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La lezione di Antonella

Come si sente una giovane ricercatrice che riceve sgradite attenzioni sessuali dal suo capo: lo racconta con coraggio l’immunologa Antonella Viola

Uno dei più famosi genetisti del mondo, Pier Paolo Pandolfi, è stato cacciato da Harvard («sono io che me ne sono andato», dice lui) perché accusato di molestie da una giovane ricercatrice. Badate bene: Pandolfi non ha negato le attenzioni ma ha parlato di «uno scambio romantico che si è protratto per due, tre mesi». Che sia stato romantico ovviamente l’ha deciso, unilateralmente, lui. Chiaro.

Il Vimm di Padova (l’istituto veneto di medicina molecolare) decide di assumere Pandolfi ma il comitato scientifico dell’istituto decide di dimettersi in massa. Nessun riferimento alle molestie, ma chiedono di annullare la nomina per “evitare un grande scandalo” che potrebbe causare “un grave danno alla reputazione del Vimm ma anche dell’Università di Padova”.

Intanto Pandolfi parla di “sbandata romantica”, dice di essersi sbagliato e si scusa. L’immunologa Antonella Viola decide di prendere carta e penna e di scrivere al Corriere della Sera una lettera di grande coraggio perché c’è dentro un pezzo di vita, forte come sono forti tutte le esperienze autentiche. Scrive Antonella Viola:

«In una società civile un datore di lavoro non può concedersi una ‘sbandata’ per una dipendente e tempestarla di messaggi, seppur di natura romantica. Sembra incredibile doverlo spiegare, ma a quanto pare c’è chi è interessato a derubricare le molestie sessuali in sogno romantico non corrisposto. Proviamo quindi a immaginare come si possa sentire una giovane donna, fresca di studi, piena di entusiasmo per la ricerca, disposta a lasciare il suo Paese e i suoi affetti per inseguire il sogno della scienza in uno dei migliori laboratori al mondo, che comincia a ricevere le sgradite attenzioni sessuali da parte del suo capo. Non riuscite a immedesimarvi? Ve lo racconto io.
Prima di tutto parte un profondo senso di umiliazione per essere ridotta a uno stereotipo sessuale dalla persona a cui avevi affidato la tua crescita professionale. Il tuo mentore è colui al quale ti affidi completamente e il suo giudizio è la cosa più importante al mondo: lui ti sta dicendo che ti vede come una preda, non vede altro. Immediatamente dopo scatta la paura: tranne pochi casi di uomini davvero fisicamente molesti o pericolosi, la paura che ti assale non riguarda il tuo corpo ma il tuo futuro. Il pensiero ovvio in questi casi è: cosa sarà di me se dico di no? Sono libera di rifiutare le sue attenzioni? Come cambieranno da questo momento i nostri rapporti? Mi manderà via dal laboratorio? Mi affiderà un progetto scadente? Finisce qui la mia carriera? E sì, molte carriere finiscono proprio lì…
A volte perché il molestatore inizia a ricattare la vittima, altre perché davvero da quel momento la estromette dall’attività del laboratorio, o a volte perché il trauma subito è troppo forte per riprendersi e ritrovare l’entusiasmo necessario per fare il nostro lavoro. È un altro dei grandi problemi che noi donne affrontiamo e che minano regolarmente la nostra produttività e carriera.
Chi non l’ha vissuto non può immaginare il dolore, la vergogna, la paura, le notti insonni e le lacrime versate mentre ci si sente paralizzate e incapaci di trovare una via d’uscita. Non lo auguro a nessuno e, nel ruolo che adesso ho nella ricerca italiana, farò sempre di tutto per evitare che altre donne possano vivere una situazione così dolorosa. Non so come la ricercatrice in questione ne verrà fuori. Io ne sono uscita andando via, lasciando il laboratorio per ricominciare altrove, aggrappandomi a quella che per me non è mai stata una sbandata ma un vero amore: la scienza fatta di passione, integrità e rispetto delle regole».

Ed è una lezione limpida, cristallina di cui essere grati.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Come ti sconsiglio l’aborto in Umbria

In Umbria governa Donatella Tesei  la quale ha pensato bene che uno dei più annosi problemi da risolvere nella regione fosse allungare il tempo di ricovero per l’interruzione di gravidanza volontaria farmacologica, da sempre come sapete una delle fobie di leghisti e destrorsi vari che sognerebbero di abolirlo per intero, l’aborto.

