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Regeni, il processo si incaglia per volere di Al Sisi e il governo italiano si dichiara parte civile: ci fate così ingenui?

Il processo per la morte di Giulio Regeni dunque si incaglia sull’ennesimo intoppo. La verità del resto è un bene raro e prezioso, per questo qualcuno vorrebbe risparmiarla. Dopo il rapimento di Giulio, dopo la tortura, dopo la morte con indicibili sofferenze (come scrive la Procura di Roma), dopo la protervia di Al Sisi che dice di non “accettare lezioni dall’Europa sui diritti umani”, dopo i depistaggi di Stato ora è tutto da rifare.

La terza sezione della corte dAssise di Roma ha deciso che gli atti devono tornare al giudice per ludienza preliminare perché non ci sarebbe la prova che i quattro imputati (gli 007 egiziani Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, tutti accusati di sequestro di persona e l’ultimo anche per omicidio) siano a conoscenza del processo aperto in Italia a loro carico.

Nel dispositivo della sentenza si legge: Lacclarata inerzia dello Stato egiziano a fronte di tali richieste del ministero della Giustizia italiano, certamente pervenute presso lomologa autorità egiziana, seguite da reiterati solleciti per via giudiziaria e diplomatica nonché da appelli di risonanza internazionale, effettuato dalle massime autorità dello Stato italiano, ha determinato limpossibilità di notificare agli imputati, presso un indirizzo determinato, tutti gli atti del procedimento a partire dallavviso di conclusione delle indagini. Gli imputati, dunque, non sono stati raggiunti da alcun atto ufficiale. I giudici sottolineano che le richieste inoltrate tramite rogatoria allautorità giudiziaria egiziana contenenti linvito a fornire indicazioni sulle compiute generalità anagrafiche e sugli attuali residenza o domicilio utili per acquisire formale elezione di domicilio ai fini della notificazione degli atti del procedimento instaurato a loro carico non hanno avuto alcun esito”. Bisogna quindi ripartire dall’udienza preliminare.

«Riteniamo importante che il governo italiano abbia deciso di costituirsi parte civile. Prendiamo atto con amarezza della decisione della Corte che premia la prepotenza egiziana. È una battuta di arresto, ma non ci arrendiamo. Pretendiamo dalla nostra giustizia che chi ha torturato e ucciso Giulio non resti impunito. Chiedo a tutti voi di rendere noti i nomi dei 4 imputati e ribaditelo, così che non possano dire che non sapevano», ha commentato lavvocato Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni, lasciando laula bunker di Rebibbia al termine delludienza.

La nuova udienza del gup, infatti sarà fissata entro gennaio 2022. In quella sede il giudice dovrà intraprendere tutte le strade possibili che il tribunale potrà intraprendere, a cominciare da una nuova rogatoria in Egitto, per rendere effettiva e non solo presunta la conoscenza agli imputati del procedimento a loro carico. Entro 20 giorni tutti gli atti del processo, circa 15 faldoni, torneranno all’attenzione del giudice Pierluigi Balestrieri che dovrà quindi fissare una nuova udienza.

La decisione di ieri rientra nel campo del Diritto e l’Italia (a differenza dell’Egitto) ha dimostrato di essere una democrazia utilizzando uno strumento di garanzia per gli imputati e per un Paese che invece non ha mai dimostrato in questa vicenda nessuna collaborazione e nessun rispetto delle leggi.

Ma la vicenda di Giulio Regeni, nonostante in molti fingano di non capirlo, è una vicenda politica, fortissimamente politica. L’Al Sisi che non rende noti alla Procura di Roma i domicili dei suoi uomini accusati di avere rapito, torturato e ucciso il giovane studente italiano è lo stesso Al Sisi che è ritenuto un “partner ineludibile” dai nostri rappresentanti di governo (a partire da Alfano quando era ministro fino ai giorni nostri). Appare piuttosto ipocrita stupirsi dell’arroganza del presidente egiziano fingendo di non sapere che il combustibile della sua prepotenza sia nei rapporti dorati che i nostri ministri intrattengono con lui pur di fare affari con gli armamenti.

A proposito di armi: nel 2008, il Consiglio europeo ha adottato una risoluzione che definisce le norme per il controllo dellexport di armamenti e dovrebbe essere vincolante per gli Stati membri: sono otto criteri impediscono lexport di armi verso paesi che le utilizzano per la repressione interna o in regioni dove possono contribuire all’instabilità, oltre agli Stati che violano i diritti umani e le convenzioni internazionali. In Italia tra l’altro ci sarebbe una legge nazionale (la legge 185 del 1990) che viene regolarmente calpestata oltre al Trattato Onu del 2013, che tutti i membri dellUe hanno ratificato, Italia inclusa. Pochi hanno fatto caso alle parole del ministro Guerini il 28 luglio dell’anno scorso quando con molto candore disse: «in seguito allomicidio di Regeni la Difesa, in completa sintonia e raccordo con le altre amministrazioni dello Stato, in primis con il ministero per gli Affari esteri e la cooperazione internazionale, ha prontamente diradato il complesso delle relazioni bilaterali con lomologo comparto egiziano».

