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Insozzare la Liberazione

Ci sono molti modi di insozzare il 25 aprile, ognuno con il proprio stile ma tutti tesi (come un braccio teso) per svilire e in fondo per provare a non scontentare i fascisti. Siamo ancora al punto in cui almeno si vergognano di leccare spudoratamente i fascisti e quindi provano ad accarezzarli di sponda. Almeno questo.

Giorgia Meloni se la gioca (come era immaginabile) trasfigurando la libertà di andare al ristorante e mette in mezzo partigiani (senza citarli, sia mai) e lavoratori provando a innescare la solita guerra tra disperazioni: “La libertà, mentre la celebriamo, non è più scontata – scrive – a oltre 70 anni dall’inizio della nostra Repubblica democratica, e ad oltre un anno dall’inizio della pandemia, il governo ancora pensa di potersi arrogare il diritto di decidere se e quando gli italiani possano uscire di casa. Appello a tutti coloro che credono nel valore della libertà: aiutateci ad abolire il coprifuoco“. Insomma: il coprifuoco è il nuovo fascismo, dice Giorgia Meloni. Complimenti.

A ruota arriva Salvini, che ormai è una Meloni in versione analcolica. Pubblica un video sui suoi social e urla: “Noi, donne e uomini liberi d’Italia, chiediamo la cancellazione dell’insensato COPRIFUOCO e la riapertura di TUTTE le attività nelle zone (gialle o bianche) in cui il virus sia sotto controllo’. Al momento le adesioni sono 7.750. Nel video pubblicato sul web, Salvini aggiunge: “Se saremo 10mila è un conto, se saremo 100mila o un milione… Oggi è la giornata della Liberazione. Io e la Lega daremo l’anima dentro al governo, perché le le battaglie si combattono stando dentro e non uscendo o scappando, cercando di limitare la prepotenza di chi vede solo rosso, divieti, chiusure e coprifuoco”. Insomma, una Giorgia Meloni al maschile con la differenza che lui sta al governo con quelli che vorrebbe pugnacemente combattere. Un eroe.

Pietro Ichino prova a allargare il campo riuscendoci male: “La Festa della Liberazione non può ridursi a un’acritica celebrazione dell’epopea partigiana: deve essere anche occasione per riflettere sulle responsabilità delle forze antifasciste nell’avvento della dittatura”. Benissimo: poi scriviamo un saggio sulla colpa degli ebrei che la Shoah se la sono andata a cercare.

Il sindaco di Codogno Francesco Passerini dimostra di essere più pandemico della pandemia rifiutando di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini con motivazioni che fanno spavento: “Codogno diede l’onoreficenza a Mussolini nel 1924, fu una iniziativa nazionale dell’Anci del tempo. E’ un atto storico, come quando Napoleone ha dormito a Codogno e poi andò a Lodi a far guerra. Non è che poi è venuto giù il palazzo dove dormì. Abbiamo anche alcune strutture che ricordano il periodo fascista, come Villa Biancardi che è ancora lì. E per fortuna. Non si può pensare di cancellare e demolire tutto perché costruito da una parte della storia ‘particolare’”. Insomma erano particolari, mica fascisti.

Fenomenale anche il sindaco di Salò: “Dopo la caduta del Fascismo – dice all’opposizione che chiedeva simbolicamente di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini – sui banchi dove state ora accomodati, si sono seduti uomini che di antifascismo e lotta partigiana potevano sicuramente fregiarsi di sapere tanto, tanto più di Voi, e di Noi, avendo fatto parte personalmente di quella lotta, avendoci messo la faccia e, avendo spesso, rischiato la vita per gli ideali in cui credevano. Eppure queste persone non si posero, allora, il problema della Cittadinanza onoraria”. Insomma: se non l’hanno fatto gli altri io mi sento assolto.

Sceglie la linea del banalissimo e goffo provocatore anche il professore universitario Riccardo Puglisi, star presso se stesso su Twitter, che ci butta un po’ di liberismo d’accatto: “Mi sembra di capire che parecchi partigiani comunisti volessero passare direttamente dalla liberazione alla dittatura del proletariato”. Che spessore, ma dai.

Infine lui, Renzi: “Oggi è festa di libertà. Memoria di chi ha combattuto per salvarci, impegno per il futuro. Rileggere oggi le lettere dei condannati a morte della resistenza commuove e spalanca l’anima”. Non è festa di libertà ma festa della Liberazione dal nazifascismo, ma figurati se riesce a dirlo. E scrive “resistenza” in minuscolo, genio. Però la festa della libertà, se gli può interessare, si festeggia proprio domani in Sudafrica. Sempre che non abbia impegni dal principe saudita.

Buon lunedì.

