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Liliana Segre è una farfalla appoggiata sul filo spinato

(Ho avuto l’onore di scrivere la prefazione di un libro di Liliana Segre, “Scegliete sempre la vita – La mia storia raccontata ai ragazzi”, Edizioni Casagrande, e oggi ho pensato che forse fosse il caso di appoggiarne l’inizio qui, perché Liliana Segre è una persona che dobbiamo coltivare con cura, perché ieri ha festeggiato il suo compleanno sotto scorta e perché la memoria è un muscolo che va allenato con cura)

Liliana Segre è una farfalla appoggiata sul filo spinato e per questo è preziosa, è un fiore da preservare con cura e dovrebbe essere un gioiello non solo per i contenuti ma anche per i modi, per la visione d’insieme e per l’insegnamento di “cura del nostro tempo” che da anni impartisce in mezzo ai ragazzi. È anche un personaggio pubblico profondamente normale che ci costringe a riflettere sul ruolo dei testimoni in un tempo in cui tutto si fa spettacolo, tutto diventa tifo organizzato e tutto viene smisuratamente impugnato come clava per diventare arma bianca contro l’avversario politico di turno. Leggendo queste sue parole ai ragazzi, parole talmente lucide e misurate da sembrare un testo scritto recitato a memoria e non il contrario, ci si accorge di un’ecologia lessicale oltre che intellettuale a cui siamo completamente disabituati e che è il modus da cui ripartire per fronteggiare lo sbiadimento di un periodo storico che non ha a che vedere solo con il passato ma è l’antidoto a un presente che si ripresenta con altre facce, con un’alta capacità di simulazione e con punte ammorbidite degli stessi becchi che hanno portato una bambina, che era Liliana ma erano milioni di persone allo stesso modo, ad essere colpevole di essere nata.

Ciò che colpisce, innanzitutto, di Liliana Segre è la delicatezza che non si è fatta inquinare da ciò che ha vissuto: è la sua lezione più grande, quella che sarebbe da smontare per osservarne i meccanismi e i bulloni e capire come sia possibile rimanere ferocemente umani in questo tempo in cui riflettere sulla sentimentalità della vita (ovvero di come la vita sia spesso una questione di pressioni che la Storia sembra volere mettere nel cassetto delle cose passate e concluse) viene considerato un segno di debolezza. Liliana Segre è la prova vivente che ci sono purezze di sguardo e saldezza di valori (che ultimamente vengono chiamati in senso dispregiativo “buonismo”) che riescono ancora a essere le fondamenta su cui costruire uno sguardo diverso del presente e del futuro. Lei bambina, lei separata dal padre, la sua speranza di fuga che si infrange contro i calcoli sbagliati di chi sperava di salvarsi sono la metafora di un mondo in cui il “diritto a salvarsi” sembra ormai essere solo una concessione da dare a determinate categorie umane come se non esistesse un’unica razza umana.

Buon venerdì.

*-*

Per approfondire:

Liliana Segre, il futuro della memoria, Left dell’11 settembre 2020

La forza di Liliana Segre, Left del 15 novembre 2019

Liliana for President, Left del 7 giugno 2019

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Bellezza: che figuraccia di festival

È in programma a Verona dall’11 al 19 settembre il Festival della Bellezza  di cui stanno parlando un po’ tutti in queste ore. L’organizzazione è riuscita a compiere un piccolo capolavoro: per parlare di eros e bellezza ha pensato giustamente di invitare solo maschi, tutti maschi. Evidentemente, come troppo spesso accade da noi, si ritiene che non ci sia una donna in grado di parlare dell’argomento. Riuscire a infilare 24 oratori per parlare di bellezza e eros tutti di sesso maschile richiede un certo sforzo, effettivamente (l’unica donna, Gloria Campaner, accompagna al pianoforte l’intervento di Alessandro Baricco).

Giustamente ieri Michela Murgia si chiedeva se gli invitati non avessero nulla da eccepire, se non sia il caso di cominciare a prendersi la responsabilità di dare uno sguardo al programma prima di accettare un invito (lo fece qualche tempo fa il ministro Provenzano, che infatti declinò). Del resto i dati ufficiali dicono che nei festival italiani la presenza femminile si attesta intorno al 15%. E non è roba di cui andare fieri.

