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I lavoratori pagano, i manager incassano

Sotto la guida di Bonomi, Confindustria si è lanciata in uno scontro con il governo per ottenere un posto riservato agli industriali al banchetto dei miliardi che arriveranno dall’Europa per il coronavirus. È la stessa associazione che critica lo strumento della cassa integrazione e poi “mette” in cassa i giornalisti del Sole24ore

Arriveranno soldi, molti soldi, su questo non ci sono grandi dubbi: sono almeno 172 miliardi dall’Europa oltre i 36 miliardi del fondo salva Stati Mes che potranno essere usati per la sanità e che il governo italiano, nonostante le enormi fibrillazioni nella maggioranza, sembra intenzionato a richiedere. Ciò che sembra sfuggire a molti commentatori politici è che in Italia si vedranno cifre che sarebbe stato folle anche solo immaginare prima della pandemia e ogni volta che all’orizzonte si intravede il denaro le lobby, dalle più fameliche alle più ostinate, si preparano a aprire le fauci per ingerire la propria fetta.

All’odore dei soldi si è mossa subito la nuova Confindustria di Carlo Bonomi, quello che non ha nemmeno fatto raffreddare il festeggiamento per la sua elezione e si è già lanciato in uno scontro a muso duro con Giuseppe Conte e il suo governo per chiedere che Confindustria possa avere il suo lauto posto riservato per il prossimo banchetto.

Curiosa la storia del capo di Confindustria: colui che dovrebbe rappresentare tutti gli imprenditori d’Italia, e che quindi dovrebbe presumibilmente esserne un fulgido esempio, è a capo di una piccola azienda biomedica che fattura qualcosa come due milioni di euro all’anno, una miseria nel panorama imprenditoriale italiano che già di suo non eccede nelle dimensioni medie. Ma Bonomi è stato scelto per fare la parte del cattivo e lui ha preso molto sul serio il copione eccedendo perfino nella sua libertà lessicale: giusto qualche giorno fa ha dato lezioni di diritto costituzionale lanciando l’idea di una nuova democrazia che ha chiamato «negoziale» auspicando «una grande alleanza pubblico-privato» in cui «il decisore politico non ha delega insindacabile per mandato elettorale» ma dialoga «incessantemente attraverso le rappresentanze del mondo dell’impresa, del lavoro, delle professioni, del Terzo settore, della ricerca e della cultura».

Letta di primo acchito potrebbe anche sembrare avere un senso se non fosse che…

L’inchiesta prosegue su Left in edicola dal 26 giugno

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Gli stra-ordinari pazienti di Gallera

Il magico mondo della Sanità privata visto con gli occhi dell’assessore al Welfare con delega alla Sanità della regione più devastata dalla pandemia

«Gli ospedali sono stati sommersi da pazienti Covid e il privato ha aperto le sale di terapie intensive e le loro stanze lussuose a pazienti ordinari che venivano trasferiti dal pubblico. Il nostro compito è mantenere questo equilibrio». Sono le parole dell’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera, uno che ogni volta che parla riesce a mostrarsi perfettamente per quello che è e per quello che pensa. In fondo è una fortuna avere politici così: non c’è nemmeno bisogno di grattare la superficie per trovarci già tutto bell’e pronto.

Nella frase c’è tutto, basta avere voglia di analizzare con calma.

Ci sono i lussuosi ospedali privati. Gente che riesce con soldi pubblici a puntare all’esclusività come caratteristica. Ora alzi la mano chi si sente rassicurato dall’abitare in una regione in cui la sua eventuale malattia ha la possibilità di svolgersi nel lusso, come se gli ospedali siano resort da giudicare per i servizi annessi e connessi in un Paese (e in una regione) in cui ci si mette mesi a accedere a esami specialistiche con lunghissime liste d’attesa. Eccola la sanità lombarda, il modello di cui tutti ci parlano da decenni: ospedali lussuosi pagati con soldi pubblici che tolgono denaro e energie agli ospedali pubblici che annaspano. Glorificare un ospedale perché lussuoso è un po’ come magnificare un salame perché è veloce oppure lodare un architetto perché cucina ottimi tortellini. Una cosa così.