Il ministro della Difesa, sempre bravo a fingersi trasparente, si è dimenticato che nel 2016, lanno della morte di Regeni, la Polizia italiana ha addestrato in diversi centri i poliziotti di al-Sisi oltre a spedire in Egitto un migliaio di computer e di apparecchi; che dal 13 al 16 novembre 2017, una delegazione del Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto ha fatto visita ufficiale per incontrare la Guardia costiera egiziana; che nel gennaio 2018 lItalia spediva in Egitto 4 elicotteri AugustaWestland già in uso alla Polizia di Stato e il ministero dellInterno cofinanziava al Cairo un progetto di formazione nel settore del controllo delle frontiere e della gestione dei flussi migratori”; che il Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto si è recato nuovamente in visita ad Alessandria dEgitto dal 25 al 27 giugno 2018 («LItalia reputa lEgitto un partner ineludibile nel Mediterraneo, affinché questarea raggiunga un assetto stabile, pacifico e libero dalla presenza terroristica», disse l’allora ministra Trenta); che il 13 agosto 2018 era la nuova fregata multimissione (Fremm) Carlo Margottini” della Marina militare a recarsi ad Alessandria dEgitto per svolgere con la Marina egiziana un breve ma intenso addestramento, che ha permesso al personale delle due fregate di misurarsi in un contesto multinazionale”; che il 22 novembre 2018 una delegazione della Forza aerea egiziana, accompagnata da rappresentanti del gruppo militare-industriale Leonardo S.p.a., si recava in visita al 61° Stormo e alla Scuola internazionale di volo con sede nellaeroporto di Galatina (Lecce); «Italia ed Egitto hanno completato nel 2019 un programma congiunto per lindividuazione degli effetti dellesposizione alle radiazioni in caso di unemergenza nucleare e delle contro-misure e dei trattamenti che possono essere predisposti», come rivela un recentissimo dossier dello Science for peace and security programme della Nato; che a Roma dal 25 al 27 maggio 2016 si è tenuto un meeting in ambito nucleare-chimico-batteriologico tra Italia e Egitto tenuto segreto e rivelato da un dossier della Nato. A questo aggiungete (Guerini sbadatamente se n’è dimenticato, accidenti) le due fregate Fremm, le navi militari costruite da Fincantieri, preparate in Italia per il governo egiziano per un affare di circa un miliardo di euro.

E allora sarebbe da chiedere chiaramente, guardandosi dritti negli occhi, ai ministri Guerini e Di Maio e al presidente Draghi: davvero credete che la costituzione in giudizio come parte civile della Presidenza del Consiglio basti per “lavare” una relazione che si incaglia su quattro indirizzi mentre stringe le mani insanguinate per miliardi di euro? Davvero credete che qui fuori si sia tutti così tremendamente ingenui, quasi cretini?

L’articolo proviene da TPI.it qui

Zaki a processo nel silenzio dell’Italia: dopo 2 anni in cella il nostro Paese se ne lava le mani

Sarà per questa fastidiosa sensazione di essere rassicurati con quel vuoto fare paternalistico che si usa con chi è considerato troppo molesto ma dietro la prima udienza avvenuta ieri a Mansura in Egitto che ha confermato la custodia cautelare del trentunenne studente dell’Università di Bologna Patrick Zaki rimbomba con insistenza una certa domanda: ma esattamente cosa ha fatto l’Italia per Patrick Zaki?

Partiamo dall’inizio: l’ergastolo cautelare di Patrick Zaki è iniziato nel febbraio del 2020 all’aeroporto del Cairo, quando lo studente decise di tornare in Egitto per prendersi una pausa dagli studi qui in Italia. Per mesi non si è saputo nulla nemmeno sui suoi capi d’imputazione. Il fatto che fosse rinchiuso nel carcere di Tora, lì dove il governo di Al-sisi rinchiude tutti i suoi più importanti oppositori politici, lasciava ovviamente intendere che l’accusa fosse di natura politica. Oggi sappiamo che è accusato per un articolo scritto nel 2019 sulla persecuzione dei cristiani copti in Egitto (che gli vale un’accusa per “diffusione, in patria e all’estero, di notizie false contro lo Stato egiziano”).

Tutto questo dopo 19 mesi di carcere (oltre il periodo massimo consentito dalla legge egiziana per reati di questo tipo), dopo accuse sempre piuttosto vaghe per alcuni post su Facebook di certi profili che si sono rivelati persino falsi e dopo un interrogatorio avvenuto quattro giorni fa per alcuni suoi scritti risalenti addirittura al 2013. È caduta, per ora, l’accusa di terrorismo per cui Zaki avrebbe rischiato una condanna fino a 25 anni di carcere. Allo stato attuale la pena massima potrebbe essere di 5 anni di reclusione ma certo non tranquillizza che lo studente sia processato davanti a un “tribunale d’emergenza per la sicurezza dello stato”, la cui procedura non prevede diritto d’appello.

