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«Ti ho lasciato prima io»

Il leader leghista si è infilato in un vicolo stretto e ora fatica ad uscirne. Salvini ha perso con Conte nella famosa estate del Papeete e continua a perdere con Draghi che se lo sbologna ogni giorno

Il gioco di Matteo Salvini si srotola ogni giorno diventando sempre più prevedibile. Il leader leghista si è infilato in un vicolo stretto e ora fatica ad uscirne. Ha provato a prendersi la responsabilità di entrare nel governo Draghi convinto di potersi ammantare di quel profilo che avrebbe potuto renderlo federatore del centrodestra italiano anche in Europa. Ne è uscito un Salvini rammollito, mollato dai suoi elettori più spinti (che mica per niente si sono spostati dalla parte di Giorgia Meloni e perfino alla corte di Gianluigi Paragone) che non ha assolutamente lo spessore di rimanere all’interno di un governo che può permettersi di trattarlo come un impiccio.

Salvini ha perso con Conte, ribaltato nella famosa estate del Papeete e continua a perdere con Draghi che se lo sbologna ogni giorno con l’aria di chi non vuole prestare troppa attenzione a un suo alunno troppo capriccioso. Le elezioni amministrative ne hanno sancito la regressione (e la politica, si sa, è fatta di movimenti ondulatori che una volta partiti sono molto difficili da deviare e da frenare) e il consenso di Salvini che riempiva le piazze oggi è piuttosto un’affezione per quello che fu. Non pesa nel governo, non pesa come oppositore (del resto come potrebbe pesare mentre Giorgia Meloni ha una prateria a disposizione stando all’opposizione) e non riesce ad accontentare più nessuno: i suoi sindaci e presidenti di regione lamentano la mancata consapevolezza, non si governa con gli spot e con le foto della Nutella; i suoi elettori ne lamentano l’immobilismo; Fedriga, Giorgetti e Zaia stanno preparando il prossimo congresso e ormai tengono un filo diretto con la presidenza del Consiglio e la presidenza della Repubblica; Forza Italia lo ritiene troppo acceso mentre Giorgia Meloni guadagna sul suo spegnersi lentamente.

Ora Salvini ha deciso di adottare uno schema adolescenziale: per pesare pesta i piedi (si è lamentato per il poco tempo avuto per valutare la delega fiscale ma è lo stesso Salvini che ha votato migliaia di pagine di Pnrr senza avere il tempo di sfogliarle. Ora si butta sulle discoteche senza rendersi conto di buttarsi in un campo in cui gli aperturisti (per non dire addirittura i No Green pass o perfino i No vax) non saranno mai contenti. Come al solito manda avanti i suoi scherani per alzare la polvere (sentire ieri Molinari lamentarsi per come viene trattata la Lega nella maggioranza è stato uno spettacolo davvero povero) e non si prende responsabilità.

Ora ripartirà la solfa. Ci dirà dei migranti (in attesa di qualche fatto di cronaca nera) e ancora parla genericamente di innalzamento delle tasse (come nemmeno il più banale Berlusconi) ma non funzionerà. Eccolo allora che si comporta come quelli che vogliono farsi lasciare ma non hanno il coraggio di lasciare. Punta a farsi scaricare e poi magari alzerà il ditino e dirà «però ti ho lasciato prima io».

Avanti così. Buon giovedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La vittoria di Hassan: prima sconfigge sul ring il pugile coi tatuaggi nazisti, poi lo manda ko con le sue parole

Ci sono molti modi per tirare pugni, ci sono modi molto eleganti per mandare al tappeto qualcuno senza violenza. L’incontro di pugilato valido per il titolo italiano di boxe nella categoria Superpiuma è una storia in cui i pugni durante l’incontro sono solo una minima parte di una vicenda disperante nel suo complesso.

C’è il pugile Michele Broili ricoperto di tatuaggi dichiaratamente nazisti: simboli inequivocabili come quello sul pettorale sinistro, cioè quello delle Schutzstaffel, le SS naziste. Accompagnato dal totenkopf, il teschio usato proprio dai reparti paramilitari nazisti sulle divise. E poi il numero 88, chiaro riferimento all’”Heil Hitler”. E per non lasciare altri dubbi, Broili si è anche fatto tatuare sulladdome un enorme castello coronato con la scritta: “Ritorno a Camelot”, il raduno che si tiene ogni cinque anni organizzato dal Veneto Fronte Skinheads.

La Federazione pugilistica italiana si è accorta degli orrendi messaggi portati sul corpo di Michele Broili solo alla conclusione del match. Una disattenzione curiosa per uno sport che proprio sulla lettura dei particolari e sulla velocità di osservazione di corpi fonda tutta la sua tecnica.