Ma non è tutto. L’organizzazione del festival ha cercato di difendersi dicendo che le “molte figure femminili” che erano state invitate “non se la sono sentita di intervenire in un periodo difficile, in un contesto particolare come l’arena di Verona”. Capito? Le donne si sono impaurite, evidentemente.

Ma non è tutto. Guardando i programmi degli ultimi anni si scopre che dal 2014 solo otto donne sono salite sul palco dell’Arena e del teatro romano di Verona per partecipare alla rassegna.

Ma non è tutto. L’anno scorso in un’intervista Alcide Marchioro, direttore artistico del Festival della Bellezza, rispondeva alle critiche sulla poca presenza femminile (già l’anno scorso, eh) diceva: “è più complesso con le figure di donne intellettuali. Trovare le persone adatte a sostenere un palcoscenico davanti a quasi duemila persone non è facile: il pubblico deve sentirsi coinvolto e il protagonista deve essere a suo agio”. Alla grande.

Ma non è tutto. L’immagine usata per pubblicizzare il festival è una donna (per la precisione una bambina) e l’artista autrice dell’opera, Maggie Taylor, ha espresso tutta la sua indignazione per quell’immagine che è stata usata senza il suo consenso aggiungendo di esser stata sconvolta dalla scelta di utilizzare una bambina, dato che quest’anno il tema della rassegna sarà l’eros.

Beh, alla grande direi, no? La misoginia ha radici profonde, in giro un po’ dappertutto, difficili da sradicare.

Buon giovedì.

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Salutavano sempre

Gabriele Bianchi, uno dei fratelli arrestati per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, scriveva sul suo profilo Facebook (lo riporto letterale), è qualcosa di anni fa (9) perché purtroppo i profili sono stati immediatamente cancellati e non abbiamo materiale a disposizione. Scrive Gabriele Bianchi:

«lurido egizziano de merda te possa da na paradise secca pozzi rimane senza respiro, pozzi crepa lentamente, spero che qualcuno ti venga a cercare e che ti affoghi nella merda schifosissimo essere figlio di puttana se c’è ancora la guerra nel tuo paese di merda spero che ti uccidono adesso bastardoooooooo»

Risponde il fratello Alessandro, il fratello maggiore, estraneo alla vicenda della morte, quello che ieri in un’intervista ci ha detto che ha insegnato ai suoi fratelli “le regole, il rispetto per l’avversario, la disciplina” e che “il fascismo e il razzismo sono cose che non esistono. Politica non ne hanno mai fatta e in palestra si allenano con ragazzi romeni, albanesi, nordafricani”:

«egiziano de merdaa che tu possa bruciare all’inferno mi piacerebbe averti 10 minuti tra le mani il pezzo più grande rimarrebbe un tuo occhio negraccio de merda»

Gli risponde Gabriele Bianchi:

«aahahahahahaha che negro de merda… magari ora sta sotto fosso morto!!!».

I genitori dei fratelli Bianchi in caserma avrebbero dichiarato: «Cosa avranno mai fatto?! In fondo era solo un extracomunitario…».

Forse sarebbe il caso di dircelo chiaramente che la violenza (scritta, simulata, proposta, mimata, recitata) poi alla fine diventa azione. Forse sarebbe il caso di dirci, al di là delle risultanze delle indagini e del processo, che l’ambiente da cui escono i picchiatori di Willy è veramente tanto diverso da come ce lo vorrebbero raccontare, tutto tranquillo e sereno.

Basta farli parlare, si dipingono da soli. Di razzismo qui se ne sente l’odore, dappertutto.

Buon mercoledì.

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Scambiare un omicidio per una rissa

Pregiudizi razzisti e agiografia dei violenti: nel raccontare l’uccisione di Willy Monteiro Duarte una parte del giornalismo italiano ha dato di nuovo il peggio di sé

Insuperabile il Corriere della Sera che descrivendo uno degli arrestati per la morte di Willy Monteiro Duarte scrive: «Ma Gabriele Bianchi, uno dei quattro fermati (insieme al fratello Marco e altri due) per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro, nei mesi di lockdown si era posto anche un problema più concreto: come tirare avanti, mettere insieme pranzo e cena. Da giovanotto sveglio e concreto lo sapeva: non potevano essere gli sport da combattimento a dargli una sicurezza economica. Così s’era inventato una vita meno bellicosa, quella del fruttivendolo».