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Eccoli i migliori /3

La sottosegretaria alla Cultura che non legge libri, quello all’Interno che rivendica i decreti Sicurezza e quello all’Istruzione che scambia Topolino per Dante. Ecco a voi la pattuglia delle nuove nomine leghiste

Ormai frugare tra l’elenco dei migliori nel governo dei migliori rischia di diventare una rubrica quotidiana ma ci tocca e lo facciamo. Ieri c’è stata una sorta di presentazione alla stampa dei sottosegretari leghisti, capeggiati da un Salvini euforico che nel frattempo continua indisturbato a fare opposizione al governo di cui fa parte, come se nulla fosse, portando avanti la sua prevedibilissima strategia che continuerà irresponsabilmente a usurare il governo per non farsi usurare troppo da Giorgia Meloni. Anche questo purtroppo è uno dei tanti nodi di un governo che tiene dentro quasi tutti e quindi lascia la libertà di non tenere dentro praticamente nessuno a livello di responsabilità.

C’era ovviamente Lucia Borgonzoni, di cui tanto si sta scrivendo e si sta parlando in queste ore, quella che è diventata sottosegretaria alla Cultura e che candidamente ammette di non leggere libri. Meglio: nel luglio 2018 ammise di averne letto uno in tre anni e probabilmente con questa media è risultata la più assidua lettrice di tutto il suo partito e per questo è stata messa lì. Del resto il mondo della cultura, già in sofferenza acuta per la pandemia, ormai è pronto a tutto: per loro la prima ondata non è mai finita.

C’era Stefania Pucciarelli, andata al ministero della Difesa, già presidente della commissione Diritti umani del Senato, già travolta dalle polemiche per un like lasciato a un commento pubblicato sulle sue pagine social e nel quale si inneggiava ai forni crematori per i migranti che richiedevano una casa popolare. Ieri ha detto di non avere fatto altri errori facendo intendere di sentirsi assolta. A posto così. Del resto per loro il razzismo è un problema solo se sbrodola in giro, mica se si porta con fierezza.

Viceministro delle Infrastrutture e trasporti è Alessandro Morelli, quello che si definisce “aperturista” perché vuole riaprire tutto ma non si capisce bene come vorrebbe fermare il contagio, ex direttore de La Padania e de Il Populista: si ritroverà a lavorare a fianco a fianco con Teresa Bellanova (un’altra grande esperta di infrastrutture, immagino) e ha già rilanciato l’idea del ponte sullo stretto di Messina. «Noi abbiamo utilizzato per tanto tempo lo slogan delle ruspe, oggi le ruspe servono per costruire», ha detto ieri. Che ridere, eh?

Nicola Molteni è sottosegretario al ministero dell’Interno. Ieri ha detto: «Rivendico i decreti Sicurezza con orgoglio e dignità perché sono stati strumenti di legalità e di civiltà». Vedrete che (brutte) sorprese in tema di solidarietà.

Sottosegretario all’Istruzione è Rossano Sasso. Sasso nel 2018 partecipò a un flash mob contro i migranti a Castellaneta Marina. Una ragazza era stata violentata e il nuovo sottosegretario aveva già trovato il colpevole, uno straniero definito un «bastardo irregolare sul nostro territorio». Peccato che sia stato assolto con formula piena. Per non farsi mancare niente pochi giorni fa era convinto di citare Dante scrivendo una frase di una versione della Divina Commedia a fumetti apparsa su Topolino. All’istruzione, per capirsi. «Può capitare, è stato uno scivolone, sono sincero non sapevo che si trattasse di Topolino – ha detto ieri – vorrà dire che dovrò approfondire i miei studi classici e se mi sentisse il mio professore del liceo mi tirerebbe le orecchie».

Sottosegretario all’Economia è Claudio Durigon, il padre di Quota 100 nonché il cantore della Flat tax, a proposito di equità fiscale, che quando serve diventa addirittura “progressiva”. «Sappiamo che questo è un governo tecnico e non politico», ha detto ieri. Chissà come se la rideva intanto sotto i baffi.

Buona fortuna e buon venerdì.

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Primule e Arcuri

Nel bando per la realizzazione dei padiglioni a forma di primula pensati per la campagna di vaccinazione ci sono alcuni punti che sollevano critiche. Siamo sicuri di avere preso una decisione che abbia un senso e che risulti vantaggiosa?

Ve li ricordate i padiglioni a forma di primula che il prode turbocommissario Arcuri ha pensato per la campagna vaccinale contro la pandemia? Bene, ci siamo. Martedì 20 gennaio è stato pubblicato il bando per la realizzazione e ci sono alcuni punti interessanti da analizzare. Perché forse sarebbe il caso di essere curiosi prima per poi non pagare lo scotto dopo.