Evidentemente dalle parti della Federazione devono avere preso troppo alla lettera l’arte dello schivare e speravano di portare a casa l’incontro fino all’ultimo suono dell’ultima campanella. Così, quando è scoppiato il putiferio, sono subito corsi ai ripari con una nota piuttosto maldestra in cui definiscono il comportamento di Broili “inaccettabile e stigmatizzato da sempre dalla Federazione pugilistica italiana, la quale è costantemente schierata contro ogni forma di violenza, discriminazione e condotta illecita e/o criminosa”.

Del resto quello stesso corpo campeggiava anche su una locandina della Trieste boxe night (evento organizzato dallassociazione sportiva Ardita per cui il pugile è tesserato e con il patrocinio del Comune di Trieste): il nazista travestito da pugile era stato scelto addirittura come testimonial, per dire.

Poiché ogni tanto la realtà poi regala sceneggiature inarrivabili è accaduto che Broili sia stato battuto da Hassan Nourdine, nuovo campione italiano della categoria Superpiuma, nato in Marocco. Chissà come brucia la sconfitta.

E poi come se non bastasse, dopo averlo mandato al tappeto, Nourdine ha rilasciato un’intervista a La Stampa in cui dice: “Volevo fare un bel match e vista la situazione c’è stato anche più gusto a vincere. Ho trovato quelle scritte oscene. Durante le operazioni di peso io e il mio allenatore Davide Greguoldo siamo rimasti allibiti, anche se non abbiamo fatto nessuna segnalazione”.

E questo perché “pensavo di aver visto male, non volevo crederci. Poi abbiamo deciso di concentrarci sullincontro, eravamo lì per quello. In quel momento non aveva senso mettersi a fare polemiche”. Notevole anche il gancio che Nourdine lancia alla Federazione, rispondendo a chi lo invitava a non disputare il match (come se fosse compito dei pugili risolvere le inadempienze dei dirigenti): “noi siamo andati a Trieste per fare il nostro lavoro. La Federazione doveva accorgersi dallinizio che questo pugile aveva quelle simpatie. Incitare allodio è punito dalla legge”, ha detto l’italo-marocchino. 

Ed è una storia in cui sembra vincere la giustizia, almeno quella morale. Chissà che prima o poi non arrivi anche la giustizia sportiva.

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Salvini, la famiglia prima di tutto ma non se sono profughi: la proposta senza senso di accogliere solo donne e bambini

Ci sono molti modi per cannibalizzare un territorio che è spolpato da 20 anni di guerra feroce e inutile, poi caduto nelle mani di quegli stessi per cui 20 anni fa ci si era mossi e che ora sono tornati riaccendendo le stesse paure e l’odore degli stessi errori di vent’anni prima: anche l’Afghanistan entra nella centrifuga paradossale e cretina di Matteo Salvini, ovviamente con nessun interesse reale per la vicenda ma banalmente per accarezzare gli sfinteri del proprio elettorato senza stordirlo con troppa complessità.

Corridoi umanitari per donne e bambini in pericolo certamente sì. Porte aperte per migliaia di uomini, fra cui potenziali terroristi, assolutamente no”, ha detto Matteo Salvini con la faccia tronfia di chi si illude di essere riuscito ad apparire compassionevole ma duro, difensore della propria Patria simulando un minimo interesse per le patrie degli altri.

Peccato che basta metterci un secondo di testa, accendere un minimo di logica per accorgersi che la frase non ha nessun senso. Una “cagata pazzesca” come la definirebbe Fantozzi. Dentro c’è l’assurda idea di considerare donne e bambini elementi separati dagli uomini, di fatto proponendo una classificazione per genere e per età delle persone da salvare dimenticandosi totalmente che le famiglie solitamente invece siano composte da tutti e tre gli elementi. Ed è piuttosto curioso che lo strenuo difensore della “famiglia tradizionale” immagini invece famiglie spaccate in giro per l’Europa senza nessuna possibilità di coinvolgimento.

Ma non solo: Salvini parte dall’assunto che tutti gli uomini afghani siano evidentemente pericolosi e “terroristi”, dimenticando di fatto (o ignorando per troppa pochezza storica e culturale) che i terroristi a cui si riferisce (cioè quelli dell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001) siano del Paese con cui va a braccetto il suo amico Renzi. Pregiudizio e ignoranza: il mix perfetto per il razzismo, ovviamente.

Ma il capolavoro dell’idiozia è questo: “E mentre a Kabul i talebani riportano in vigore la sharia, la violenta legge islamica, in Italia stanno per sbarcare 166 e 322 clandestini da due navi di ONG con bandiera tedesca e norvegese. Io il 15 settembre andrò a processo perché ho difeso il mio Paese, qualcun altro dorme…”, scrive Salvini.