Nel 2018 la Regione Umbria aveva introdotto la possibilità di abortire grazie alla pillola Ru486 entro la settima settimana di gravidanza e aveva chiesto a tutti gli ospedali di organizzarsi in modo che le donne potessero effettuare l’interruzione della gravidanza grazie a una prestazione di day hospital o anche solo grazie a un servizio di assistenza domiciliare. La possibilità di rinunciare alla gravidanza con la pillola Ru486 è utilizzata oltre il 90% dei casi in nord Europa, per il 60% in Francia e solo per il 18% in Italia.

Ora la Tesei e la sua Giunta hanno deciso che serviranno almeno tre giorni di ricovero obbligatori per accedere all’interruzione di gravidanza farmacologica, cianciando di non si sa bene quale maggiore tutela considerando che in nessun Paese al mondo l’aborto farmacologico avviene al di fuori del regime di day hospital. Per scoprire perché un’azione sia stata intrapresa basta osservare chi è il primo che esulta: in Umbria ha esultato tantissimo il senatore ultraconservatore della Lega Simone Pillon, promotore del Family Day nonché commissario della Lega in Umbria.

Sono riusciti a rendere ancora più difficilmente sostenibile, soprattutto psicologicamente, il ricorso all’interruzione di gravidanza. Non è un caso, no, è una lucida strategia che si inventa qualsiasi passaggio punitivo pur di scoraggiare un atto che non hanno il coraggio di discutere deliberatamente faccia a faccia con le donne. Il fatto poi che in tempi di Covid si aumentino i giorni di degenza, mentre i malati non riescono nemmeno a ottenere le cure che gli spettano, rende tutto talmente goffo da risultare tragicamente imbarazzante.

Buon martedì.

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A Londra un antirazzista ha salvato un razzista dal linciaggio. Ecco com’è vivere senza nemici

La sua foto in cui tiene in spalla quello che la retorica dipinge come suo nemico mentre lo porta fuori dalla calca e lo salva dal pestaggio ha fatto il giro del mondo, eppure sono le sue parole a definire un mondo che è molto diverso da come si vuole raccontare. Patrick Hutchinson è un personal trainer che vive a Londra e che stava partecipando alle proteste Black Lives Matter. Patrick è nero. E un nero che salva un manifestante di estrema destra dal linciaggio fa notizia perché a molti viene comodo raccontare che si tratti di una guerra, gli uni contro gli altri, e mica una difesa di diritti e di valori.

Intervistato da Channel 4, Hutchinson ha raccontato lo svolgimento dei fatti: “È stato un attimo, non ti rendi conto di quanto sia pericoloso. Ho visto quella persona in grossa difficoltà, allora mi sono buttato a terra anch’io e, sotto calci e pugni, ho provato a tirarlo fuori da lì, proteggendolo con il mio corpo. Per fortuna altre persone mi hanno fatto scudo. Non sono un eroe. È stato un lavoro di squadra. E io voglio solo uguaglianza. Per me, i miei figli, i miei nipoti”. Ed ecco qui tutta la differenza che in troppi fingono di non vedere: Patrick non ha visto un “nemico”, non ha visto “un razzista”, non ha visto “un bianco” e non ha visto “qualcuno da abbattere e superare”: Patrick ha visto una persona, esattamente come lui, una persona in mezzo a altre persone, con opinioni diverse ma che andava rispettata e salvata indipendentemente da quello che era e da quello che professava.

Non l’ha giudicato per il colore della sua pelle e non l’ha nemmeno giudicato per l’essere in una fazione contrapposta. Il movimento che sta attraversando il mondo e che molti (troppi) media stanno raccontando come una guerriglia è una difesa a oltranza di diritti che da troppo tempo vengono declamati e non sono rispettati, è il desiderio di uguaglianza, come dice Hutchinson, “per me, i miei figli, i miei nipoti” e quel gesto di salvare il razzista è una lezione che pesa più di mille altre parole. Il 13 giugno 2020 un antirazzista ha raccontato al mondo che non si lotta per prevalere mai su nessuno, ma semplicemente si lotta perché ci siano uguali diritti, soccorrendo tutti, tendendo la mano a tutti e difendendo le proprie idee senza calpestare le persone. Chissà se dall’altra parte avrebbero fatto lo stesso, chissà se dall’altra parte ora hanno capito esattamente quale sia il nocciolo della questione.