In Italia, in mezzo a molti comunicati più o meno convinti (e più o meno convincenti) di solidarietà al ragazzo si registrano due mozioni nelle due camere approvate a maggioranza che chiedevano al governo di “avviare tempestivamente mediante le competenti istituzioni le necessarie verifiche” per l’eventuale concessione della cittadinanza italiana. Peccato che le mozioni non fossero vincolanti, che la risposta del sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, nello scorso luglio fosse piuttosto blanda («Dobbiamo dirci le cose in modo molto chiaro: alle valutazioni tecniche, ci sono anche valutazioni più ampie che devono tenere conto delle circostanze di contesto», – disse Di Stefano – la cittadinanza «può avere effetti negativi») e che il governo ha deciso sostanzialmente di ignorarle senza nemmeno concederci il lusso di ottenere una spiegazione chiara. Nell’elenco dei buoni propositi si registra anche l’ultima puntata di buoni propositi con il ministro Di Maio che durante un evento elettorale a Bologna (la città adottiva di Zaki) 5 giorni fa ci rassicurava dicendoci che il governo «continua a lavorare ogni giorno» con l’obiettivo di «portare in libertà Patrick Zaki e restituirgli tutti i suoi diritti». Anche in questo caso non ci è dato l’onore di sapere esattamente il “come”.

Di certo l’Italia con l’Egitto di Al-sisi continua a mantenere proficui rapporti economici e militari e di certo c’è che dal Cairo continua a rimbombare anche la morte senza verità e senza giustizia di un altro studente su cui si spendono quintali di parole da parte della politica: Giulio Regeni. Alla luce di tutto questo le rassicurazioni mielose infastidiscono e poco altro e si torna alla domanda iniziale. Esattamente cosa sta facendo l’Italia?

L’articolo Zaki a processo nel silenzio dell’Italia: dopo 2 anni in cella il nostro Paese se ne lava le mani proviene da Il Riformista.

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Il processo breve (secondo Salvini)

L’assessore leghista alla Sicurezza di Voghera ha sparato a un uomo di origini marocchine e lo ha ucciso. Salvini parla subito di legittima difesa, punta sul fatto che il presunto aggressore fosse straniero e riesce a rivittimizzare la vittima descrivendolo come un violento…

Volete spiare dal buco della serratura che Paese sarebbe questo con Salvini al governo? Eccolo qua: l’assessore leghista Massimo Adriatici che a Voghera ha la delega alla “sicurezza” ieri ha sparato e ucciso Youns El Boussetaoui, un 39enne marocchino. La nazionalità ci tocca metterla perché quando si tratta di leghisti purtroppo ci tocca sempre insozzarci del loro mondo diviso tra italiani e stranieri. Me ne scuso subito con i lettori.

«Stavo passeggiando in piazza Meardi quando ho notato quell’uomo infastidire i clienti di un bar», ha dichiarato Adriatici, ex funzionario di polizia, parlando al magistrato. «Mi sono avvicinato, l’ho redarguito invitandolo ad andarsene e a quel punto ho chiamato la polizia – ha aggiunto – Sentendo la mia telefonata, mi ha spinto facendomi cadere. È stato a quel punto che dalla pistola già impugnata è partito il colpo».

I fatti finora accertati dicono che l’uomo ucciso fosse probabilmente alterato dall’alcol e che sia stato colpito in pieno petto.

«Lo chiamavamo sceriffo per l’atteggiamento, che non era quello di un assessore. Il primo atto che ha fatto in comune è stato il Daspo a una persona che chiedeva l’elemosina», ha detto ieri il coordinatore del partito La buona destra di Voghera, Giampiero Santamaria. Tra le voci raccolte in paese c’è chi descrive la vittima come “non certo un delinquente, non era pericoloso. Era seguito dai servizi sociali e dalla Caritas”, “una persona problematica, non un aggressore. Era più da manicomio”. Poi c’è anche chi racconta che l’assessore leghista fosse abituato “a scendere per strada con la pistola”.

Ora arriva lo schifo vero. Matteo Salvini riesce a superarsi pubblicando un video in cui descrive Adriatici come la «vittima di una aggressione» che «ha risposto e accidentalmente è partito un colpo». Punta sul fatto che il presunto aggressore fosse straniero e riesce a rivittimizzare la vittima descrivendolo come un violento. Sul suo assessore invece dice che bisogna aspettare. Capito? Lo straniero è sicuramente colpevole perché “lo dicono gli abitanti di Voghera” mentre il suo assessore è un povero aggredito. Ma il vero capolavoro è la legittima difesa avvenuta con un colpo accidentale: un ragionamento talmente stupido che tremano le dita anche solo a riportarlo. Del resto, dai, diciamocelo, chi di noi non va al bar con in tasca una pistola con un colpo in canna e senza sicura che cadendo fa partire un colpo? È sempre la schifosa legittima difesa di Salvini: se sei bianco (meglio ancora settentrionale) e di fronte hai un disperato (meglio ancora straniero) hai sempre ragione. L’idea di giustizia è questa cosa qui. Sotto sotto c’è il messaggio che Salvini non dice ma che molti leghisti mettono nei commenti: “Il mio assessore è un figo e quell’altro è solo un marocchino in meno”. Un razzismo incondizionato che sta dietro a qualsiasi tentativo di ragionamento.