Una delle critiche più argomentate e che vale la pena riprendere è quella di Carlo Quintelli, docente di Ingegneria e architettura all’università degli studi di Parma, che in un post su Facebook ha analizzato tutti i dettagli del bando. Ripassiamoli. Scrive Quintelli:

«Il padiglione misura 315 mq e per realizzarne, trasportarne, allestirne 21 chiavi in mano arredi compresi in diverse parti d’Italia si danno 30 gg di tempo! E dove si richiede la riparazione degli impianti con intervento entro 30 minuti dalla chiamata! (da sottoporre all’attenzione della ricerca in logistica del Pentagono o di Amazon!). Delle due l’una verrebbe da pensare: o chi ha redatto il bando è totalmente ingenuo ed estraneo al settore o qualcuno ha già pronto tutto da inizio dicembre. Oppure succede come con i banchi per le scuole che sono andati quasi tutti fuori tempo di consegna contrattuale (e le penali?)». E in effetti verrebbe da chiedersi perché insistere pubblicando bandi che si sa che non possono essere rispettati per poi slittare il tutto. Almeno che non ci sia, anche dalle parti di un ruolo tecnico come è quello di Arcuri, troppa attenzione alla propaganda.

Poi, scrive Quintelli: «Il costo massimo è pari ad euro 1.300/mq + Iva ergo se Arcuri si limita ai 21 padiglioni (dimostrativi? sperimentali? promozionali? di fatto inutili ai fini della campagna vaccinale) staremo tra gli 8 e i 9 milioni di euro, ma se in un delirio di onnipotenza ne ordina 1.200 ci portiamo attorno al mezzo miliardo di euro (di soldi nostri)». Per avere un’idea dei costi, osserva Quintelli: «Ognuno di questi padiglioni potrà avere un costo massimo di euro 400.000 (+/- 20%) e a questa modica cifra è in grado di effettuare 6 vaccinazioni alla volta per la durata, compresa anamnesi, di 10/15 minuti a seconda dei soggetti. Ma diciamo pure 12 minuti per 6 postazioni = 30 vaccinazioni/ora per 10 ore = 300 x 90 gg (tre mesi), senza mancare un turno e con efficienza tayloristica, si vaccinano 27.000 persone, un piccolo centro da 30.000 abitanti, spendendo “solo” 10 volte tanto rispetto a un punto vaccini di analoga portata nella sala civica, in quella parrocchiale, nella palestra, sotto la tenda degli alpini e via dicendo…Per un centro da 100.000 abitanti il padiglione da quasi mezzo milione di euro li vaccina tutti ma gli ci vuole un anno (slow vaccination). La soluzione? Se ne acquistano tre, posizionati in tre diverse piazze e risolviamo spendendo la modica cifra di un milione e mezzo di euro. Ora capite perché il Commissario si riserva di ordinarne 1.200 se si pensa che abbiamo 103 città con più di 60.000 abitanti e diverse da oltre 200.000 più Roma e Milano. Che dire…capisco sempre di più le perplessità di certi paesi nel concederci il credito europeo».

E gli spazi? Ecco qua. Lo spiega Quintelli: «In ogni caso l’architettura è un’arte (tecne) dove la ratio è messa alla prova e allora non si spiegano quelle 16 persone in un’area di attesa di circa 40mq che funge anche da ingresso/uscita (non separate!), punto reception, disimpegno ai corridoi, dove tutti incrociano tutti ecc. ecc. Uno spazio oltretutto alto solo 2.70 (di tipo domestico) con volumi d’aria limitati e che andrà fortemente depressurizzato (con quali effetti?). Speriamo bene che non faccia da area di contaminazione….è stato certificata da qualcuno? Il resto degli ambienti è da sommergibile, 2,60 mt di profondità degli spazi per anamnesi e vaccinazione (idonei si dice a 4 persone tra operatori e pazienti/accompagnatori), corridoi da 1,40 mt, “sala attrezzata per reazioni avverse” da circa 9 mq (speriamo di non averne bisogno…) e dulcis in fundo, con una media di 50 persone sempre presenti nella primula, due soli bagni per i pazienti ed uno (evidentemente unisex) per gli operatori (confidiamo nei bar dei dintorni, se in zona gialla)».

Ora la domanda è una sola: siamo sicuri di avere preso una decisione che abbia un senso e che risulti vantaggiosa? Abbiamo il diritto di sapere? O come sempre aspettiamo la prossima conferenza stampa per sentire Arcuri non rispondere sul punto? Anche perché le vaccinazioni impattano sulla nostra vita molto di più delle beghe su cui si stanno sprecando tutti gli editoriali.

Buon giovedì.