Leggi anche: 1. La Storia non è una statua inamovibile uguale a se stessa: ecco perché si può mettere in discussione / 2. Cecilia Strada a TPI: “Vendere armi all’Egitto vuol dire sostenere torture e uccisioni come quella di Regeni”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Uno vale uno ma congresso lo stesso

Ma chi dovrebbe volere un congresso, la scelta di un capo in un partito in cui gli unici capi avrebbero dovuto essere gli elettori e in cui semplicemente serviva un garante per il rispetto del regolamento interno? A proposito di regolamento interno: perché Di Maio avrebbe dato il via libera all’abolizione della regola dei 2 mandati (in particolare alle sindache Virginia Raggi e Chiara Appendino), in quale veste. E poi: chi c’è dietro l’estromissione di Casaleggio dagli ultimi movimenti interni al Movimento 5 Stelle? Oltre al non invito agli stati generali dell’economia a Casaleggio ormai ben pochi parlamentari versano i 300 euro mensili per l’Associazione Rousseau. A proposito di soldi: che fine hanno fatto i tagli agli stipendi degli eletti (fatevi un giro sul sito tirendiconto.it per verificare con i vostri occhi) e i famosi mega assegni che Beppe Grillo mostrava (giustamente) soddisfatto con tutte le restituzioni?

E poi: Beppe Grillo? Del Movimento 5 Stelle (a parte quelli comodamente seduti al governo) si sente solo la voce di ritorno di Alessandro Di Battista che ora torna alla carica per riprendersi in mano il Movimento (con posizioni completamente opposte ai suoi compagni di partito sul Mes che “non rispetterebbe gli interessi nazionali”, detto come un Salvini qualunque, e contro Conte che se vuole fare il leader “deve iscriversi al M5S”, come se non sapesse che il progetto di Conte è tutt’altro). Quelli che “uno vale uno” ora vogliono fare un congresso perché uno valga più degli altri, un altro dopo Grillo, dopo Casaleggio e dopo tutti quelli che in realtà valevano di più ma non avevano il fegato di ammetterlo.

Allora facciamo una cosa, cari amici del Movimento 5 Stelle: riconoscete che la maturazione di un movimento in forma-partito è la naturale sequenza delle cose in politica, riconoscete che molta dell’innovazione che avete sventolato è stata perlomeno annacquata (per usare un eufemismo) e mettetevi a fare politica con gli organi democratici che la Costituzione prevede. Semplicemente. Avrebbero dovuto aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e ora sono i tonni pronti a farsi pescare dal nuovo leader all’orizzonte. È normale, accade sempre così. E chissà se qualcuno nel Partito Democratico comincia a capire che questa alleanza (e questo governo) poggia su un Movimento che non è mai stato in movimento com’è adesso.

Buon lunedì.

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In Lombardia i contagi si impennano di nuovo. Ma nessuno ne parla, tantomeno Fontana e Gallera

Che strano animale è questa narrazione tossica del Covid che si adagia sulle diverse fasi, cambia registro ogni volta che bisogna spingere ad aprire tutto prima e chiudere tutto poi. Ora provate a chiudere gli occhi e tornate con la mente al periodo della quarantena nazionale, quando tutti rimasero al guinzaglio del terrore rinchiusi in casa mentre ogni giorno si svolgeva la messa laica della Protezione Civile che snocciolava dati, infetti, decessi e guariti. Immaginate lì, in uno a caso di quei giorni, una Lombardia con un nuovo picco dei contagi che contiene il 66,4% dei nuovi contagiati totali su tutto il territorio nazionale, immaginate di sapere (perché è così) che solo oggi stanno facendo tamponi a persone che si sono ammalate talmente tanto tempo fa che sono già guarite (o morte) e che hanno dovuto affidarsi al proprio buonsenso per non infettare gli altri e per rimanere chiusi in casa senza essere registrati, tracciati e seguiti da nessuna Ats.

Immaginate un sindaco di una città importante come Bergamo, come Giorgio Gori, che scriva quello che ha scritto ieri quando ha dichiarato senza mezzi termini: “Leggo che in Lombardia ieri ci sono stati 32 decessi per Covid. Non si sa però dove, in quale provincia, perché la Regione non comunica più i dati divisi. Da quando abbiamo segnalato che i decessi reali erano molti dpiù di quelli ‘ufficiali’, hanno secretato i dati per provincia” e che “neppure i dati sui guariti vengono più comunicati, e sì che sarebbero importanti per capire che oggi le persone ammalate sono poche” e che “non vengono comunicati neanche i dati dei positivi Covid divisi per singolo comune”.