Eppure dovrebbe fare schifo anche solo un uomo delle istituzioni che spara durante una lite. Ma anche questo è esattamente il pensiero leghista: libera arma in libero Stato con libera impunità per il più forte. Ora chiudete gli occhi e immaginate il video di Salvini se a sparare “accidentalmente” fosse stato il marocchino: ecco spiegato tutto. Se volete provare ancora più nausea potete rileggervi le parole dell’eurodeputato leghista Angelo Ciocca: «Se non fosse stato per un assessore leghista, intervenuto a difesa di una donna molestata, ora staremmo parlando di violenza su una donna innocente. La morte è sempre da scongiurare, ma la dinamica è di #legittimadifesa».

Rimangono in sospeso alcune domande: come possono Pd e Leu continuare a restare al governo con uno così? Come può uno storico partito come i Radicali promuovere una raccolta firme per un referendum sulla giustizia con uno così?

Ieri avete assistito al “processo breve” secondo Salvini: “se è uno dei nostri è sicuramente innocente e ha fatto bene”.

Buon giovedì.

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L’operaio “fantasma” morto in un cantiere in Val Cavragna: 3 anni dopo in cinque a processo


La storia di Zyber Curri, operaio kosovaro di 48 anni morto in un cantiere di una centrale idroelettrica in Val Cavragna nel dicembre 2018. Per anni è stato un “fantasma”: era assunto per un’azienda che non figurava nell’appalto e non si capiva cosa ci facesse nel cantiere. A tre anni di distanza sono però cinque gli imputati al processo per la sua morte.
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Perché il processo a Mimmo Lucano è “politico”

L’inchiesta non é riuscita a dimostrare che Lucano si sia appropriato di un singolo centesimo con l’accoglienza dei migranti. Dunque la Procura di Locri ha estratto dal cilindro l’inconsistente ipotesi del movente politico-elettorale

Alla fine arriverà la sentenza e da lì potremo provare a trarre alcune conclusioni ma il processo “Xenia” a Mimmo Lucano sulla gestione dei progetti di accoglienza dei migranti a Riace presenta alcune singolarità che vale la pena raccontare, almeno per diradare la nebbia che certi giornali stanno spostando in giro, trasformando come al solito le richieste di condanna dei pm in una sentenza, basandosi su un’ignoranza giudiziaria che torna comoda a chi fomenta la politica con il tintinnare di manette.

Primo aspetto curioso, fuori dal tribunale di Locri: i sempiterni garantisti su Lucano appaiono piuttosto timidi, svelandosi ancora una volta garantisti a fase alterne, garantisti con gli amici e indifferenti (se non addirittura giustizialisti) con i nemici, tanto per rimarcare ancora una volta quanti danni al garantismo abbia fatto la collusione travestita da garantismo.

Il procuratore Luigi D’Alessio (che ha aperto con il pm Michele Permunian la requisitoria con cui la Procura di Locri ha richiesto 7 anni e 11 mesi di carcere per l’ex sindaco di Riace e 4 anni e 4 mesi alla sua compagna Lemlem Tesfahun) ci ha tenuto a spiegarci che questo non è un processo politico: «Nel corso di questi anni – ha detto intervenendo in aula – si sono succeduti ben quattro governi. Personalmente ho anche incontrato i massimi rappresentanti di questi governi, da Renzi a Salvini, ma mai è venuta alcuna pressione sulle indagini». Fingiamo di non essere interessati ai contenuti degli incontri del pm con Renzi e Salvini e vediamo invece quale sarebbe secondo la procura il movente di questi terribili reati. I soldi? No, evidentemente no. Inchiesta e processo non sono riusciti nemmeno lontanamente a dimostrare che Lucano si sia appropriato di un singolo centesimo.

E allora? In netta difficoltà la Procura ha estratto dal cilindro l’ipotesi del movente politico-elettorale. Già nell’ottobre 2019 il colonnello Sportelli, in mancanza di soldi, aveva fatto intendere che l’idea di Lucano fosse quella di candidarsi alle elezioni politiche del 2018 (come se candidarsi da liberi cittadini poi fosse un reato) e quindi non perdere voti. Sentito in aula il colonnello elencò i terribili poteri forti dietro a Lucano: i voti dei Tornese (una famiglia di Riace), dell’associazione Riace Accoglie e della cooperativa sociale Girasole. In effetti se ci pensate tutti voti indispensabili per arrivare in Parlamento. Ma quale sarebbe la “prova”? Una telefonata di Lucano a suo fratello in cui tra le altre cose dice «quasi quasi mi candido». Capito che diabolico disegno? Ma c’è un altro punto sostanziale: Lucano ha rifiutato candidature alle elezioni europee e alle elezioni politiche e poiché non si possono processare le intenzioni il disegno della Procura è miseramente caduto. E quindi? Lo scorso aprile il pubblico ministero Michele Permunian ha un’illuminazione quando legge un’intervista in cui Lucano annuncia la sua candidatura nella lista di De Magistris per le prossime elezioni regionali in Calabria: «L’annunciata candidatura alle regionali di Mimmo Lucano nella lista di Luigi De Magistris confermerebbe le sue reali ambizioni politiche», dice l’accusa. In pratica la candidatura di oggi dovrebbe dimostrare la bontà delle intercettazioni di anno fa che non hanno retto alla prova dibattimentale. Una tesi che sembra un delirio: non si processano gli atti contestualizzati e circoscritti ma si processa la personalità dell’imputato e, di rimbalzo, la sua visione politica.