Poi ci sono i pazienti ordinari. E siccome l’italiano non è un’opinione quella frase ci dice che ci sono anche pazienti straordinari, inevitabilmente. Non si sfugge. Che esistano pazienti di serie a e di serie b in una regione che ha trasformato la cura in un business è cosa risaputa. Non si tratta solo di chi può permettersi la sanità (così come la scuola) privata alla faccia di chi deve affidarsi al servizio pubblico che ogni tanto non c’è: si tratta di avere l’accidente giusto, in sostanza avere la fortuna che la propria malattia possa interessare a livello di fatturato e quindi si diventa improvvisamente ottimi clienti. Perché è tutto un enorme supermercato dei malati, pagato con i soldi di tutti, in cui guadagnano in pochi.

Complimenti per la sincerità, Gallera.

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I candidati del centrodestra alle prossime elezioni regionali: pessime notizie per il Sud e per il Paese

Lo chiamano “accordo nel centrodestra” ma i nomi che sono usciti per le prossime elezioni regionali dicono chiaramente che Salvini ha perso al tavolo delle trattative con Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni e che, probabilmente, non è più l’indiscusso leader che sembrava in grado di dettare legge all’interno della sua coalizione se non addirittura di poterne fare a meno.

Giorgia Meloni riesce a candidare Francesco Acquaroli nelle Marche e l’inossidabile Fitto in Puglia lasciando al leader leghista la sola Toscana dove Susanna Ceccardi sembra non avere praticamente nessuna possibilità di vittoria. In Campania, ancora una volta, a sfidare De Luca sarà quello Stefano Caldoro che Salvini ha osteggiato fino all’ultimo minuto e che invece è riuscito a spuntarla. Si sa, del resto, che fu proprio Salvini a promettere mano libera agli alleati in cambio della candidatura delle Bergonzoni in Emilia su cui aveva scommesso tutto. Aveva scommesso tutto e ha perso. Ora paga pegno.

La politica è fatta di rapporti, rapporti che devono essere consolidati, nutriti, curati con attenzione e Salvini fin dall’inizio ha deciso di presentarsi come colui che poteva fottersene di tutto e di tutti, alleati compresi, per figurare come l’uomo forte che non aveva bisogno di nessuno. La sua pessima comunicazione in tempi di pandemia e la sua arroganza hanno finito per facilitare la crescite della sua alleata Giorgia Meloni e non è un caso che anche la sua leadership in vista delle prossime elezioni politiche sia già stata messa in discussione: “vedremo”, ha detto serafica la leader di Fratelli d’Italia.

Ma le candidature del centrodestra alle prossime elezioni regionali ci dicono anche altro: passano i decenni ma i capibastone sui territori rimangono sempre gli stessi, le elezioni sono una fotocopia di quelle precedenti come se non fosse accaduto nulla e come se non si fosse mosso il mondo intorno. La classe dirigente della Lega al sud è praticamente disastrosa ma anche gli altri partiti di centrodestra non trovano di meglio che proporre le stesse facce, con gli stessi modi, con gli stessi cognomi. E questa, comunque la si pensi politicamente, è una pessima notizia per il Paese, mica solo per il sud.

Leggi anche: De Luca vi fa ridere? La sua violenza verbale fa male alla sinistra ed è un regalo a Salvini

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Il suono delle ambulanze

Se mi chiedono cos’è stata Lodi nel pieno della pandemia c’è una cosa su tutte che mi fischia ancora nel cervello: il suono delle ambulanze. Un suono incessante, giorno e notte, senza sosta in nessun orario, una sirena che era diventata perforante nel silenzio della città e che si ripeteva con una costanza mortifera. Forse niente come il suono delle ambulanze rende la grammatura di una tragedia, è qualcosa che ti perfora i sentimenti come il lento gocciolare che rende pazzi o come una luce che ti picchia nell’occhio anche di notte.