Qui dentro c’è tutto il sottovuoto spinto della sua propaganda: mischiare argomenti diversi ed erroneamente descritti facendo un giro largo per parlare di sé. L’uomo che giudica i colpevoli solo leggendo i titoli di Libero si rivende come eroe perché rinviato a giudizio (lui che sputa di solito perfino sugli indagati) e in un tweet mette dentro sharia (chiamandola erroneamente “violenta legge islamica”), bandiere tedesche e norvegesi, clandestini che non lo sono (anche in questo caso lo decide un percorso giuridico) e un processo di cui lui stesso ha già deciso la sentenza. Badate bene: è il Salvini che banchetta in giro per l’Italia raccogliendo firme per un referendum sulla giustizia. Fate un po’ voi.

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Due consigli prima di parlare di Ddl Zan o di pestaggi nelle carceri

Qualcuno trovi presto il visionario coraggio di costituire un intergruppo parlamentare dell’empatia. Lo faccia in Parlamento e se possibile lo faccia anche nelle associazioni di categoria: la confempatia, l’arciempatia, il dopolavoro empatico e, se possibile, anche una corrente empatia in ogni partito. Fallito il tentativo di instillare solidarietà, schiacciato dalla clava del sospetto reato di buonismo, non resta che innescare un enorme movimento pedagogico che spinga più persone possibili a provare l’ebrezza di “mettersi nei panni degli altri”. La usavano certi parroci e certi nonni mentre oggi suona come una sconcezza fluida o come un pericolo di contagio.

Signori, la rivoluzione solidale è persa

Guardarsi in faccia e dirsi: signori, la rivoluzione solidale l’è persa, ci abbiamo provato ma non abbiamo partorito niente di più di qualche circolo dei buoni e bravi. La solidarietà è un sentimento inaccessibile al pari di un ideale e si sa che questi non sono tempi in cui si può toccare il cielo con un dito ché siamo nati tutti con un nodo in gola. Però se una gran fetta di italiani provasse l’ebrezza sciagurata (va benissimo anche un’informatizzata realtà virtuale che irrompa come uno spot) di essere un carcerato che è stato condannato dalla legge e che poi si ritrova quella stessa legge con il manganello in mano e i denti gocciolanti a schiaffare lividi non sarebbe possibile che non si senta l’odore acre dell’ingiustizia. Non sarebbe nemmeno possibile concedere il lusso a qualche politicante di mischiare tutto con la propaganda. Si potrebbe essere in disaccordo, certo ci mancherebbe, ma parlarne e scriverne con il bruciore di uno sfregio tra le costole riporterebbe la discussione nell’alveo umano, contenuta nella dignità.

Il lusso immorale di travestire la povertà da indolenza

Se per cinque secondi (il tempo di uno spot breve durante il recupero della palla in fallo laterale) arrivasse il burrone di non sapere come tirare fino a fine mese, cosa mettere nelle borse che non si possono permettere nemmeno la peggiore pasta del più sporco discount della più periferica periferia, si potrebbe discutere di poveri e di povertà senza concedersi il lusso immorale di travestirla da indolenza, di chiamare un vasetto di sugo assistenzialismo e di ipotizzare la creazione di un cassonetto nazionale dei falliti. Sono sicuro che se si sentisse l’esigenza di andare via, andare da qualsiasi parte, per tentare di sopravvivere, perfino scegliere una morte incerta piuttosto che una morte certa, allora potremmo scornarci all’infinito su come governare le migrazioni (che sono comunque uno dei fenomeni che più si autogoverna essendo naturale nella storia) ma sentiremmo l’urgenza del salvataggio, almeno quello, scornandoci poi serenamente dal secondo successivo all’approdo.

La corte di farisei omofobi che rivittimizzano le vittime

Se capitasse il caso, breve ma intenso, di venire identificati con un solo lembo di tutto il perimetro del nostro corpo e di quello che siamo, se vedessimo un mondo in cui il prerequisito essenziale è quello di essere eterosessuale per stare tra “normali” intenti a disinfettare come scarti tutti gli altri potremmo discutere del ddl Zan ragionando (anche spigolosamente) sulle formulazioni di legge ma non permetteremmo ai farisei omofobi di rivittimizzare le vittime. Pensate agli occhi diversi con cui si potrebbe discutere di tutele, di genitorialità, di garanzie di reddito e della casa, di salute e cura. Salterebbero all’occhio, distinguendosi come macchie sotto il luminol, gli avvelenatori di pozzi mentre scorgono dittature sanitarie dappertutto, incroceremmo ogni persona con la consapevolezza che, anche se non si vede, sta combattendo una sua battaglia personale che merita rispetto. Ci diremmo che è faticoso, eccome, vivere e sopravvivere.