Giovanotto sveglio e concreto: l’agiografia dei violenti ultimamente va per la maggiore e ogni dettaglio utile per sminuire l’accaduto sembra ricercatissimo da certi giornalismi per farci un bell’articolo. Eppure si sta parlando di pregiudicati, conosciuti da tutti come violenti, simpatizzanti dell’estrema destra e che si dedicavano volentieri alle risse. Questo piccolo dettaglio viene omesso.

Del resto i fatti raccontano che Willy Monteiro Duarte sia stato ammazzato di calci e di pugni, ovviamente in molti contro uno, come si conviene ai vigliacchi e sia rimasto lì, morto per terra. “Rissa”, scrivono certi giornali: come se fosse una “rissa” massacrare di botte un ragazzetto che pesa la metà di te insieme ai tuoi amici e contro cui usi le tue tecniche di combattimento imparate per diventare ancora più efficace nella tua violenza.

Poi c’è il racconto che ci dice che Willy Monteiro Duarte e la sua famiglia fossero “ben integrati”. Di grazia, qualcuno vorrebbe dirci che informazione è? Se non fossero stati “bene integrati” sarebbe stato più immaginabile un omicidio del genere?

Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti, e aveva proprio ragione.

Infine c’è la narrazione di chi vorrebbe farci credere che Willy si sia trovato “nel posto sbagliato nel momento sbagliato”. Anche questo è un falso: Willy ha ritenuto opportuno difendere un amico dalla foga e dalla violenza di questi picchiatori professionisti. Willy ha deciso di essere altruista e solidale in un territorio in cui evidentemente è un lusso che non ci si può permettere. Willy ha incocciato uno di quei quartieri presidiati dalla violenza di qualche gruppetto di pestatori professionisti che vorrebbero comandare il territorio. Willy ha fatto la cosa giusta. Siamo noi che gli abbiamo fatto trovare il Paese sbagliato.

Buon martedì.

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I bus per i negri

L’Alabama del Novecento in Val Brembana.
I leghisti hanno chiesto al prefetto di Bergamo che i richiedenti asilo prendano i mezzi pubblici in orari diversi rispetto agli studenti

Sembra una storia piccola, di provincia, che non meriterebbe nemmeno un commento e invece è la fotografia di qualcosa che si spande, che ogni giorno diventa sempre più normale, che addirittura non scandalizza e trova perfino consenso.

L’Alabama del secolo scorso si è trasferito in Val Brembana, amena valle nella provincia bergamasca, qui una folta truppa di leghisti ha deciso di andare in spedizione, con la scanzonata andatura di un’armata Brancaleone e con musichetta comica al seguito, dal Prefetto di Bergamo Enirco Ricci. Per dare peso all’importanza e alla sostanza della richiesta hanno pensato bene di partecipare anche due parlamentari della Lega, Daniele Belotti e Alberto Ribolla, tanto per farci capire che non si tratta di un inciampo di qualche piccolo e sconosciuto amministratore locale ma qui siamo di fronte a un’ideologia di partito che viene sfoggiata pure con una certa fierezza.

La combriccola ha chiesto al Prefetto di Bergamo che i “richiedenti asilo” (chiamati proprio così nel messaggio ufficiale, virgolettati come si virgolettano i diversi) prendano i mezzi pubblici in orari diversi rispetto agli studenti del mattino e forse, ancora meglio, che venga predisposto un servizio di trasporto appositamente per loro. Il bus per i bambini bianchi e il bus per i negri.

Il bravo Matteo Pucciarelli di Repubblica, che ha raccontato la vicenda, riporta anche le parole del dirigente locale della Lega, tal Enzo Galizzi che dice testualmente che i migranti “spintonando e sgomitando” e “vista la loro stazza”, “occupano tutti i posti disponibili” non permettendo agli studenti di rientrare a casa.