Mi è venuto da pensare, in quei giorni lì, che non avrei mai dimenticato il sottofondo che il Covid aveva suonato per settimane intorno a me, intorno a tutte quelle case vuote anche se strapiene, intorno a quelle vie che sembravano tutte rotolare tra le fauci del pronto soccorso come se la città fosse stata ridisegnata per finire tutta, da qualsiasi lato la percorrevi, solo lì.

Il suono di quelle ambulanze era accarezzato dal dolore e dal silenzio. A Lodi il Covid non è mai stato una notizia, a Lodi il Covid sono i morti che ti capita di segnare perché sono famigliari tuoi o famigliari di persone vicine. Ci sono città d’Italia, chiedete dalle parti di Bergamo, in cui la malattia ha cambiato la geografia degli affetti di tutta la comunità.

Mi ero promesso, mentre in molti scrivevano che ne saremmo usciti migliori, che almeno avrei provato a uscirne con quella sensazione di pori drammaticamente aperti in cui entrava il vento, che davvero non avremmo potuto dimenticarci quanto ci siamo sentiti fragili, quanto in quelle settimane abbiamo avuto contezza, toccandola con mano, che le priorità, anche quelle del dibattito pubblico, erano drammaticamente stonate, confuse, sbagliate. Quel suono delle sirene era anche la colonna sonora degli occhi umidi di chi sapeva che non ce l’avrebbe fatta a ripartire, di chi ha dovuto allungare una mano per farsi fare una spesa, di chi ha avuto la vita capovolta per un colpo che non è riuscito a sostenere.

Mi ero augurato anche che quel suono delle ambulanze fosse una lezione per occuparci del dopo, per riuscire a dare una forma ai numeri, per leggere ad esempio che il 21 giugno è stato il giorno peggiore della pandemia mondiale con un +183.020 casi, che in Australia e Nuova Zelanda (che pensavano di avere sconfitto il virus) sono tornate le restrizioni, che in India siamo nel pieno del picco, che in Cina sembra in atto la seconda ondata, che in Calabria è stata istituita una zona rossa a Palmi e che il mondo, avremmo dovuto impararlo, è molto più piccolo e ci interessa molto più da vicino di quello che pensiamo. Mi ero augurato che anche la politica non fingesse di elaborare velocemente il lutto per disfarsene. E invece, guardando fuori, forse mi sbagliavo.

Sarebbe da insegnare a scuola quel suono delle ambulanze.

Buon martedì.

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De Luca vi fa ridere? La sua violenza verbale fa male alla sinistra ed è un regalo a Salvini

Sì, fa un sacco ridere Vincenzo De Luca e tutta la rete è inondata dei suoi video che ormai funzionano come passatempo e sfogatoio. Quello in cui definisce più volte “Neanderthal” Salvini e lo apostrofa con “ha la faccia come il suo fondo schiena per altro usurato” ha fatto il giro del mondo. Bravo De Luca: ottimi tempi teatrali, ottima mimica del disgusto, ottima finzione di non essere volgare pur riuscendo a essere volgare e tutta quella posa da attore consumato di chi sa benissimo che la sua conferenza stampa è il cartoccio in cui infilarci quel minuto buono per essere ritagliato e diventare terribilmente popolare.