I diritti sono sempre quelli degli altri

I diritti sono sempre quelli degli altri scriveva Pasolini perché chi reclama diritti è sempre una minoranza schiacciata dal proprio poco peso. Cadrebbe anche questa ghigliottinante tiritera del “ci sono cose più importanti” poiché ci sarebbe la consapevolezza che l’importante è già tutelato dal proprio ingombro. Perché mentre ci sediamo su uno status quo che ci appare garantito dovremmo sentire il burrone delle vite che per un accidente qualsiasi possono precipitosamente rotolare e quando ormai si è già tra le frasche possiamo urlare, urlare, urlare ma lì sopra, se non sono educati a sentire, non ci sente nessuno.

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Il libro nero sul CPR di Torino: “Quanti drammi prima del suicidio di Balde”

«Una ferita aperta, praticamente uno squarcio nel nostro sistema di diritto»: non usa mezzi termini l’avvocato Lorenzo Trucco, presidente dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) durante il suo collegamento per la conferenza stampa di presentazione del Libro nero sul CPR, (Centro di permanenza per i rimpatri) di Torino, organizzata alla Camera dal deputato di Più Europa Riccardo Magi.

Trucco ancora una volta ha sottolineato come la mancanza di regole dei centri determini di fatto un buco nero in cui sprofondano le persone, «In una voragine di disumanità», racconta, «in isolamento, senza cellulare, senza nessun contatto con i familiari, privi di controlli indipendenti sulla loro idoneità all’essere rinchiusi». Quel CPR di Torino diventato tristemente famoso per il suicidio di Moussa Balde, il 23enne guineano che si è tolto la vita in una cella di isolamento dopo essere stato vittima di un pestaggio a sfondo razziale. E, come ricorda il presidente dell’ASGI, le stesse celle di isolamento non sono previste da nessuna norma, «ci si finisce in assenza di qualsiasi provvedimento sottoposto a controllo formale. Si tratta – spiega Trucco – di un’umiliazione della persona. Ed è per questo che si moltiplicano gli atti di autolesionismo ed è per questo che abbiamo fortemente voluto pubblicare il libro nero. Perché il decesso di Balde è stato preceduto da molti altri drammi». C’è poi un buco giuridico: il giudice di pace non ha nessun potere di disporre pene detentive (come di fatto è la detenzione in un CPR): «Avviene solo per i migranti ed è un paradosso che si deve rimuovere».

L’avvocato Maurizio Veglio (anch’egli componente di ASGI) ha sottolineato come il loro Libro nero sia di fatto un racconto rubato, nato dalle storie di persone intercettate «e sottratte a un sistema di controllo feroce». Si tratta di un «catalogo di pezzi di biografie di persone a cui viene negato tutto». C’è chi non riesce ad avere le stampelle di cui avrebbe bisogno, c’è chi afflitto da patologie ematologiche aspetta un mese e mezzo per avere accesso agli esami che gli spettano, persone che si dichiarano minorenni ma che vengono comunque trattenute. «Il CPR è un luogo di scomparsa – dice Veglio -sterilizzato. Non escono le notizie, non esiste un registro degli eventi critici e la qualità della vita è talmente degradata e degradante che alcuni detenuti chiedono addirittura l’isolamento, altri finiscono per cucirsi le labbra, inghiottire oggetti o studiare quanti chili debbano perdere per sperare di guadagnare la libertà. Se non c’è un giudice ai detenuti rimane solo il loro corpo. E nel CPR c’è un solo infermiere per 12 ore e un medico per sole 5 ore. Solo loro per 130 detenuti».

L’avvocato di Moussa Balde, Gianluca Vitale di Legal Team Italia, ha sottolineato come la morte del giovane sia riuscita a superare le mura del CPR: «Il suo luogo di isolamento è una stanzetta, praticamente sei in un pollaio, in una gabbia da zoo. Moussa è stato vittima di un reato ma per lo Stato ha prevalso la sua irregolarità, preferendo la negazione dei diritti. E nel CPR di Torino è morto Hossain Faisal, cittadino bengalese, il 16 febbraio del 2019, nella stessa cella in cui era stato collocato ben 5 mesi prima e nonostante evidenti problemi psichici». Al 24 giugno nei 10 CPR sparsi per l’Italia (1 è chiuso per lavori) erano detenuti 452 persone (tutti uomini) su 755 posti disponibili.