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È che ci vorrebbero felici di essere schiavi

Il “rider felice”: un articolo de La Stampa – che si è basato su una notizia falsa – rivela una narrazione che colpevolizza i disoccupati alimentando pregiudizi

Ieri ha fatto molto discutere un articolo pubblicato da La Stampa, a firma di Antonella Boralevi, che racconta di tale Emiliano Zappalà, un rider felicissimo di essere rider, secondo Boralevi, che pedala per 100 km al giorno e guadagna come un manager dopo avere dovuto chiudere il suo studio da commercialista a causa dell’epidemia. Il sottotesto dell’articolo (in cui si attacca anche il reddito di cittadinanza) è in sostanza questo: se siete poveri è colpa vostra che non avete voglia di fare un cazzo perché il mondo del lavoro è pieno di grandi opportunità. Insomma, il solito articolo da libberisti (con due b) che vedono in giro un mondo perfetto e che tacciano coloro che rivendicano diritti come fastidiosi lagnosi.

“Si chiama Emiliano Zappalà, ha 35 anni. Aveva aperto uno studio di commercialista, il Covid gliel’ha fatto chiudere. E lui, invece di chiedere il reddito di cittadinanza, si è messo a lavorare. Dove? In uno dei settori che il Covid ha reso vincenti: la consegna a domicilio. Business raddoppiato in 10 mesi, come il numero degli addetti”, si legge nel pezzo di Boralevi. E già l’incipit è roba da orticaria. E poi: “Come racconta in un’intervista al Messaggero, da quasi un anno il Dottor Zappalà è un rider di Deliveroo. Cioè fa circa 100 chilometri al giorno in bicicletta, con un borsone giallo sulle spalle e consegna pizze e pranzi e spesa. Guadagna 2000 euro netti al mese e, certi mesi, anche 4000. Uno stipendio da manager. Ed è felice”. Felice, capito?

Il pezzo ovviamente è diventato subito combustibile per infiammare gli stomaci contro gli sfaticati che si lamentano e che non producono. Tutto perfettamente in linea con una certa narrazione che vorrebbe risolvere il problema della povertà e dei diritti del lavoro semplicemente negando. Se è felice Emiliano Zappalà dovremmo essere felici tutti. Ovvio. Ah, il grande sogno americano.

Peccato però che Emiliano Zappalà non esista e che quell’articolo sia completamente falso. E c’è da scommettere che tutti quelli che l’hanno rilanciato siano gli stessi che inorridiscono per le fake news in internet, ci metto la firma.

Emiliano Zappalà si chiama Emanuele (vabbè, ha solo sbagliato il nome, una giornalista, a proposito di meritocrazia e di cura nel proprio lavoro), ha studiato da commercialista ma non lo è mai diventato e quindi non ha mai aperto uno studio che quindi non è mai stato costretto a chiudere per la pandemia. Anzi i chilometri che percorre li macina su un motorino. Quindi si perde anche il culto dell’attività fisica, che peccato. Raggiunto da un giornalista de La fionda racconta di avere avuto mesi positivi, di lavorare molte ore al giorno e di guadagnare in media 1.600 euro al mese. Niente stipendio da manager, insomma. Anzi a voler indagare per bene si vede che proprio un Emiliano Zappalà risulta tra i firmatari del contratto siglato da Assodelivery e Ugl, un contratto che introdusse un “cottimo mascherato” e per questo è stato sconfessato e ritenuto illegittimo dallo stesso ministero del Lavoro. Tra l’altro, denunciano molti rider, “la sottoscrizione del contratto è stata utilizzata dalle aziende per ricattare più o meno velatamente i lavoratori: chi non firma, viene estromesso dalle piattaforme”. Insomma Zappalà è molto aziendalista, senza dubbio. E infatti dal suo profilo Linkedin rilancia con molto entusiasmo le comunicazioni aziendali di Deliveroo.

Quindi per l’ennesima volta la favola che avrebbe dovuto colpevolizzare i disoccupati si rivela semplice fuffa buona solo ad alimentare pregiudizi. Un bell’editoriale che si basa tutto su una notizia falsa e su una pregiudiziale narrazione a favore dello schiavismo felice. Perché loro ci vorrebbero così: mica solo schiavi, addirittura anche felici.

A proposito: “è un fatto o no?” chiedeva Antonella Boralevi in chiusura del suo saccente articolo. No, signora Boralevi. No.

Buon martedì.

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Ritorno a scuola, è caos totale: il governo litiga e ogni regione fa come gli pare…

Ora almeno ci sono anche dei numeri, pochi, pochini e perfino poco chiari. Dopo mesi in cui tutti chiedevano aggiornamenti l’altro ieri l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato il suo rapporto per il periodo dal 31 agosto al 27 dicembre sui contagi a scuola mettendo nero su bianco che si tratta di 3.173 focolai di coronavirus pari al 2% del totale. Si tratta di bambini e ragazzi in età scolare (dai 3 ai 18 anni): la maggior parte dei casi, ben il 40%, si è verificata negli adolescenti dai 14 ai 18 anni. Si potrebbe partire da qui ad aprire un serio dibattito sul futuro, sul presente e sul passato recente delle scuole italiane in tempo di pandemia se non fosse che l’Iss non sa dire nulla sul fatto che il contagio avvenga in classe oppure nei (troppo pochi) trasporti prima e dopo le ore di lezione. Il nodo dei mezzi pubblici rimane un grosso punto interrogativo. Stesso discorso sulla reale efficacia della chiusura delle scuole per frenare la diffusione del Covid: «Tuttavia, l’impatto della chiusura e della riapertura delle scuole sulle dinamiche epidemiche rimane ancora poco chiaro», si legge nel rapporto.