C’è un altro pezzo che molti giornali si sono dimenticati di raccontare: Lucano è sotto processo pure per abuso d’ufficio, truffa, falsità ideologica, turbativa d’asta, peculato e malversazione a danno dello Stato, tutti reati per i quali il gip Domenico Di Croce, nell’ottobre 2018, aveva rigettato la richiesta di arresto della Procura sottolineando «la vaghezza e la genericità del capo d’imputazione». Nell’aprile 2019 la Cassazione aveva ripreso la Procura anche sui “presunti matrimoni di comodo” tra immigrati e cittadini italiani che sarebbero stati “favoriti” dal sindaco. Nel fascicolo del processo, aprite bene le orecchie, non c’è un solo matrimonio celebrato a Riace. Ce n’è uno bloccato proprio da Lucano. L’accusa «poggia sulle incerte basi di un quadro di riferimento fattuale non solo sfornito di significativi e precisi elementi ma, addirittura, escluso da qualsiasi contestazione formalmente elevata in sede cautelare», scrive la Cassazione. Il Riesame di Reggio Calabria, da canto suo, scrisse di «quadro indiziario inconsistente» e «un’assenza di riscontri alle conclusioni formulate dall’ufficio di Procura, fondate su elementi congetturali o presuntivi».

Un altro punto: il giudice Fulvio Accurso durante il processo ha chiesto più volte agli investigatori se ci fosse indizi del fatto che l’accoglienza a Riace fosse portata avanti «per lo specifico fine di avvantaggiare sé stesso», cioè di Lucano. La risposta degli investigatori è netta: «Se parliamo da un punto di vista economico, no»·

Ecco, vedete che raccontato così ha tutto un altro aspetto questo processo? Attendiamo la sentenza.

Buon mercoledì.

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Niente padri e madri della vittima?

Nel gran rito collettivo della difesa del leader da due giorni si sta consumando un’inaspettata empatia per l’accusato nonostante da anni in molti abbiano provato a convincerci che fosse una postura immorale, sospettosa, perfino colpevole. Solo che questa volta il “padre” con cui solidarizzare è il simbolo di un partito politico e quindi molti si sentono in dovere di farlo. Quando si dice “politicizzare” le vicende giudiziarie si intende proprio questo: qualcuno con un grande seguito che usa vicende penali (che dovrebbero essere personali) come paradigma di un clima politico. È la stessa cosa di Berlusconi che si dichiara perseguitato per via giudiziaria dai suoi avversari politici, è lo stesso di Salvini che ci vorrebbe convincere che la “sinistra” lo manda a processo. Uguale uguale. Pensateci.

Poi ci sono i soliti ingredienti che intossicano tutte le volte le presunte vittime di stupro: un uomo potente (e con il potere di parlare a molti) che urlaccia e vittimizza la presunta vittima un’altra volta. Incredibile la discussione sulle ore che servono a denunciare uno stupro: una bassezza da fallocrati davanti allo spritz che viene rivenduta ancora una volta su tutti i media nazionali. Beppe Grillo è riuscito a condensare in pochi minuti tutta la cultura dello stupro: un giudizio personale che vorrebbe valere come Cassazione, una discussione spostata sulle presunte colpe della presunta vittima e noi dei presunti colpevoli e perfino quel “lo dico da padre” che ci ha fatto incazzare per mesi quando pronunciato da Salvini.

Non solo. Grillo ha pubblicamente dato della bugiarda alla vittima. Come scrive giustamente Giulia Blasi per Valigia Blu: «Ogni volta che ci domandiamo come mai in Italia sia così difficile parlare di abusi sessuali, ricordiamoci questo: che il capo di un partito politico può tentare di immischiarsi nel procedimento giudiziario a carico di suo figlio e aggredire verbalmente la donna che lo accusa, senza che ci siano conseguenze immediate, che il partito stesso se ne dissoci e lo costringa a farsi da parte (“dimettersi” sarebbe impossibile, data la natura liquida del ruolo di Grillo, che rimane tecnicamente un privato cittadino). La vita, la sicurezza e l’integrità fisica delle donne contano così poco, di fronte alla necessità di mantenere il quieto vivere».