«A Torino anche i colloqui con gli operatori avvengono attraverso le sbarre – ha spiegato Daniela De Robert, componente del Collegio del Garante nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà – C’è una gravissima mancanza di trasparenza: solo il CPR di Roma permette l’accesso ad alcune organizzazioni mentre tutti gli altri sono chiusi alla società civile, difficili perfino per gli avvocati e negati alla stampa. È più facile entrare in carcere che in un CPR. Poi si potrebbe discutere della legittimità dei trattenimenti: nel 2020 sono state rimpatriate il 50,1% delle persone e ne sono passate 4487. È lecito trattenere persone private della loro libertà in funzione di un’espulsione che non avviene? Nel lockdown le persone venivano trattenute nonostante i voli fossero cancellati e le frontiere chiuse. Che senso ha? E poi ci sono i minori trattenuti con la radiografia del polso, una cabala senza base scientifica». «Da noi chiedi protezione e ricevi isolamento – dice De Robert – in un luogo privo di qualsiasi regolamento e controllo. I detenuti avrebbero diritto di reclamo ma come possono farlo in un luogo in cui non viene nemmeno concessa la carta e la penna?».

«Nei Cpr si trovano spesso persone in una condizione di disperazione senza fine, e la fine a volte, come nel caso di Mussa, è la morte», afferma Riccardo Magi. «La detenzione è oltremodo afflittiva per la mancanza di regole che disciplinino meglio vari aspetti della vita dei reclusi e garantiscano diritti basilari. Su questo si può e si deve intervenire seguendo anche le indicazioni del Garante. Ma andrebbero anche riconsiderati il senso e le modalità di questa detenzione amministrativa anomala e contro lo stato di diritto», spiega il deputato. Il libro nero del CPR di Torino è scaricabile dal sito asgi.it

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Fonte

Non candidate nessuno, fate prima

Il centrodestra, in vista delle prossime amministrative e regionali, sta faticando ad individuare i propri nomi. Ma una soluzione coraggiosa e definitiva ci sarebbe: lasciar perdere

Sommersi dalle incredibili notizie dell’incredibile governo dei migliori, stiamo lasciando passare sotto traccia la farsa del centrodestra che si avviluppa nelle candidature per le prossime elezioni amministrative e regionali. Un centrodestra che vorrebbe farsi federazione e non riesce nemmeno a decidere un candidato sindaco è la fotografia perfetta del momento storico: tutti insieme appassionatamente per spartirsi i soldi del Pnrr e poi che palle la politica, che palle che gli tocca perfino fare politica.

Si decide di non decidere scivolando su questa idea del “ticket” che è solo l’ennesima trovata pubblicitaria che non significa niente: a Roma c’è il “ticket” Michetti-Matone e sarebbe curioso sapere cosa accadrebbe se uno non fosse d’accordo con l’idea dell’altro. Non succederebbe niente di più del solito odio sotto traccia come accade in questo momento tra Salvini e Meloni che in superficie si trasforma in una vuota e affettata cortesia.

Idea ticket ovviamente anche in Calabria, dove a correre saranno Occhiuto a braccetto con Spirlì. Il presidente della Calabria pro tempore che ha sostituito Jole Santelli in un Paese normale sarebbe dimenticato o usato al massimo per qualche vignetta sui social invece la classe dirigente leghista è talmente infima che si ritrova costretta a riciclarlo. Incredibile.

A Milano si parla di Oscar di Montigny, il genero di Ennio Doris di Banca Mediolanum, che si definisce «esperto di Mega trends e Grandi Scenari, Innovative Marketing, Comunicazione Relazionale e Corporate Education» e che, come ha raccontato in un pezzo gustosissimo Gianni Barbacetto sul Fatto quotidiano scrive cose come «lo spirito, ritornando su se stesso, prende coscienza delle sue operazioni e dei suoi caratteri» oppure dello specchio che «in quanto strumento neutro, oggettivo, privo di giudizio, rimanda sempre l’immagine vera, reale, del soggetto che in esso si specchia». E non vuoi metterci un bel ticket? Pronti: l’ex sindaco Albertini. Giorgia Meloni si lamenta: «Chi lo conosce questo di Montigny?» e chissà chi a Roma conosce Michetti, verrebbe da risponderle.

“I candidati devono essere civici”, ripete Salvini. Del resto i civici, si sa, sono il cerotto perfetto per non dover dimostrare di avere una classe dirigente decente. A Bologna un capolavoro: il “civico” dovrebbe essere Andrea Cangini, che tre anni fa è stato eletto senatore. Un senatore a sua insaputa, evidentemente come va di moda da quelle parti.