Nella richiesta, se ci pensate bene, c’è tutta l’inversione della propaganda leghista: piuttosto che brigare e lavorare per chiedere un servizio pubblico più efficiente (di cui è proprio la Lega la responsabile politica, da quelle parti) si preferisce agire per sottrazione ovviamente schiacciando il piede sulla xenofobia. E così, in nome di un’oggettiva difficoltà (quello del trasporto pubblico, segnatelo, sarà uno dei grandi problemi del rientro al lavoro) si riesce ancora una volta a dare sfogo alle proprie bassezze.

Del resto il leader attuale della Lega era lo stesso ridicolo consigliere comunale a Milano che nel 2009 propose di istituire delle carrozze della metropolitana solo per i milanesi per evitare contaminazioni con gli stranieri. Ai tempi quel giovane provocatore Matteo Salvini venne preso come un innocuo agitatore di proposte improbabili. Poi è andata a finire come sta finendo.

Buon lunedì.

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Non c’è un giudice a Strasburgo?

Tocca parlare ancora di Turchia, perché i diritti sono sempre quelli degli altri e perché la finta contrizione per la morte di Ebru Timtik sembra non avere insegnato nulla, niente.

L’avvocato Aytaç Ünsal, collega di Ebru Timtik e anche lui al suo 214° giorno di sciopero della fame, anche lui condannato per terrorismo e ovviamente sottoposto a un processo farsa, ha rischiato di fare la stessa fine della sua collega e di altri che in questi mesi stanno protestando contro il governo di Erdogan e che sono accusati in modo strumentale per essere messo fuori gioco.

Nelle scorse ore, fortunatamente, la Corte di Cassazione di Ankara ha deciso la sua immediata scarcerazione per motivi di salute. I giudici hanno stabilito che l’avvocato 32enne debba essere “immediatamente liberato” a causa del “pericolo che rappresenta per la sua vita la permanenza in prigione”. Nei giorni scorsi, i sanitari avevano lanciato l’allarme sul deterioramento delle sue condizioni di salute.

Ma solamente due giorni fa, il 2 settembre, la Corte europea dei diritti dell’Uomo (Cedu) aveva bocciato il ricorso per la scarcerazione di Ünsal confermando la decisione della Corte costituzionale turca dello scorso 14 agosto. E già questo dovrebbe porre delle domande poiché giuristi di tutta Europa stavano sottolineando l’iniquità della giustizia turca nei confronti degli avvocati. Giusto per capire a che punto siamo arrivati basti pensare che il ministro dell’Interno, Süleyman Soylu, ha definito una «terrorista» l’avvocata morta, e ha denunciato l’ordine degli avvocati di Istanbul per averla commemorata. In Turchia sono vietate anche le lacrime.

Ma non è tutto, no: il presidente della Cedu, Robert Spano, è in questi giorni in Turchia per ricevere una Laurea Honoris Causa in Giurisprudenza a Istanbul e poi tenere, ad Ankara, una Lectio Magistralis presso l’Accademia di Giustizia turca. L’Università statale di Istanbul è stata al centro di una massiccia epurazione dopo il fallito “colpo di Stato” del 2016: furono licenziati 192 accademici. Quell’università è il simbolo dell’opera di pulizia da parte di Erdogan e che un giudice super partes decida di esserne ospite accende più di qualche dubbio.

Lo scrittore Mehmet Altan ha scritto a Spano: «Non so come si possa essere fieri di essere membri onorari di una università che condanna alla disoccupazione, alla povertà e al carcere centinaia di docenti solo per il loro pensiero e i loro scritti». Altan è un accademico di fama mondiale ed era stato espulso da quella università per le sue idee e fu tra i primi intellettuali arrestati nella repressione post-golpe. L’accusa, tanto per chiarire di cosa stiamo parlando, sarebbe quella di avere mandato “messaggi subliminali” durante un programma televisivo. Altan è stato poi prosciolto ma non è mai stato reintegrato all’università, marchiato come traditore.

In tutta la Turchia pendono qualcosa come 60mila richieste di reintegro da parte di lavoratori che hanno perso il proprio lavoro per le loro idee politiche. E sapete chi vaglierà quelle richieste? Robert Spano, quello che in questi giorni è in gita d’onore proprio in Turchia.