Tutti pronti a mettersi nei panni del padre e della madre del presunto colpevole e nessuno in quelli della presunta vittima. Annusate l’aria che c’è in giro in questi giorni e avrete la dimostrazione plastica del perché per una donna sia così difficile denunciare.

È stato un gesto sconclusionato e pessimo e al Movimento 5 stelle conviene dirlo forte e chiaro per non essere invischiato. A meno che non si voglia votare in Parlamento che quella fosse la figlia di Mubarak, visto che ci sarebbero perfino i numeri per farlo.

Buon mercoledì.

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Sono già in campagna elettorale

Il governo dei migliori incassa le bordate di alcuni scienziati, dice il professor Galli che «Draghi non ne ha azzeccata una sul virus» e dice Andrea Crisanti che «purtroppo l’Italia è ostaggio di interessi politici di breve termine, che pur di allentare le misure finiranno per rimandare la ripresa economica» definendo le riaperture una «stupidaggine epocale» ma su queste questioni ci si accorge di chi aveva ragione sempre dopo. E quindi tra qualche mese qualcuno potrà dire “l’avevo detto”.

Intanto però la maggioranza freme perché la politica, l’abbiamo ripetuto più volte anche qui, è una continua ricerca di consenso, più della responsabilità di governo e così Matteo Salvini (dopo essersi intestato il merito delle progressive aperture) ora spinge ancora di più sull’acceleratore chiedendo ancora di più. È normale, il suo elettorato gli chiede questo, per esistere lui deve fare questo: spingere, spingere, spingere e non dare il tempo di ragionare. Così ora la richiesta è di aprire anche i locali al chiuso e di togliere il coprifuoco. Sia chiaro: la discussione è legittima ma non chiedete a Salvini di dare delle indicazioni in base ai dati in nostro possesso. Il suo ragionamento non esiste e quindi la giustificazione è sempre quella del “buonsenso”. A ruota, ovviamente, ci sono i renziani che chiedono di riaprire le palestre (anche al chiuso) e gli impianti sportivi prima del termine di giugno fissato dal governo. È una guerra ad accalappiarsi ognuno il proprio settore. Avanti così.

Salvini intanto riesuma Berlusconi per parlarci del suo rinvio a giudizio sulla vicenda Open Arms: «Silvio ha dovuto affrontare 80 processi, io per ora solo 5-6 … Ma è evidente che la sinistra vuole vincere in tribunale le elezioni che perde nelle urne. In nessun Paese al mondo si mandano un processo gli avversari politici». Intanto ne approfitta per leccare un po’ anche Eni e Finmeccanica: «In Italia – dice – si fanno tante inchieste che poi finiscono nel nulla. Come quelle che hanno riguardato grandi società come Eni e Finmeccanica. Difendere gli interessi dell’Italia significa anche difendere le aziende italiane». Per lui difendere le aziende italiane significa non indagare. Chiaro, no?

Poi ha un’illuminazione: una commissione d’inchiesta sulla pandemia (che in effetti potrebbe fare luce su molte responsabilità che meritano di essere indagate) ma anche qui riesce a buttarla in caciara sparando sulle «responsabilità del ministro Speranza», come al solito trasformando tutto in guerriglia ad personam, la stessa di cui si lamenta. E a chi pensa per trovare i voti di un’operazione del genere? Lo dice lui stesso: il centrodestra e Italia Viva di Renzi. E intanto getta l’amo.

Vi ricordate quando si diceva che Draghi li avrebbe tenuti tutti in riga? La riga si è già spezzata e vedrete che basterà che si abbassino i numeri drammatici del contagio perché inizi subito la campagna elettorale. In testa, ovviamente, i due Mattei che stanno già muovendo le code sotto traccia.

Buon lunedì.

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Prima ha depredato la Sanità lombarda, ora gli restituiscono anche il vitalizio

Il più grave danno al garantismo, quello che dovrebbe essere assicurato in uno Stato di diritto e che è sancito chiaro chiaro nella nostra Costituzione, è proprio il garantismo quando diventa peloso, quando serve per condonare i potenti e soprattutto quando viene utilizzato non come metodo universale ma solo per alcune categorie.

Il fatto che Roberto Formigoni stia pagando i suoi debiti con la giustizia è la normale conseguenza di un giusto processo che ha stabilito delle responsabilità penali. Il fatto che si pretenda l’oblio per un danno erariale di 47,5 milioni di euro di soldi pubblici per il caso Maugeri in Lombardia e che ci si aspetti che nessuno si permetta più di scrivere che la sua rete di amicizie e il suo “mercimonio della propria funzione” (lo scrive la sentenza di Cassazione) abbiano devastato la Sanità lombarda pare, invece, davvero un po’ troppo.

E allora la vicenda del suo vitalizio da 7mila euro al mese che il “Governo dei migliori” gli sta apparecchiando forse assume una prospettiva nettamente diversa: è etico che una persona condannata per reati gravissimi (che ne hanno comportato anche l’esclusione politica e che sono diventati sentenza definitiva) possa godere degli stessi benefici di chi ha svolto con moralità il proprio ruolo?