Tutto questo mentre diverse Procure indagano sulla mancata istituzione della zona rossa tra Alzano e Nembro e sulle troppe morti all’interno delle RSA lombarde. Immaginate quei numeri se fossero serviti per giustificare una chiusura totale e osservateli oggi come vengono bisbigliati per non disturbare l’apertura e l’operosità che non si può fermare: i numeri possono diventare opinioni quando serve. E notate, tanto che ci siete, il silenzio dei virologi, l’attenzione caduta delle trasmissioni televisive e la mancanza dei grandi pareri di opinionisti di ogni sorta. Il virus è finito, hanno deciso così, e per finirlo basta smettere di raccontarlo e fare passare tutto come una semplice naturale lunga coda. I morti di questi giorni sono morti accidentali, i contagiati sono laterali. Stiamo a posto così. Che strano animale è questa narrazione tossica del Covid che riesce sempre a essere perfetta per il duo Fontana e Gallera.

L’inchiesta di TPI sulla mancata chiusura della Val Seriana per punti:

L’articolo proviene da TPI.it qui

“Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego

Igiaba Scego è una scrittrice di origini somale che vive a Roma. Da sempre si occupa di stranieri, di integrazione e di diritti. Il suo ultimo libro è “La linea del colore” edito da Bompiani che ha come protagonista una donna afroamericana dell’ottocento che scopre l’Italia. L’abbiamo intervistata per TPI.

Negli USA è in atto una vera e propria rivoluzione culturale. Lei si occupa da anni di questi temi, come vede la narrazione di ciò che accade?
Due tipi di narrazione. Quella dei media mainstream che non hanno capito niente di quello che sta succedendo: stanno osservando questi movimenti con delle lenti molto vecchie e anche sbagliate. Quando mi tolgo gli occhiali io che sono miope vedo tutto sfocato e molti media mi hanno dato questa stessa sensazione, tranne alcune eccezioni come la giornalista de Il Manifesto Marina Catucci, veramente puntuale, Arianna Farinelli, Martino Mazzonis. Questo mi ha meravigliato perché l’immaginario statunitense è molto popolare, si pensa “almeno li conosciamo” e invece no. Noto la stessa nebulosità che scorgo quando si parla di Africa. Poi per fortuna c’è quella che arriva da giornali e esperti in lingua originale. E devo dire che è quello che mi ha aiutato ad orientarmi. Per esempio non mi perdo mai i commenti della professoressa Ruth Ben Ghiat che da anni ci spiega i meccanismi dello stato americano.

Quale distorsione nota più delle altre?
Questo parlare di saccheggi piuttosto che parlare del cuore del movimento. Molti giornali non hanno raccontato ai lettori cosa c’era prima, quei 400 anni di oppressione. Mancano ponti tra qui e lì. Io sono scrittrice e la stessa cosa la vedo nell’editoria: l’editoria italiana ha pubblicato negli ultimi anni moltissimi afroamericani ma non c’è stato quel passaggio necessario da editoria ai giornali e media in genere che aprisse un sano dibattito su questi libri e permettesse una loro diffusione anche scolastica.

Quindi si è perso ciò che è avvenuto negli anni precedenti, non ci sono stati ambasciatori e ponti. Si arriva così a non capire perché questa lotta è così lunga, non si riflette sulla genesi della schiavitù, questo è un grosso gap scolastico che non ha permesso a molti italiani di capire fenomeni come schiavitù, segregazioni negli USA e perfino lotte per i diritti civili. Pochi hanno letto Toni Morrison, anche tra i professionisti dell’informazione. E quindi mi ha colpito questo indugiare su aspetti marginali senza andare al cuore del problema. Manca una preparazione all’America, io ho visto “molta ignoranza”. Molto non sapere. Quello che si conosce è solo superficiale.