E questo per oggi è tutto.

Buon venerdì.

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Nascere e morire. A Verona

Secondo la Commissione che indaga sulle infezioni da Citrobacter «sono stati identificati 91 soggetti positivi» e i primi casi risalgono al 2017. Ma la struttura sanitaria non avrebbe mai comunicato nulla

«Il tempo per piangere c’è stato, ora è il tempo della giustizia. Chi ha sbagliato deve pagare. Alice poteva essere qui con me, che almeno la morte di mia figlia serva a qualcosa», sono le parole di Elisa Bettini, mamma di Alice, una dei neonati morti a Verona a causa del Citrobacter, intervistata da La Stampa. Dice Elisa: «Mi dicono che Alice ha la febbre, meningite da Citrobacter. Chiedo se ci sono o ci sono stati altri casi, mi rispondono di no. Nella stanza tiralatte, parlando con le altre mamme, scopro che non è  vero, e che di casi ce ne sono almeno cinque, Alice compresa, e che se ne verificano almeno dal dicembre precedente. Ci dimettono il 22 maggio. Il 12 giugno, Francesca (Frezza, la madre che ha fatto scoppiare lo scandalo, ndr) denuncia la situazione con un’intervista a L’Arena, il giornale di Verona. Ci troviamo con lei e con altre mamme, contiamo i casi di cui siamo a conoscenza, in totale sono una trentina, mentre qui continuano a parlare di dieci o dodici. Adesso veniamo a sapere che sono 96».

Lunedì è stata depositata la relazione stilata dalla Commissione istituita dal presidente del Veneto Luca Zaia per indagare sul caso di infezioni causate dal batterio Citrobacter koseri nei reparti di Terapia intensiva neonatale e pediatrica nell’Ospedale Donna e Bambino di Borgo Trento, a Verona. I risultati mettono i brividi: dall’apertura della struttura (era il 4 aprile del 2017) «sono stati identificati 91 soggetti positivi per Citrobacter», 9 neonati «hanno sviluppato una patologia invasiva causata da Citrobacter koseri» e tra questi 5 hanno riportato gravi lesioni cerebrali e 4 sono morti.

A giugno di quest’anno ci si è accorti che il batterio stava su alcuni rubinetti delle terapie intensive neonatale e pediatrica e sulle superfici interne ed esterne dei biberon utilizzati da due neonati risultati positivi. Molto probabilmente si tratterebbe di latte per neonati preparato con acqua infetta. Acqua del rubinetto. La struttura sanitaria non avrebbe mai comunicato nulla alla Regione e nemmeno all’ente che amministra la sanità veneta. Alice è morta il 16 agosto, dopo giorni di atroce sofferenza. Elisa adesso vuole sapere chi ha sbagliato: «Non tollero che neghino l’evidenza», dice: «Se faccio tutto questo, è perché io non voglio che succeda a un altro bambino».

È una storia che si porta un enorme carico di dolore.

Buon giovedì.

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E il maluomo non s’armolada

Secondo uno studio dell’Università di Padova il ghiacciaio della Marmolada nelle Dolomiti tra 15 anni potrebbe non esistere più. Ma il tema è pressoché assente dal dibattito pubblico. E la politica finge che non esista

Marmolada è diventato un verbo, un verbo di distruzione, un verbo di irresponsabilità, un verbo che dovrebbe ricorrere nei discorsi perfino quelli del bar, quelli che si fanno con leggerezza e che ultimamente sono abbastanza ingolfati di presunti vip fieri di essere infettati e di chiacchiericcio di fondo.

Secondo uno studio del Centro nazionale delle ricerche tra 25-30 anni il ghiaccio della Marmolada non esisterà più. Nel dicembre del 2019 gli studiosi scrivevano che in soli 10 anni il ghiacciaio della Marmolada, montagna iconica delle Dolomiti, ha ridotto il suo volume del 30%, mentre la diminuzione areale è stata del 22%. Il ghiacciaio, un tempo massa glaciale unica, è ora frammentato e suddiviso in varie unità, dove in diversi punti affiorano masse rocciose sottostanti. I terreni carsici, come la Marmolada, sono irregolari e costituiti da dossi e rilievi. Se il ghiaccio fonde gradualmente, le aree in rilievo affiorano, diventando fonti di calore interne al ghiacciaio stesso.

