l’odore acre, intenso, della carne arrostita.

    Una nonna, per fortuna, riprese noi bambini per riportarci verso Sennari.

    Avevamo visto molto, troppo per la nostra tenera eta’.

    Una esperienza drammatica che segna per sempre un’esistenza, ma comunque meno tragica di altri giovani ragazzi sopravvissuti nell’eccidio che, feriti o incolumi, videro massacrare i propri cari.

    Poi ci fu il dopo, ma quella e’ un’altra storia.

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