È normale e accettabile che esistano ruoli e cariche che beneficino di trattamenti diversi rispetto ai normali lavoratori? Conoscete qualcuno che, dopo essere incappato in una grave condanna che certifichi un suo danneggiamento verso l’azienda per cui lavorava, possa godere comunque di una pensione e un vitalizio?

La delibera Grasso-Boldrini fu approvata nel 2015 in Parlamento non per “punizione” ma per garantire uguaglianza tra i parlamentari e i “normali” lavoratori: qui il punto non è il garantismo ma decidere se abbia un senso che gli italiani continuino a mantenere una persona che li ha danneggiati.

E non c’è solo Formigoni: il ricorso dell’ex presidente di Regione Lombardia sblocca la situazione di Silvio Berlusconi, di Ottaviano Del Turco e perfino di Marcello Dell’Utri.

Infine, sorge un dubbio: ma Salvini e Meloni – quelli che “butterebbero le chiavi” quando si tratta di punire (per loro: vendicarsi) un povero disgraziato che commette un reato (seppur odioso) – non hanno niente da dire con i criminali grossi e potenti quando sono loro amici?

Tintinnano le manette per i ladri di polli e poi si diventa garantisti per i colletti bianchi condannati in via definitiva? Lo chiamano garantismo e invece è solo “essere amici degli amici”.

Leggi anche: Salvini contro i vaccini ai detenuti in Campania e Lazio, ma dimentica che va così anche nelle Regioni leghiste (di Giulio Cavalli)

L’articolo proviene da TPI.it qui

Giornalisti intercettati, dopo Trapani ne spuntano altri 33 ascoltati per il caso Mimmo Lucano

Ci sono fatti che stanno uscendo in questi giorni che messi in fila fanno spavento, notizie che vengono ingegneristicamente spezzettate per non avere il quadro d’insieme mentre la prospettiva generale è qualcosa di spaventoso, un modus che meriterebbe una riflessione larga su politica e giustizia. Forse proprio per questo conviene rivenderli come singoli casi di cronaca.

Facciamo un passo indietro: è notizia di qualche giorno fa (ormai diventata “vecchia” e quindi facile da scavalcare liscia) che tra le carte della fumosissima inchiesta del 2017 della procura di Trapani che avrebbe dovuto dimostrare i legami illeciti tra Ong e scafisti ci siano centinaia di pagine di intercettazioni trascritte e depositate che riguardano giornalisti ascoltati mentre parlano con le loro fonti, mentre discutono tra di loro, addirittura mentre parlano con i loro avvocati. Una pesca a strascico che non segue nessuna logica procedurale e che sono gravissime violazioni in uno Stato di diritto. La ministra Cartabia ha deciso di inviare gli ispettori per vagliare le carte e le procedure eseguite, al fine di accertare eventuali comportamenti non consoni attuati dalla procura.

Facciamo un secondo passo. Quell’inchiesta è finita in niente, la tesi dell’accusa però è stata il copione di una narrazione politica frequentata sia dall’ex ministro dell’Interno Minniti sia da Salvini che ne fece il plot di tutta la sua campagna elettorale che l’avrebbe portato al Viminale. Anni di criminalizzazioni delle Ong che non hanno nessun riscontro giuridico, nessuna sentenza, nessuna condanna in nessun grado. E non c’è solo l’inchiesta di Trapani: in questi anni sono stati aperti ben 16 fascicoli sulle organizzazioni umanitarie e non si è mai arrivati in nessun caso al processo. Non si parla di assoluzioni, badate bene: non c’è mai stato uno straccio di prova che giustificasse nemmeno un dibattimento. Qualcuno come il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro ha dovuto ammettere di non essere riuscito ad andare oltre la suggestione dei suoi sospetti nonostante ne abbia parlato lungamente sui giornali, in televisione e perfino nelle sedi istituzionali della politica.

La sua inchiesta sulle Ong (la prima in ordine di tempo) è ancora oggi sventolata come “prova” nonostante sia stata chiusa dopo due anni di indagini: la confusione è talmente tanta sotto il cielo che ora basta perfino essere indagati, senza nemmeno essere accusati, per essere “sporchi”, per essere delegittimati e additati come colpevoli che sono riusciti a farla franca. In compenso in questi anni di inchieste abbiamo assistito a presunti scafisti che erano solo scambi di persona, traduzioni sbagliate che hanno incarcerato innocenti e riconoscimenti che si sono rivelati fallaci.
Facciamo un altro passo. Si scopre che tra il 2016 e il 2017 nell’ambito dell’inchiesta “Xenia” che ha portato all’arresto del sindaco di Riace Mimmo Lucano facendolo decadere da sindaco per poi riabilitarlo quando ormai il danno era fatto, 33 giornalisti siano stati intercettati (senza mai essere iscritti nel registro degli indagati), sono stati ascoltati 3 magistrati, uno degli avvocati difensori di Lucano e un viceprefetto. Nel fascicolo dell’indagine (carte praticamente pubbliche) ci sono utenze telefoniche, indirizzi mail e dati di tutti gli intercettati. Lo scopo? Sempre lo stesso: smascherare i buonisti che erano già stati condannati da certa politica.