Il 9 giugno Matteo Salvini prometteva “in due giorni decideremo tutti i 1.300 nomi dei candidati sindaci”. Oggi è il 18 giugno, fate voi.

In compenso ci sarebbe una soluzione coraggiosa e definitiva: non candidate nessuno. Rimanete lì in disparte, pronti a raccogliere qualsiasi notizia di cronaca nera preferibilmente farcita di stranieri, schierate le truppe a cercare il degrado e per i prossimi cinque anni potete riempire i social dicendo che quelli che governano sono una vergogna. Se qualcuno vi dice qualcosa potete rispondere che siete talmente sovranisti che vi candiderete solo quando non avrete il disturbo di dover governare anche gli elettori degli altri.

Buon venerdì.

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Se Poste Italiane si impossessa del titolo di prima del più importante quotidiano finanziario italiano

La fotografia dello stato del giornalismo è la prima pagina di alcuni quotidiani in edicola oggi, venerdì 11 giugno 2021. Niente di nuovo e niente di strano, per carità, la pubblicità si sa che è l’anima del commercio e se le Poste hanno deciso di inondare le prime pagine dei quotidiani per la loro campagna sicuramente qualcuno si sarà leccato i baffi. Vuoi mettere avere pubblicità in un momento come questo. Però qualcuno potrebbe pensare che sia di cattivo gusto decidere di brandizzare proprio la prima pagina, quella che – esposta in edicola – dovrebbe subito, alla prima occhiata, raccontare la propria linea editoriale.

La prima pagina di un quotidiano, in fondo, è la visione che quel quotidiano ha del contemporaneo e del mondo. Lì dentro c’è la gerarchia delle notizie che racconta le priorità. Volendo vedere ci potrebbe anche essere (merce rara di questi tempi) qualche bella inchiesta strillata.

Niente. Stamattina i lettori quotidiani si sono omogenizzati in un pastone unico, giornali di destra e di sinistra per la prima volta sotto lo stesso tetto: pubblicità, calcio e un po’ di retorica della ripartenza.

“L’amore per l’Italia non conosce distanza”, recita il puccioso messaggio che ricopre i quotidiani. E a nessuno viene in mente che il confine tra indipendenza del giornalismo (e l’enorme ruolo che il giornalismo ricopre in una sana democrazia) e mercato questa mattina sia un po’ debole?

Dov’è il confine tra sussistenza economica e mercificazione? Per capirsi: abbiamo assistito, nel mondo del calcio, a moti di ribellione per il nome degli stadi svenduto allo sponsor, ma non è lo stesso per la testata del quotidiano che leggete normalmente?

Quelli si difenderanno, c’è da scommetterci, dicendo che non si tratta della “prima” ma è solo una “copertina”. In sostanza, per una volta, non è il giornale che serve per incartare ma è lui stesso a finire incartato. E incartato è proprio l’aggettivo giusto oggi, risuona bene perché sa di inceppamento, di un incaglio che è quasi un inchino.

Sia chiaro, ci sono cose ben più importanti di cui occuparsi e di cui scrivere, siamo tutti d’accordo. Sono le stesse notizie importanti che rimangono dietro allo spottone delle Poste. Siamo a posto così.

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La festa alle mamme

Un altro giorno da reality show è passato. Con i politici che festeggiano la mamma senza proporre soluzioni per sostenere le donne madri. Che nel 2020 in tante hanno perso il lavoro o vi hanno rinunciato per seguire i figli. Anche perché mancano gli asili nido

In questo tempo in cui tutti i giorni i politici non possono permettersi di dimenticare di onorare le feste ieri si è assistito a un profluvio di auguri dei leader (e pure di quelli meno leader) alle loro mamme e a tutte le mamme d’Italia (i patriottici) e a tutte le mamme del mondo (i globalisti). Ci siamo abituati, senza nemmeno farci più troppo caso, ad aspettarci dai politici gli stessi input di un influencer, mettiamo il mi piace alla sua foto con la mamma e ci scaldiamo per un augurio pescato su qualche sito di aforismi.

Le mamme, dunque. Su 249mila donne che nel corso del 2020 hanno perso il lavoro, ben 96 mila sono mamme con figli minori. Tra di loro, 4 su 5 hanno figli con meno di cinque anni: sono quelle mamme che a causa della necessità di seguire i bambini più piccoli hanno dovuto rinunciare al lavoro o ne sono state espulse. D’altronde la quasi totalità – 90mila su 96mila – erano già occupate part-time prima della pandemia. È questo il quadro che emerge dal 6° Rapporto Le Equilibriste: la maternità in Italia 2021, diffuso in occasione della Festa della mamma da Save the Children. Uno studio sulle mamme in Italia che, oltre a sottolineare le difficoltà affrontate fa emergere ancora una volta il gap tra Nord e Sud del Paese.