Dall’altra parte quell’altro, Salvini, ovviamente si butta nel fango e risponde colpo su colpo, la guerra di bassezze è il suo habitat naturale, l’ha reinventato lui in questi ultimi anni di social come ring e quindi non serve nemmeno citare il fatto che l’ex ministro dell’interno contrapponendo i “napoletani” agli “italiani” e a suo seguito Giorgia Meloni che risponde con un agguerittisimo “vispa Teresa” ai danni di De Luca. Sì, fa un sacco ridere da fuori vedere questi leader che si comportano come la gente della strada (che è la formula magica con cui in questi anni si giustifica la merda verbale che siamo costretti a sopportare) ma se gratti sotto sotto ai siparietti di De Luca, se gli togli i suoi “cinghialoni” e i “lanciafiamme” che vorrebbe usare per difendersi dal virus (con le solite iperboli guerresche di matrice trumpiana che solleticano meravigliosamente gli intestini degli incazzati), scopri che al di là della simpatia manca la politica.

Che manchi la politica, pensandoci bene, è anche uno degli aspetti secondari: intossicare e abbassare il livello di ecologia lessicale significa soprattutto costruire l’ambiente perfetto perché certa politica continui a essere così bassa, così fetida, così vuota da continuare a allevare tutto il veleno che continua a colarci addosso. De Luca è il prototipo perfetto di nemico di Salvini perché Salvini continui a esistere e prosperare e soprattutto perché il salvinismo possa trovare sfogo in tutte le sue diverse declinazioni (più forbito quello di De Luca, più crasso quello di Matteo) annullando di fatto il dibattito leale e pulito che dovrebbe concorrere a migliorare la vita dei cittadini, al di là degli slogan. E quindi un bravo a De Luca, lanciato nella sua seconda carriera di influencer. Chissà se si rende conto di quanto costino in termini di vivibilità del dibattito politico le sue bravate lessicali.

Leggi anche: 1. Calenda a TPI: “Gli Stati Generali sono inutili. Il piano Colao era buono, il governo l’ha svalutato senza motivo” (di Luca Telese) / 2. Mancata zona rossa, Crisanti sarà il super consulente della procura di Bergamo: “Ora voglio scoprire la verità” (di Francesca Nava e Veronica Di Benedetto Montaccini) / 3. Esclusivo TPI: Fontana e Gallera in centro a Roma senza mascherina. “Cancellate quelle foto” (di Selvaggia Lucarelli)

4. Nelle acque di scarico di Milano e Torino c’erano già tracce del Coronavirus a dicembre 2019: lo studio dell’Iss / 5.  I pronto soccorso in Sicilia? Da oggi li gestisce la Lombardia. Alla faccia del flop sul Covid / 6. Esclusivo: per un vuoto normativo il Governo ha “regalato” 1.800 euro di bonus ad arbitri volontari non professionisti

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Sulla Puglia e sulla democrazia

È una storia antichissima, che viene dalla notte dei tempi, quella del voto utile e di doversi presentare uniti alle elezioni. Su questo ogni volta ci si sfonda in contrapposte tifoserie: c’è chi dice che bisogna stare uniti per battere gli avversari e c’è chi dice che stare uniti se poi non si condividono gli stessi progetti e gli stessi ideali serve a ben poco anzi spesso serve proprio a fare votare gli avversari. Ognuno la pensi come vuole, è la democrazia, bellezza, e i pareri diversi e talvolta contrapposti sono il sale del dibattito politico, almeno su questo bisognerebbe essere d’accordo.

Certo le incongruenze dei comportamenti contano, andrebbero comunque ricordate per avere un quadro più chiaro della situazione: quelli che candidano Ivan Scalfarotto alla presidenza della Puglia sono gli stessi che quando stavano nel Pd contestavano addirittura l’esistenza di quelli che chiamavano partitini (li chiamavano proprio così) e condannavano le eventuali candidature al di fuori della coalizione di centrosinistra come personalismi e addirittura boicottaggi.

Sia chiaro: la democrazia consiste nella libertà di unirsi e di dividersi, per fortuna. E quindi da queste parti, dove spesso si è detto e scritto in difesa di quelli che rivendicano il diritto di non assomigliare a una coalizione si difende anche la libera scelta di correre da soli, come farà Scalfarotto in Puglia. Rimane però il dubbio che l’iniziativa politica di Renzi sia, per l’ennesima volta come è nella sua natura, una questione personale che assume connotati politici e a cui si appiccia una giustificazione che appaia come un’idea di governo regionale.