Lo scenario quindi è questo: politica e magistratura hanno concorso per anni nell’ossessivo sostegno di una tesi che ha portato popolarità e consenso a entrambi, hanno trovato una convergenza nel dipingere una realtà che non ha ad oggi nessun riscontro e hanno usato (resta da capire se di comune accordo) metodi forse non leciti e sicuramente non etici. Una tesi politico-giudiziaria ha modificato il corso di questi anni, una tesi senza nessun riscontro. Questo è l’aspetto più spaventoso e allarmante e su questo bisognerebbe avere il coraggio di aprire una discussione. Funziona un Paese così?

L’articolo Giornalisti intercettati, dopo Trapani ne spuntano altri 33 ascoltati per il caso Mimmo Lucano proviene da Il Riformista.

Fonte

Possibili effetti indesiderati

Gli effetti indesiderati dell’Aspirina, la compressa con vitamina C:

Effetti sul sangue

  • prolungamento del tempo di sanguinamento,
  • anemia da sanguinamento gastrointestinale,
  • riduzione delle piastrine (trombocitopenia) in casi estremamente rari.

A seguito di emorragia può manifestarsi anemia acuta e cronica post-emorragica/sideropenica (da carenza di ferro) (dovuta, per esempio, a microemorragie occulte) con le relative alterazioni dei parametri di laboratorio ed i relativi segni e sintomi clinici come astenia (stanchezza), pallore e ipoperfusione (ridotta irrorazione sanguigna dei tessuti).

Effetti sul sistema nervoso

  • mal di testa,
  • capogiro.

Raramente può manifestarsi:

  • sindrome di Reye (*), una malattia acuta a carico del cervello e del fegato, potenzialmente fatale, che colpisce quasi esclusivamente i bambini.

Da raramente a molto raramente può manifestarsi:

  • emorragia cerebrale, specialmente in pazienti con ipertensione (pressione del sangue alta) non controllata e/o in terapia con anticoagulanti (medicinali usati per rallentare o inibire il processo di coagulazione del sangue), che, in casi isolati, può essere potenzialmente letale.

Effetti sull’orecchio

  • tinnito (ronzio/fruscio/tintinnio/fischio nell’orecchio).

Effetti sull’apparato respiratorio

  • sindrome asmatica,
  • rinite (naso che cola)
  • congestione nasale (naso chiuso) (associate a reazioni allergiche);
  • epistassi (perdita di sangue dal naso).

Effetti sul cuore

  • distress cardiorespiratorio (grave e acuta insufficienza respiratoria) (associato a reazioni allergiche).

Effetti sull’occhio

  • congiuntivite (associata a reazioni allergiche).

Effetti sull’apparato gastrointestinale

  • sanguinamento gastrointestinale (occulto),
  • disturbi gastrici,
  • pirosi (bruciore di stomaco),
  • dolore gastrointestinale,
  • gengivorragia (gengive sanguinanti),
  • vomito,
  • diarrea,
  • nausea,
  • dolore addominale crampiforme (associati a reazioni allergiche).

Raramente possono manifestarsi:

  • infiammazione gastrointestinale,
  • erosione gastrointestinale,
  • ulcerazione gastrointestinale,
  • ematemesi (vomito di sangue o di materiale “a fondo di caffè”),
  • melena (emissione di feci nere, picee),
  • esofagite (infiammazione dell’esofago)

Molto raramente può manifestarsi:

  • – ulcera gastrointestinale emorragica e/o perforazione gastrointestinale con i relativi segni e sintomi clinici ed alterazioni dei parametri di laboratorio.

Effetti sul fegato

  • raramente: epatotossicità (lesione epatocellulare generalmente lieve e asintomatica) che si manifesta con un aumento delle transaminasi.

Effetti sulla pelle

  • eruzione cutanea,
  • edema (gonfiore),
  • orticaria,
  • prurito,
  • eritema (arrossamento),
  • angioedema (associati a reazioni allergiche).

Effetti sui reni e sulle vie urinarie

  • alterazione della funzione renale (in presenza di condizioni di alterata circolazione del sangue nei reni),
  • sanguinamenti urogenitali (dell’apparato urinario e genitale).

Effetti sull’organismo in toto

  • emorragie peri-operatorie (subito prima, durante e subito dopo l’intervento chirurgico),
  • ematomi (raccolte di sangue al di fuori dei vasi sanguigni).

Effetti sul sistema immunitario

  • raramente: shock anafilattico (grave reazione allergica, potenzialmente letale) con le relative alterazioni dei parametri di laboratorio e manifestazioni cliniche.

(tanto per avere le proporzioni, perché sono importanti le proporzioni per costruire un pensiero ampio)

Buon mercoledì.

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