E quindi? E quindi sulla scuola si continua con l’indecente balletto di favorevoli e contrari, di opposte tifoserie che si scontrano per opposte fazioni spesso dimenticando di proporre soluzioni. In mezzo un governo che sulla questione continua a balbettare e appare piuttosto disunito: la ministra alla scuola Lucia Azzolina pretenderebbe un rapidissimo rientro in presenza mentre altri membri del governo, Dario Franceschini in testa, propendono per la linea della cautela a oltranza. La sintesi non c’è. Meglio: la sintesi è una sbiadita mediazione che per ora dal Consiglio dei Ministri dà il via libera in presenza al 50% per le scuole secondarie di secondo grado dal prossimo lunedì 11 gennaio mentre per le scuole primarie e secondarie di primo grado fissa la ripresa dal 7 gennaio in presenza. Peccato che intanto le Regioni vadano ognuna per conto suo con la Liguria che annuncia che non aprirà, la Sardegna che posticipa al 15 gennaio, il Veneto che rimanda al 31 come Calabria, Friuli Venezia Giulia e Marche, tutte in ordine sparso. La sensazione diffusa è che il molto probabile aumento dei contagi nei prossimi giorni cambierà di nuovo le carte in tavola.

«Le Regioni riflettano bene sulle conseguenze per studenti e famiglie», avverte Azzolina ma che il peso della ministra sia debole all’interno dell’esecutivo è molto più di una sensazione.
Poi ci sarebbe anche il pensiero degli studenti, raccolto da un’indagine Ipsos per Save The Children tra ragazzi dai 14 a 18 anni che racconta di come il 42% di loro ritenga ingiusto che agli adulti sia permesso di andare al lavoro mentre loro non possono frequentare la scuola. Il 46% considera quello trascorso finora “un anno sprecato”. Save the Children stima che almeno 34mila studenti delle superiori, a causa delle assenze prolungate, potrebbero trovarsi a rischio di abbandono scolastico. Il 28% degli studenti dichiara che almeno un loro compagno di classe ha smesso di frequentare le lezioni. Ad oggi, più di uno studente su tre (35%) si sente meno preparato di quando andava a scuola in presenza.

Poi si potrebbe parlare dei trasporti che ancora mancano, del tracciamento e dei presidi sanitari e dei tamponi che avrebbero garantito sicurezza e soprattutto di un sistema di ventilazione nelle aule che avrebbe potuto garantire più sicurezza. Ma di visoni strutturate e lunghe sulla scuola non se ne vede l’ombra. Intanto il personale scolastico si arrabatta e resiste, in attesa della prossima decisione poche ore prima di aprire i cancelli.

L’articolo Ritorno a scuola, è caos totale: il governo litiga e ogni regione fa come gli pare… proviene da Il Riformista.

Fonte

La prima nata a Genova dimostra che non c’è solo il Covid da combattere nel 2021, ma anche (e ancora) il razzismo

Il 32 dicembre in molti speravano che fosse il primo gennaio, che l’anno nuovo si fosse portato via mica solo il Covid-19 da combattere ora con un vaccino finalmente disponibile ma anche le croste di quelle brutture che hanno insozzato un anno già difficile, pesante, inquinato da un cattivismo (in tutte le sue forme: razzismo, disprezzo per i poveri, bastoni sui disperati) che ha reso l’aria ancora più tossica e pestifera.

Il 32 dicembre il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti ha pubblicato sul proprio profilo Facebook la foto di una mamma che tiene in braccio la figlia appena nata. La bambina si chiama Graeter ed è la prima nata a Genova. Graeter è figlia di Joy, una donna nata in Nigeria, come il papà della bimba. “Siete la nostra speranza, il nostro futuro, la forza per non mollare in questo nuovo anno che è appena iniziato. Benvenuti al mondo piccoli e auguri alle vostre famiglie a nome mio e di tutta la Liguria”, scrive Toti.

E il 32 dicembre inizia lì dov’era finito, con una tormenta di commenti a sfondo razzista: “Dopo il vaccino obbligatorio, lo ius soli? Renzi La aspetta a braccia aperte!”, “Nata in Liguria, ma somala o africana a prescindere…”, “Questo non è vero. Come non è vero che chi nasce in Italia è italiano. Cosa hanno di ligure questi signori? Ma cosa sta dicendo?”, “Stupido e iprocrita pietismo”, “Imbarazzanti lo siete voi…se io fossi nata al polo sud di certo non ero per diritto di nascita un pinguino!”. E così via.