Già prima della pandemia la scelta della genitorialità, soprattutto per le donne, è spesso interconnessa alla carriera lavorativa. Stando ai dati, nel solo 2019 le dimissioni o risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro di lavoratori padri e lavoratrici madri hanno riguardato 51.558 persone, ma oltre 7 provvedimenti su 10 (37.611, il 72,9%) riguardavano lavoratrici madri e nella maggior parte dei casi la motivazione alla base di questa scelta era la difficoltà di conciliare l’occupazione lavorativa con le esigenze della prole.

Lo «shock organizzativo familiare» causato dal lockdown, secondo le stime, avrebbe travolto un totale di circa 2,9 milioni di nuclei con figli minori di 15 anni in cui entrambi i genitori (2 milioni 460 mila) o l’unico presente (440 mila) erano occupati. Lo «stress da conciliazione», in particolare, è stato massimo tra i genitori che non hanno potuto lavorare da casa, né fruire dei servizi (formali o informali) per la cura dei figli: si tratta di 853mila nuclei con figli 0-14enni, nello specifico 583mila coppie e 270mila monogenitori, questi ultimi in gran parte (l’84,8%) donne.

Il problema è urgente: nonostante gli asili nido, dal 2017, siano entrati a pieno titolo nel sistema di istruzione, ancora oggi questa rete educativa è molto fragile e, in alcune regioni, quasi inesistente. Una misura necessaria a dare ai bambini maggiori opportunità educative sin dalla primissima infanzia, che contribuirebbe a colmare i rischi di povertà educativa per le famiglie più fragili, ma anche a riportare le donne e in particolare le madri nel mondo del lavoro. La Commissione europea ha indicato come obiettivo minimo entro il 2030 per ciascun Paese membro di almeno dimezzare il divario di genere a livello occupazionale rispetto al 2019 ma per l’Italia, numeri alla mano, la missione sembra praticamente impossibile.

In un Paese normale nel giorno della Festa della mamma i politici non festeggiano la mamma ma illustrano le proposte. La politica funziona così: c’è un tema e si propongono soluzioni. Il dibattito politico ieri era polarizzato sui disperati che sono sbarcati (vedrete, ora si ricomincia) e su una libraia (una!) che ha liberamente scelto di non vendere il libro di Giorgia Meloni (censura! censura! gridano tutti).

E intanto un altro giorno da reality show è passato.

Buon lunedì.

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La vigliaccheria fiscale

Aumento dei ricavi per Amazon Europa che nel 2020 è arrivata a 44 miliardi di euro. Ma zero tasse. Si diceva che dalla pandemia sarebbe uscito un “nuovo mondo”… Ecco, per ora è esattamente come prima, con i ricchi sempre più ricchi. E una questione enorme politica che passa sottovoce

Complice la pandemia che è stata tutt’altro che una livella per sofferenza dei diversi lavoratori e per danni alle diverse aziende la ricchissima Amazon del ricchissimo Bezos è diventata ancora più ricca aumentando di 12 miliardi i ricavi rispetto all’anno precedente in Europa e arrivando a un totale di 44 miliardi di euro.

Poiché i numeri sono importanti vale la pena ricordare che sono 221 miliardi circa tutti i soldi che l’Italia ha a disposizione dall’Europa per risollevarsi. Giusto per fare un po’ di proporzioni. L’ultimo bilancio della divisione europea di Amazon (lo trovate qui) racconta della società con sede legale in quel meraviglioso paradiso per ricchi che è il Lussemburgo gestisce le vendite delle filiali di Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Polonia, Svezia. Ovviamente le tasse si pagano sui profitti, non certo sui ricavi, eppure le acrobazie fiscali di Amazon hanno permesso di risultare in perdita per 1,2 miliardi di euro nonostante un aumento del ricavo del 30%. «I nostri profitti sono rimasti bassi a causa dei massicci investimenti e del fatto che il nostro è un settore altamente competitivo e con margini ridotti», ha spiegato un dirigente di Amazon. Insomma, poveretti, lavorano per perderci. E infatti hanno accumulato 56 milioni di euro di credito d’imposta che potranno usare nei prossimi anni e che portano a 2,7 miliardi di euro il credito totale.

È incredibile che un’azienda che vale in Borsa quanto il prodotto interno lordo dell’Italia non riesca proprio a fare profitto o forse semplicemente i profitti vengono spostati altrove, complice la vigliaccheria fiscale di un’Europa che è sempre forte con i deboli ma è sempre piuttosto debole con i forti, come sempre. Attraverso compravendite fittizie infragruppo tra filiali dei diversi Paesi i guadagni vengono spostati da dove si realizzano a dove più conviene e le contromisure del Lussemburgo contro queste pratiche sono volutamente morbide.