E allora facciamo un patto: i renziani, quelli che sono riusciti per anni a dirci che ogni iniziativa contro il capo Renzi fosse una questione di antipatia o una ricerca di un posto al sole ora ci chiedono scusa e ammettono che in politica capiti di non essere d’accordo, ci sia il diritto di non essere d’accordo.

Per il resto un grande in bocca al lupo a tutti i candidati delle prossime regionali. E un grande in bocca al lupo a questa politica che non riesce a dibattere se non scontrandosi e duellando, sempre pronta a contarsi piuttosto che a contare. Ne abbiamo bisogno, di fortuna, tutti.

Buon lunedì.

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Dire “è colpa mia” ma non voler toccare nulla nei rapporti con l’Egitto (armi incluse) è una presa in giro

Conte ha detto che è colpa sua. “Ho incontrato sei o sette volte il presidente Al-Sisi. Parlarci di persona e guardarlo negli occhi, poter esercitare un’influenza diretta durante un colloquio vis-à-vis non ha portato risultati, non sono stato capace”, ha detto il presidente del consiglio durante l’audizione alla commissione d’inchiesta sull’uccisione di Giulio Regeni, ammettendo di fatto il fallimento delle trattative diplomatiche con l’Egitto e lo stallo delle trattative. L’audizione di ieri, da cui ci si aspettava di avere un chiarimento sulle eventuali evoluzioni e sulle strategie da adottare è diventata un’opportunità di comunicazione per il governo ma non ha aggiunto nulla allo sconcerto che i genitori di Regeni da mesi fanno emergere insieme a tutta la loro insoddisfazione per la mancanza di significative novità.

Che un presidente del consiglio riconosca le proprie responsabilità è, di questi tempi, una rarità da salutare con sorpresa e perfino una certa ammirazione ma nelle parole di Conte manca un punto sostanziale: quindi cosa si ha intenzione di fare con l’Egitto? Come si ha intenzione di smuovere il sultanato di Al-Sisi che continua a essere sordo? Come si pensa di sbloccare la rogatoria internazionale della magistratura italiana che da un anno giace inascoltata in qualche cassetto di qualche ufficio egiziano? Su questo nulla.

Il governo dice di sperare che qualcosa possa accadere il primo luglio quando ci sarà l’incontro tra le Procure del Cairo e di Roma. Ammettiamolo: che l’unica strategia sia quella della speranza sembra davvero pochino per poter confidare che arrivi una giustizia che ormai da anni rimane appesa. “E se quell’incontro del primo luglio dovesse saltare?”, chiedono a Conte e lui serafico risponde “a mio avviso non siamo ancora quel punto”. Ma non si sa bene a che punto siamo.

Una cosa certa c’è: da quando Conte è presidente del consiglio l’Egitto è passato dal quarantaduesimo Paese con cui l’Italia commerciava armi fino al decimo posto del 2018 e fino al primo posto di quest’anno. Italia e Egitto hanno intensificato la loro amicizia commerciale, alla faccia di Giulio Regeni. E forse non è un caso che nell’audizione di ieri non si sia trovato il tempo di parlare le due fregate Fremm e i 9 miliardi di armamenti che ancora sono sul tavolo: quella commessa è stata il convitato di pietra ma Conte non ha voluto accennarne.

In fondo la storia di Regeni è come tutte le storie in cui la verità fa a pugni con il profitto: si leggono dalle cose non dette.