Ovviamente a rimestare nella melma si butta anche la Lega che con il deputato Edoardo Riki si butta a capofitto a chiarire che “quella bambina non è ligure” e che addirittura si spreca in moralismo spiccio: “Niente contro di lei, ma devo dire che poi non apprezzo il fatto che si mettano in mezzo bambini appena nati e si utilizzino per commenti politici”. Alla fine perfino Toti, sconsolato da tanta bassa bruttezza, è costretto a intervenire sulla sua bacheca cercando di abbassare i toni.

E così il 32 dicembre del 2020 che molti hanno scambiato per il primo giorno del 2021 l’Italia fa ancora i conti con quello che è: una livorosa accozzaglia di diritti ostinatamente da negare e di una realtà ostinatamente taciuta e nascosta. Ne ha fatto le spese Graeter ma in fondo è stato il risveglio anche per noi: l’anno nuovo inizia quando iniziano nuovi comportamenti, quando si evolvono i pensieri e i modi, quando la realtà riesce a fare risultare “passato” quello che era. E invece niente di tutto questo. È un anno lunghissimo questo decennio.

Leggi anche: Liguria, Toti pubblica la foto della prima nata a Genova: insulti razzisti e scontro con la Lega

L’articolo proviene da TPI.it qui

Le siringhe e Arcuri

Il Commissario all’emergenza Covid ha pubblicato un bando per 150 milioni di siringhe “ad avvitamento”, molto più costose e difficili da trovare delle normali. E non si capisce il perché di questa scelta

Il super mega ultra turbo commissario Domenico Arcuri, delegato all’emergenza Covid, in qualsiasi altro luogo di lavoro che non sia quello del governo italiano avrebbe già fatto le valigie da un pezzo. Eppure nonostante i ritardi sulle mascherine, nonostante le consulenze milionarie sugli acquisti (ne parleremo nei prossimi giorni) e nonostante la barzelletta dei banchi a rotelle continua serafico nel suo ruolo, ostentando la sua solita sicumera e addirittura minacciando di querela chi fruga nei suoi affari.

Sulle siringhe che serviranno per la prossima campagna vaccinale nazionale Arcuri ha pubblicato un bando di offerta pubblica di 157 milioni di siringhe. Di questi 157 milioni ben 150 milioni dovranno essere “luer lock” (ad avvitamento) che sono più difficili da trovare, che richiedono tempi più lunghi di produzione e che costano parecchio di più.

Quando qualcuno ha fatto notare il punto (anche tra i produttori italiani che riforniscono gli altri Stati europei con le normali siringhe e che invece si sono ritrovati tagliati fuori dalla gara qui da noi) l’ufficio stampa di Arcuri ha precisato che la scelta è stata fatta perché le siringhe sarebbero «più precise e performanti». E poi ha scritto: alla redazione di Tagadà, che ha ricostruito la vicenda e denunciato questa anomalia: «Tali indicazioni sono state formulate dal Cts-Iss, in collaborazione con l’azienda produttrice e sono molto importanti», lasciando evidentemente intendere che il Comitato tecnico scientifico, l’Istituto superiore per la sanità e la società produttrice del vaccino (Pfizer) avessero dato questa indicazione.

Bene, il Cts ha dichiarato che «non è mai stato investito da quesiti relativi a vaccini, alle siringhe e alla catena di distribuzione», smentendo di fatto Arcuri.

«L’Iss non è stato coinvolto nella definizione delle specifiche tecniche sulle siringhe da acquistare», fanno sapere dall’Istituto superiore per la sanità.

Pfizer ha dichiarato che «la somministrazione richiede l’utilizzo di aghi comunemente utilizzati».

Quindi si può sapere perché sono state scelte quelle siringhe? Aspettiamo, poco fiduciosi.

Buon venerdì.

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I medici ci sono ma non possono medicare

Vi è capitato di leggere il sottopancia durante una qualche trasmissione televisiva in cui lo Stato cerca urgentemente medici disponibili per riuscire a arginare la difficile situazione degli ospedali italiani? Quante interviste a primari o direttori di ospedali avete ascoltato in cui lamentano la mancanza di personale in corsia per riuscire ad assorbire la pandemia? Avete letto o visto di terapie intensive che sono già attrezzate ma non riescono a partire perché manca il personale sanitario?

Da oltre due mesi più di 23mila medici sono parcheggiati, inutilizzati, bloccati dal Consiglio di Stato che ha accolto l’appello cautelare del ministero dell’Università contro i ricorsi dell’ultimo bando e così nonostante il cronoprogramma prevedesse l’entrata in servizio con l’assegnazione del luogo di lavoro per migliaia di medici oggi rimane tutto fermo, tutto appeso.