Negli USA il dibattito si è aperto non solo sulla violenza che ha portato per ultimo alla morte di Floyd, ma anche sulla profilazione razziale delle Forze dell’Ordine. C’è un razzismo insito anche nella gestione italiana secondo lei?
Sulla polizia non saprei dirti. Posso dirti che loro, negli USA, hanno questa storia di schiavitù ma da loro anche chi è contro i neri sa cosa è successo mentre in Italia quello che c’è dietro di noi, come il colonialismo, non è molto conosciuto, c’è una rimozione totale e non ci fa capire che quegli stereotipi continuano a agire sui corpi del presente. A me ha sempre colpito come per esempio le leggi italiane sull’immigrazione si basino quasi sempre su un modello astratto, su questo cosidetto altro che non è un potenziale cittadino ma un potenziale suddito coloniale, il modello è quello del sudditto somalo, eritreo o libico dei tempi del colonialismo italiano. si continua cos’ a perpetuare l’idea dello straniero nella legislazione come suddito, una persona senza diritti.

Non è un caso che la Bossi-Fini e i Decreti Sicurezza più la mancata riforma sulla cittadinanza siano delle costanti nella politica italiana, perché vale lo ius sanguinis e non lo ius soli o lo ius culturae, un Paese trincerato nel suo sangue che poi se lo andiamo a “analizzare” storicamente questo famigerato sangue risulta essere è quello più meticcio del mondo. Questo mi sconvolge, questa storia passata mai discussa che si ripresenta in forma di legge e ci incasina il presente, il modello è ancora quello coloniale sarebbe interessantissimo che i giuristi ci lavorassero su questo, su come decolonizzare le leggi perché sono troppo pieni di passato.

Vede dei casi di razzismo endemici in Italia, anche da parte di quelli che non sono consapevolmente razzisti?
Il razzismo in Italia non è solo anti nero ma è anche anti meridionale. Ad esempio due ore fa stavo andando al supermercato, dove due persone stavano litigando e un signore ha detto a una signora “sporca calabrese”. Qui c’è una questione meridionale che è la mamma di tutti i razzismi italiani, quello che è stato fatto al Sud è lo stesso trattamento riservato alle colonie. Quando avevo 25 anni avevo fatto un colloquio di lavoro vestita come sono sempre vestita e la persona che avevo davanti mi ha detto “lei è musulmana, si vede” io gli ho detto “deve farmi colloquio di lavoro” e lui “ma voi volete pause di preghiera e ramadan”: sono uscita e ho pianto, è un razzismo altrettanto umiliante. Ho smesso perché ai tempi mi vedevano e mi dicevano sempre no. Lo vedi dallo sguardo e poi c’è stato tanto razzismo biologico, dalle elementari mi chiamavano sporca negra e mi hanno buttato un barattolo di coleotteri in testa “perché sono neri come te”. Oppure odiavo negli anni ’90, ero ancora adolescente, quando si fermavano le macchine mentre stavo alla fermata ad aspettare il bus e ti facevano vedere i soldi chiedendo sesso orale, perché nera significava prostituta.

Io ho imparato a schivarli anche. Ho imparato a reagire. Mia madre dice che il razzismo non lo combatti urlando, ma lo combatti con la riflessione e la conoscenza anche quando sei nel mezzo del disastro, lei mi ha sempre detto di uscirne con una frase arguta, è l’unico modo. Mia madre, James Baldwin e Malcom X sono stati i miei maestri nell’usare la riflessione, le parole, per questo scrivo. Volevo capire come mai mi succedevano una serie di cose e volevo capire qual era la radice, sempre storica. In tutto questo ho trovato molti alleati, penso alla mia professoressa di italiano alle superiori, ai professori universitari che mi hanno dato strumenti che mi hanno cambiato la prospettiva. Sandro Portelli mi ha insegnato molte cose della vita, con l’Italia che ha tutte l sue complicazioni. Ho applicato la strumentazione che loro hanno applicato alla loro lotta e alla loro riflessione teorica.

Come le sembra il dibattito politico italiano sul tema?
Qui non c’è dibattito. Qui il dibattito è finito con il tradimento sulla legge sulla cittadinanza. Poi si è riesumato un discorso sulle regolarizzazioni molto mercantile. Io ho questa sensazione di tante lotte fatte anche collettive: afrodiscendenti, albanesi, arabi, sudamericani, i loro figli nati qui italiani senza diritti e poi anche moltissimi italiani bianchi… Ecco tutti noi ci siamo ritrovati dal 2005 fino al governo Renzi a lottare in piazza, cambiavano le piazze, c’erano tanti bambini e tecnicamente con le scuole abbiamo lavorato moltissimo (penso a due scuole di Roma in particolare la Pisacane e la Di Donato i cui professori si sono spesi tantissimo per far avere diritti ai loro studenti) , però poi questa lotta è stata tradita da tutto l’arco costituzionale: la destra ha fatto ostruzionismo ma gli altri l’hanno reso possibile ed è una cicatrice che mi fa molto male.