Leggi anche: 1. L’Egitto acquista 2 navi militari italiane e tappa la bocca all’Italia sul caso Regeni / 2. Regeni, 4 anni dopo: tutta la fuffa della politica che ci ha preso in giro (di L. Tomasetta) / 3. Patrick Zaky, gli affari con l’Egitto possono diventare un’arma per l’Italia (di A. Lanzetta)

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La democrazia secondo Confindustria

Carlo Bonomi si è lanciato perfino in un neologismo: “democrazia negoziale”. Quando mi è capitato di leggerlo ho pensato che la democrazia è democrazia, ed è contendibile per natura altrimenti non lo sarebbe poi ho letto ancora di più e mi sono accorto che sarebbe “una grande alleanza pubblico-privato” in cui “il decisore politico non ha delega insindacabile per mandato elettorale” ma dialoga “incessantemente attraverso le rappresentanze del mondo dell’impresa, del lavoro, delle professioni, del terzo settore, della ricerca e della cultura”. È un fighissimo esercizio retorico ma in realtà, grattando grattando, significa che secondo Bonomi Confindustria dovrebbe essere la terza Camera dell’iter parlamentare. I cittadini votano un governo ma il governo deve essere avallato da loro. Forte, eh?

Peccato che proprio sulla rappresentanza di Confindustria ci sarebbe qualcosa da ridire visto che la Confindustria di oggi rappresenta quel bel capitalismo fatto con i soldi degli altri (Eni, Enel, Leonardo, Poste, tanto per citare qualcuno) che ha consigli d’amministrazione decisi dal governo e ha perso parecchia rappresentanza di quel capitalismo privato che ormai dalle nostre parti è diventato una rarità.

Ma non è tutto, no. Confindustria per bocca del suo presidente Bonomi ha criticato (legittimamente) le scelte del governo definendo (legittimamente) assistenzialismo le iniziative prese come i bonus e la cassa integrazione: peccato che proprio Confindustria abbia usato la cassa integrazione per i giornalisti del suo quotidiano Il Sole 24 Ore. Curioso, no?

E poi c’è la ricetta per ripartire, questo è il vero capolavoro: meno regole per gli appalti, più cemento per tutti e soldi alle imprese e possibilmente più possibilità di precarizzare i lavoratori. Sono le stesse ricette di tutti questi stessi anni. Sempre.

Sarebbe bastato dire invece: «caro Conte sappiamo che arriverà una montagna di soldi dall’Europa e vogliamo la nostra fetta». Un po’ crudo, molto più apprezzabile. Senza nemmeno troppo sforzo nell’inventare nuove parole.

Buon venerdì.

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Ieri gli infermieri erano “eroi”. Ora chiedono stipendi decenti e vengono presi a manganellate

Ve li ricordate gli infermieri in prima linea tutti belli, tutti giovani, tutti forti? Ve la ricordate, non è passato molto tempo, la romanticizzazione del lavoro negli ospedali nel momento di punta del virus, quando circolavano le fotografie di personale distrutto dalle mascherine, segnato dal dolore, provato dalla stanchezza e svuotato alla fine di turni che duravano perfino un giorno intero? Si diceva che forse sarebbe stato il caso di trarne una lezione, di essere meno poetici e di considerare la straordinarietà dell’impegno come lezione per il futuro, per riconoscere di più e meglio il lavoro di una sanità che un po’ dappertutto è stata sempre punita dalle scelte della politica, abbandonata a calcoli di bottega più che a preoccupazioni sanitarie.

In Francia da giorni gli operatori sanitari protestano per le strade chiedendo una migliore retribuzioni e maggiori investimenti nella sanità pubblica, per strada ci sono le stesse facce che venivano celebrate e incoraggiate, per strada c’era anche Farida, un’infermiera che è stata fotografata, questa volta senza celebrazioni facili come didascalia, ma circondata da poliziotti antisommossa che la trascinano con la faccia sporca e insanguinata come se fosse una pericolosa criminale. “Questa donna è mia madre – ha poi twittato la figlia – ha 50 anni, è infermiera, per tre mesi ha lavorato fra le 12 e le 14 ore al giorno. Ha avuto il Covid. Manifestava perché rivalutino il suo salario, perché riconoscano il suo lavoro. E’ asmatica. Aveva il camice. E’ alta 1,55 metri”·