In una nota la commissione Ue commenta: «Abbiamo visto quanto apparso sulla stampa, non entriamo nei dettagli, in linea generale la Commissione ha adottato un’agenda molto ambiziosa in materia di fiscalità e contro le frodi fiscali, nelle prossime settimane pubblicheremo una comunicazione e sul piano globale siamo impegnati con i partner internazionali nella discussione in corso» sull’equa tassazione delle imprese. Si tratta del negoziato per definire un’imposta minima globale per evitare la concorrenza fiscale al ribasso. Quanto agli aspetti di concorrenza, del caso Amazon/Lussemburgo il dossier resta in mano alla Corte di Giustizia Ue: il gruppo Usa e il Granducato hanno contestato la decisione comunitaria che nel 2017 concluse che il Lussemburgo aveva concesso ad Amazon vantaggi fiscali indebiti per circa 250 milioni di euro, un trattamento considerato illegale «ha permesso ad Amazon di versare molte meno imposte di altre imprese». Peccato che contro la decisione europea abbia ricorso Amazon (e questo ci sta) e perfino il Lussemburgo.

Sono numeri spaventosi che raccontano perfettamente come la guerra tra poveri e tra disperati non riesca mai a guardare in alto dove si consumano le ingiustizie peggiori. Vi ricordate quando si diceva che dalla pandemia sarebbe uscito un “nuovo mondo”? Ecco, per ora è esattamente come prima, con i ricchi sempre più ricchi. E invece una questione politica enorme passa sottovoce mentre i nostri leader stanno litigando sul bacio a Biancaneve.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Caro Conte, anche tu hai tenuto i porti chiusi

La Mezzaluna Rossa libica (l’equivalente più o meno della nostra Croce Rossa) ieri ha annunciato altri 50 morti in un naufragio al largo della Libia. Poco prima l’Oim, l’agenzia dell’Onu per le migrazioni, aveva riferito della morte di almeno 11 persone dopo che il gommone su cui viaggiavano era affondato. La Guardia Costiera libica come al solito dice di non esserne informata. Una cosa è certa: nel Mediterraneo si continua a morire ma la vicenda non sfiora la politica nazionale, merita qualche contrita pietà passeggera e poi scivola via.

L’importante, in fondo, è solo mantenere ognuno la propria narrazione: ci sono i “porti chiusi” di Salvini che rivendica di averlo fatto ma poi in tribunale frigna chiamando in causa anche i suoi ex compagni di governo, c’è il “blocco navale” evocato da Giorgia Meloni, c’è il PD che finge di avere dimenticato di essere il partito che con Minniti ha innescato l’onda narrativa e giuridica che ci ha portati fin qui e c’è il Movimento 5 Stelle che si barcamena tra una posizione e l’altra.

A proposito di M5S: il (prossimo) leader Conte è riuscito a dire in scioltezza “con me porti mai chiusi” provando a cancellare con un colpo di spugna quel suo sorriso tronfio mentre si faceva fotografare al fianco di Salvini con tanto di foglietto in mano per celebrare l’hashtag #decretosalvini e la dicitura “sicurezza e immigrazione”.

Conte che sembra avere improvvisamente dimenticato le sue stesse parole su Sea Watch e sulla comandante Carola Rackete: “è stato – disse Conte – un ricatto politico sulla pelle di 40 persone”. Insomma, non proprio le parole di chi vuole prendere le distanze dalla politica di Salvini.

Oltre le parole ci sono i fatti: l’ultimo atto del Parlamento prima della caduta del primo governo Conte nell’agosto 2019 è stato il “decreto sicurezza bis” che stringeva ancora più i lacci dell’immigrazione. Sempre ad agosto 2019, 159 migranti sulla nave Open Arms sono stati 19 giorni in mare senza la possibilità di attraccare nei porti italiani.

Insomma: partendo dal presupposto che i porti non si possano “chiudere” per il diritto internazionale è vero che Conte a braccetto con Salvini ha sposato l’idea dei “porti chiusi” nel senso più largo e più politico. Ed è pur vero che nessun governo, compreso questo, sembra avere nessun’altra idea politica che non sia quella di galleggiare tra dittature usate come rubinetto per frenare le migrazioni in un’Europa che galleggia appaltando i propri confini. Gli unici che non galleggiano sono i morti nel Mediterraneo.

Leggi anche: I poveri sono falliti e i ricchi sono radical chic: così Salvini non risponde mai nel merito a chi lo critica

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