La prova per i 24mila candidati avrebbe dovuto svolgersi a luglio ma si è riusciti a farla solo il 22 settembre. L’elenco degli ammessi avrebbe dovuto essere pubblicato alle 12 del 5 ottobre ma l’enorme mole di ricorsi ha spostato tutto al 26 ottobre. Non si muove nulla per un mese finché l’elenco definitivo non viene stilato il 23 novembre. Il giorno successivo il Mur pubblica anche la tabella riepilogativa per la scelta della sede, l’assegnazione e l’immatricolazione: 1 dicembre chiusura della fase di scelta per i candidati, 3 dicembre pubblicazione delle assegnazioni alle Scuole di specializzazione, entro il 10 dicembre immatricolazione dei futuri specialisti, 16 dicembre pubblicazione degli esiti delle immatricolazioni per ciascun candidato, ovvero il via libero definitivo alla presa di servizio. E invece? E invece niente. Tutto rimane in sospeso.

E sapete perché ci sono così tanti ricorsi? Perché il ministero ha compiuto un errore nella compilazione del bando che escludeva determinati titoli dal punteggio generale. L’errore sbagliato nel momento sbagliato. I medici sono esasperati. Immaginatevi noi a leggere notizie così.

Buon lunedì.

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Fratoianni a TPI: “Una patrimoniale per combattere le disuguaglianze. Altro che mazzata, così il ceto medio risparmia”

In un emendamento alla Legge di Bilancio firmato da deputati di Leu e del Pd si chiede l’abolizione dell’Imu e dell’imposta di bollo sui conti correnti e di deposito titoli, per sostituirle con un’aliquota progressiva minima dello 0,2% “sui grandi patrimoni la cui base imponibile è costituita da una ricchezza netta superiore a 500 mila euro”. I primi firmatari sono Nicola Fratoianni, che fa parte della componente di Sinistra Italiana in Leu, e Matteo Orfini, della minoranza Pd. Le opposizioni insorgono ma anche nella maggioranza in molti storcono il naso. Per TPI abbiamo intervistato Nicola Fratoianni.

Onorevole Fratoianni, sulla cosiddetta “patrimoniale” si sono sollevate subito le reazioni. Se le aspettava?
“Reazioni peraltro un po’ scontate. Come ha osservato più di qualcuno ‘patrimoniale’ è parola impronunciabile nella scena politica italiana. Tutto contro ogni ragionevolezza e perfino contro le idee di molti supermiliardari: Forbes nel luglio di quest’anno ha pubblicato la lettera di 83 miliardari che chiedono ai loro Paesi di introdurre tassazioni stabili e significative sulle loro grandi ricchezze. Tutto sulla base di un argomento molto chiaro e molto semplice: noi non possiamo fare chissà cosa ma abbiamo molti soldi e quei soldi possono risolvere molti problemi, non solo le emergenze drammatiche di questa fase della pandemia ma anche le crescenti disuguaglianze che costituiscono un problema non solo per chi le subisce ma anche per chi ha grandi ricchezze”.

Qualcuno dice che fissare un limite di 500mila euro è un azzardo. “Basta avere ereditato una casa in una grande città”, si legge in giro. Come risponde?
“Non è così. Non ne faccio colpa ai cittadini che non conoscono la norma. Primo: riguardo la questione immobiliare che viene usata contro questa norma occorre non confondere il valore commerciale con il valore catastale dell’abitazione. La nostra proposta, come tutte quelle che intervengono sulle questioni patrimoniali, si riferisce al valore catastale, quindi a chi dice che in alcune città il valore al metro quadro supera i 3mila euro basta rispondere spiegando questo punto. Se qualcuno ha una casa con un valore catastale superiore ai 500mila euro è difficile che abbia particolari difficoltà. In ogni caso le nostra proposte sono progressive, partendo dallo 0,2% da 500mila a 1 milione di euro e poi via via crescendo fino ad arrivare al 3% per patrimoni superiori al miliardo di euro. E poi ci si riferisce a persone fisiche, per cui se marito e moglie sono comproprietari di una casa quel valore si divide”.

E il secondo punto?
“Secondo: oltre a introdurre aliquote progressive, facciamo l’operazione di riordino di quella giungla di micro interventi patrimoniali, come l’Imu anche sulla seconda casa e la famosa imposta Monti (lo 0,2% sui depositi finanziari e sui titoli che non era progressivo). Quindi il ceto medio – ammesso che esista ancora – potrebbe perfino risparmiare”.