Dietro un semplice episodio c’è molto: c’è la violenza della polizia (accade in Francia come accade negli Usa e come accade un po’ dappertutto perché il problema è molto più contagioso di quello che sembra), c’è il declino veloce di chi torna utile ai governi nella veste di eroe ma che poi deve fare il bravo e tornare buono al suo posto senza alzare troppo la voce e c’è la pandemia che ha scoperto bisogni che qualcuno finge ancora di non vedere. L’eroe moderno a disposizione del potere funziona così: pronto per mettersi in posa per essere l’angelo custode a disposizione della narrazione battagliera e poi il muto consapevole di chi non si permette di alzare la voce. Non è che i nostri eroi sono stati utili solo come statuine di un presepe che doveva sconfiggere il virus e poi andava messo in soffitta fino alla prossima celebrazione? Perché così sarebbe tutto terribilmente poco etico, poco serio, poco credibile.

Leggi anche: 1. Divorare ciliegie mentre si parla di bambini morti: non c’è da ridere, c’è da avere paura / 2. A Londra un antirazzista ha salvato un razzista dal linciaggio. Ecco com’è vivere senza nemici / 3. La Storia non è una statua inamovibile uguale a se stessa: ecco perché si può mettere in discussione 

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Divorare ciliegie mentre si parla di bambini morti: non c’è da ridere, c’è da avere paura

 

 

Alla fine è riuscito a spostare il fuoco della discussione sulle ciliegie. Si fatica a credere come la comunicazione di Matteo Salvini segua ostinatamente sempre i soliti trucchi, gli stessi sentieri, sempre puntando a banalizzare il cuore di una critica e fingendo di non cogliere la temperatura delle osservazioni che gli vengono poste. Il problema non è che Salvini mangi ciligie, figurarsi. Contento lui, contento lo strapagato Morisi che ha trasformato un ex ministro in un food blogger, buon per loro. Il problema è che divorare ciliegie mentre si parla di un batterio letale e della morte di bambini indica ciò che più di tutto a Salvini continuiamo a imputare: una totale mancanza di empatia.

E un politico incapace di praticare empatia è una disgrazia che non si augura a nessuno essendo la politica l’ascolto e la declinazione di governo dei bisogni che troppo spesso non vengono ascoltati di invisibili che spesso non vengono nemmeno notati e di disperazioni che vengono sottaciute. Non c’è nulla da ridere se un leader di partito esibisce, anche con una certa fierezza, l’incapacità di sentire ciò che gli accade intorno. C’è da averne paura perché è quello stesso politico a cui si vorrebbe affidare la gestione delle difficoltà delle persone. Forse basterebbe chiedere ai genitori di quei bambini morti cosa ne pensano, basterebbe buttarla, come Salvini fa spessissimo, sul piano del buonsenso che decide cosa sia opportuno e cosa non lo sia.

La risposta poi è la perfetta fotografia della malevola comunicazione. Salvini pensa che una certa sinistra (perché è sinistra tutto ciò che si permette di avanzare delle osservazioni, con la solita bambinesca divisione i noi e loro come in una partita di pallone) ce l’abbia con le ciliegie. Avrebbe potuto scusarsi, semplicemente, magari raccontandoci anche di ciò che Zaia stava provando a dire, poteva cogliere l’occasione per esprimere solidarietà a famiglie che hanno perso i figli e invece si è esibito ancora una volta in uno spettacolo tetro e goffo che riesce a essere quasi più insultante dell’abbuffarsi precedente. E chissà che non si riesca a parlare una volta per tutte di questi personaggi politici fieramente insensibili che giocano a agitare gli umori sporcando i temi che incrociano durante la loro propaganda.

Leggi anche: Mentre Zaia parla di neonati morti, Salvini “si ingozza” di ciliegie | VIDEO 

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