Ora un nuovo studio dei glaciologi dell’Università di Padova dicono che il Cnr probabilmente è stato fin troppo ottimista. «Negli ultimi 70 anni – afferma Aldino Bondesan, coordinatore delle campagne glaciologiche per il Triveneto – ha ormai perso oltre l’80% del proprio volume passando dai 95 milioni di metri cubi del 1954 ai 14 milioni attuali. Le previsioni di una sua estinzione si avvicinano sempre di più: il ghiacciaio potrebbe avere non più di 15 anni di vita». «Se estendessimo il trend di riduzione di superficie degli ultimi 100 anni (3 ettari/anno) – spiega Mauro Varotto – la fine del ghiacciaio è fissata per il 2060; se consideriamo il trend di contrazione degli ultimi 10 anni (5 ettari/anno), la fine viene anticipata al 2045. Ma il trend degli ultimi 3 anni è ancora più allarmante (9 ettari/anno) e potrebbe portare alla scomparsa di buona parte del ghiacciaio già nel 2031».

E non si tratta di un caso isolato: l’aumento delle temperature hanno ridotto nell’ultimo secolo del 50% i ghiacciai e il 70% di questo 50% è avvenuto negli ultimi 30 anni.

Marmolada è diventato un verbo. M’armolada molto che se ne parli solo negli articoli considerati scientifici come se non fosse un tema fortemente politico. M’armolada che nella campagna elettorale in corso non ci sia un solo accenno. M’armolada che i segretari di partito non sprechino mai una parola, non abbozzino mai una soluzione ogni volta che esce una notizia di questo tipo. M’armolada che quelli che promettono di spostare le montagne non si accorgono della loro sparizione. M’armolada che ancora si scriva e si dica del presunto maltempo senza capire che non è mai il tempo a essere malo ma tutto quello che accade è colpa piuttosto di un maluomo.

E il maluomo non s’armolada, continua a arrovellarsi sui problemi (reali e spesso inventati) che interessano il presente.

Buon mercoledì.

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E i decreti sicurezza?

Avevano garantito che sarebbe stato il governo della discontinuità e invece dopo 362 giorni di Conte 2 le leggi di Salvini sono ancora in vigore

Conviene ricordarlo perché fa bene a noi e fa bene anche a loro, loro che sono al governo e che ci avevano garantito che sarebbe stato il governo della discontinuità, ci avevano rassicurato che si sarebbe cambiata rotta. E il bello è che continuano a dircelo ancora, insistono nel tranquillizzarci chiedendoci ancora pazienza. State buoni, abbiate fiducia, ora facciamo tutto.

I decreti sicurezza. Quei decreti sicurezza voluti con tanto ardore da Matteo Salvini e controfirmati da Luigi Di Maio e dal presidente del consiglio Giuseppe Conte, quei decreti sicurezza che in nome della discontinuità sarebbero stati abrogati e poi invece ci siamo dovuti accontentare che fossero modificati. Badate bene: della promessa che fossero modificati. Siamo sempre nel campo delle promesse. Sono passati 362 giorni dall’insediamento del governo Conte 2 e i decreti sicurezza continuano a restare là dove sono e, dalle notizie che girano dalle parti del governo, sembra che se ne riparli dopo le elezioni regionali, a ottobre. Vi ricordate la promessa che sarebbero stati all’ordine del giorno nel primo Consiglio dei ministri di settembre? Beh, scherzavano, non è così.

Le parole migliori le ha espresse Gianfranco Schiavone di Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) a Redattore Sociale: «Questo rinvio è l’ennesimo gioco della paura: si rinuncia a presentare agli italiani la propria visione diversa e nuova sulle migrazioni per paura di perdere consenso. E’ ormai un circolo vizioso costante dal quale però bisogna uscire, soprattutto in un momento in cui bisognerebbe spiegare le proprie idee agli elettori. Quei decreti non vanno bene, perché non spiegare che i grandi centri creati da Salvini stanno creando problemi con l’emergenza sanitari di Covid-19? Che serve reintrodurre una forma di protezione? Così rimane solo l’impianto ideologico della destra. Se poi il rinvio significa che il voto influenzerà le modifiche, potremmo avere una crisi di quell’accordo che abbiamo raggiunto a fatica, c’è addirittura lo spettro di non fare nulla».