L’hanno stupita le reazioni all’interno del Partito Democratico, Zingaretti incluso?
“Sono molto contento che diversi parlamentari del PD abbiano appoggiato questa proposta, ma non mi stupisce la reazione complessiva del PD come quella del Movimento 5 Stelle. Questo è un momento in cui c’è una subalternità culturale sul tema delle tasse e dei patrimoni e sulla disuguale distribuzione della ricchezza. Il mantra ripetuto in ogni occasione è che le tasse sono troppe e vanno abbassate ma le tasse non sono troppe in sé: sono troppe su chi le paga e sono poche sulle grandissime ricchezze. Sono distribuite in modo diseguale. Faccio osservare che nei decenni la tassazione sui redditi ha conosciuto una brusca contrazione delle aliquote diminuendo la progressività. Questo significa favorire i redditi altissimi e penalizzare quelli più bassi. Bisogna proteggere i piccoli patrimoni e chi ha acquistato una casa dopo anni di lavoro o chi ha ereditato una casa (non certo a Roma o a Milano) che ha uno scarso valore commerciale e pesa sullo stipendio. Bisogna uscire da questa stagione di subalternità culturale: se uno usa sempre le parole dell’avversario è difficile poi sconfiggere il suo racconto pubblico”.

Nel pieno della pandemia è un buon momento per affrontare questo tema?
“Il momento buono è da molto tempo, oggi ancora di più. La pandemia ha messo in risalto la fragilità di un sistema di organizzare il lavoro, le vite, l’economia e del nostro welfare. Ha disvelato l’imbroglio del primato della privatizzazione nella tutela della salute. E la pandemia, come ogni grande crisi, ha evidenziato l’aumento della disuguaglianza: c’è chi ha visto crescere ancora e significativamente i propri patrimoni e chi si è trovato in difficoltà. Quindi questo è il momento della discontinuità nelle scelte e nel linguaggio per immaginare un mondo diverso da quello a cui siamo abituati, che spesso ci è stato presentato come l’unico mondo possibile”.

Sui giornali e sulle televisione la proposta è diventata “la proposta di Orfini”…
“Va benissimo così. Sono il primo firmatario ma non ho problemi di primogenitura, mi interessa aprire una discussione”.

Leggi anche: Il linguaggio dei banchieri centrali: come è cambiato negli anni e quanto è capace di influenzare i mercati

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Dimenticare Assange

Nel processo al fondatore di WikiLeaks si discute anche del ruolo, della libertà e dei doveri dell’informazione. E del diritto della stampa di presidiare le azioni dei governi. Ma se ne parla pochissimo

In fondo è una delle nostre più discutibili e disturbanti debolezze, un atteggiamento che ci trasciniamo da anni e che applichiamo anche alle questione dei diritti come se i diritti potessero seguire le mode, essere qualcosa da stampare su una maglietta e poi dimenticarsene senza che la situazione si sia risolta. Julian Assange, discusso fondatore di WikiLeaks, è sotto processo a Londra, si decide se estradarlo o no negli Usa che gli hanno già promesso una condanna che potrebbe arrivare a 175 anni di carcere e quel processo, che è un processo che discute anche del ruolo, delle libertà e dei doveri dell’informazione è finito per essere raccontato solo da qualche tweet o da qualche ostinato osservatore che insiste nell’informarci.

In questo processo che non sta raccontando quasi nessuno intanto è emerso che non ci fu nessun furto di password di enti governativi americani ma il soldato Chelsea Manning, che aveva accesso a quei documenti, aveva già scaricato tutto il materiale. Non è una cosa da poco: c’è in discussione il ruolo delle fonti, il ruolo del giornalismo investigativo, c’è in gioco il diritto della stampa di presidiare le azioni dei governi. C’è in gioco moltissimo.

Era quello che aveva pensato il governo Obama nel 2013 quando si rese conto che criminalizzare Assange significava in fondo mettere sotto accusa il giornalismo investigativo. Ed è la strada opposta rispetto a quella che ha inforcato Trump quando nel 2018 lo ha accusato di crimine informatico e altri 17 capi di accusa nel maggio del 2019.

Sia chiaro: Assange ha dimostrato prove di crimini di guerra statunitensi in Iraq e Afghanistan, violazioni di diritti che tutto il mondo ha il diritto e il dovere di conoscere. E poi c’è un altro punto sostanziale: se Assange è colpevole quindi sono colpevoli anche tutti i giornali (NY Times incluso) che hanno pubblicato le sue scoperte, no? Come ci si comporta? Perché la sensazione dieci anni dopo è sempre la stessa: che il governo malsopporti di avere curiosi troppo curiosi che rovistano dove non dovrebbero rovistare. Accade sempre così, con tutti i governi ed è proprio l’atteggiamento che certo giornalismo combatte.

Eppure di Assange si parla poco, pochissimo. Quella che prima era una figura iconica oggi è diventata una notizia laterale. Perché noi siamo fatti così: ci innamoriamo di simboli e poi non ci prendiamo nemmeno la briga di controllare almeno che non vengano buttati via e che non vengano calpestati. Qui una volta era tutto foto e magliette di Assange e ora sembra che il suo processo non ci interessi più. Così si logorano i diritti, così si consumano le persone. Accade così.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.