E così siamo alle solite: una politica che decide di non decidere sperando di continuare a galleggiare, come se niente fosse. Un centrodestra che può continuare a sparare a palle incatenate e intanto un centrosinistra che non ha nemmeno il coraggio di proporre un’alternativa. Qui ormai siamo oltre all’egemonia culturale della destra: qui siamo nel deserto di idee e di coraggio. Lo so, ancora, è sempre la solita storia.

Buon martedì.

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Morti di fame

L’avvocata Ebru Timtik, prima di lei i musicisti del Grup Yorum. Morti per le conseguenze della loro protesta in difesa della giustizia. Accade nella Turchia di Erdogan, graziato dal silenzio dell’Europa

È una storia che gocciola sangue anche se non c’è sangue in giro perché qui i morti muoiono per consunzione. Giovedì sera a Istanbul è morta Ebru Timtik, avvocata che da 238 giorni era in sciopero della fame nelle prigioni turche per chiedere un processo equo per sé e per 17 colleghi che erano accusati di legami con il Fronte rivoluzionario della liberazione popolare (Dhkp/C), un gruppo di estrema sinistra considerato formazione terroristica dal governo.

Timtik aveva 42 anni e si occupava di diritti umani da sempre, era stata condannata nel 2019 a 13 anni e sei mesi di carcere, il suo accusatore è stato ritenuto non credibile, lei contestava l’iter giudiziario che l’aveva portata alla condanna. In Turchia Erdogan da anni, graziato dal silenzio dell’Europa, utilizza l’accusa di terrorismo per fare piazza puliti degli oppositori ritenuti scomodi al governo. Timtik faceva parte dell’associazione contemporanea degli avvocati, specializzata nella difesa di casi politicamente scomodi, “se l’era andata a cercare”, come commenterebbe qualche pavido nostrano che insegna e ci vorrebbe insegnare che per non avere problemi conviene sempre farsi “i fatti suoi”. Ebru Timtik aveva difeso anche la famiglia di Berkin Elvan, un adolescente vittima delle ferite riportate durante le proteste antigovernative a Gezi Park nel 2013.

Un mese fa il tribunale di Istanbul aveva negato la richiesta di scarcerazione di Ebru Timtik dichiarando che era “in salute” e perfino la Corte Costituzionale aveva negato, qualche settimana fa, la scarcerazione. Con Timtik in sciopero della fame c’era anche il suo collega Aytaç Ünsal, anche lui incarcerato, che con un filo di voce dal letto di ospedale ha detto di essere ancora più convinto di quello che sta facendo e della sua lotta, che vorrebbe che la battaglia di giustizia continui, anche lui è in pericolo di vita. Sono 18 gli avvocati condannati per un totale di 159 anni, un mese e 30 giorni di reclusione: tra le accuse nei loro confronti c’è anche quella di avere parlato con i loro clienti. Accusati di avere fatto il proprio lavoro. I testimoni del processo erano tutti anonimi e in carcere, evidentemente ricattabili. A maggio tre musicisti membri del gruppo Grup Yorum, anche loro accusati di terrorismo, si sono lasciati morire d’inedia per protestare contro Erdogan.

È una notizia enorme, enorme per l’altezza del pensiero di chi muore per degli ideali ancora nel 2020, qui vicino a noi, in un Paese con cui tutta Europa briga fingendo di non vedere, ed è enorme perché è una lezione di difesa della giustizia anche di fronte alla legge. Morti di fame per difendere i propri diritti, sembra una storia che arriva dal secolo scorso. Durante il funerale di Ebru Timtik sono stati sparati lacrimogeni contro i giovani che vi partecipavano.

Accade qui, vicino a noi. Lo sentite questo fragoroso silenzio?

Buon lunedì.

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