Poi c’è stata la raccolta firme dei Radicali e quella era una buona iniziativa ma poi a causa degli eventi caduta nel vuoto e adesso il dibattito è stato sulle regolarizzazioni perché servivano braccia per l’ortofrutta e basta. Queste persone cadono in irregolarità per un meccanismo della Bossi-Fini, sono ricattabili in situazione di pandemia, dovremmo avere più persone regolari possibili ma così è stato un mercato degli schiavi. Io capisco gli sforzi di chi ha chiesto la regolarizzazione ma il risultato è stato misero. Servirebbe più coraggio: l’Italia non può pensare che sia un tema possibile da scacciare in eterno, il Paese è già cambiato, io alla manifestazione per George Floyd a Roma ero con i miei 46 anni vecchia in confronto a chi è sceso in piazza. Tu vedi che hai seconde e terze generazioni, più di 50 anni di popolazione transculturale che ha varie origini. Ma ancora tutto questo non si trasforma in quotidianità. E come se ci fossero enormi barriere. Così non vedi maestri, autisti dell’autobus, professori con altra origine: alcuni luoghi del lavoro non sono al passo con i tempi. Anche nell’editoria.

Lei è fiduciosa che la lezione che arriva dagli USA possa avere un impatto importante anche qui?
Secondo me quella americana è una grande rivoluzione culturale perché gli afrodiscendenti sono legati tra loro, è una rete, per noi sono un modello e quello che sta succedendo negli Usa è clamoroso, è una rivoluzione culturale, non è solo rabbia per Floyd ma è un momento che è stato preparato negli ultimi 20 anni. Da loro la cultura è sempre stata forte, nella musica nella letteratura, i premi Pulitzer quest’anno molti erano neri e penso al disco di Beyoncè di alcuni anni fa tutto sull’identità nera. Questo forse spingerà pure noi qui ad avere una riflessione più ampia e profonda, probabilmente ci spingerà a produrre più libri, più musica, più film, più lotte sociali e non solo afrodiscendenti, perché l’Italia ha una migrazione a mosaico, complessa, fatta di tante diversità che vanno dall’Est Europa al Sudamerica.

Già vedo dei talenti per esempio del giornalismo come Angelo Boccato e Adil Mauro che non parlano solo di immigrazione o della loro identità, ma usano il loro sguardo per riflettere sui nodi della società. Adil e Angelo mi fanno ben sperare per il futuro. Ma ecco tutto deve partire da una riflessione anche storica che attraversa il dolore che abbiamo provato, In Italia nel 1979 un uomo somalo, Ahmed Ali Giama, in piazza della Pace a Roma è stato bruciato viva e Giacomo Valent nel 1985 è stato ucciso con 63 coltellate, era il fratello della prima eurodeputata nera Dacia Valent, ho scritto per Feltrinelli su questo (“Politica della violenza”, Feltrinelli Editore). In Brasile c’è stata Marielle Franco e ognuno sta producendo cultura e rivendicazioni partendo dalle proprie ferite, dai propri martiri e chiaramente questo momento rimarrà a lungo e potrà provocare cambiamenti perché i cambiamenti sono sempre prima culturali e poi sociali.

Leggi anche: 1. Quanti contagi possono causare le proteste in Usa? Un virologo ha provato a calcolarlo / 2. Si sposano in mezzo alla protesta per George Floyd a Philadelphia: “È stato ancora più memorabile” /3.  George Floyd, Minneapolis smantella il dipartimento di polizia: “Vogliamo un nuovo modello di sicurezza” /4. Banksy e l’omaggio a George Floyd: “Il razzismo è un problema dei bianchi”

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Bibbia in mano, mascherina abbassata: quei simboli branditi per coprire il vuoto politico

È un neo-simbolismo furioso e coprente, solo che copre il vuoto, copre il niente che c’è sotto e tutta una serie di commentatori finiscono per analizzare il cerotto dimenticandosi che sotto c’è il nulla. È un neo-simbolismo che attraversa la politica internazionale e si appiattisce sulla comunicazione veloce che è solo un vomito di spot (e no, non è colpa dei social, lancerebbero le loro tiritere anche solo nei dieci secondi montati in qualche tg nazionale, allo stesso modo) e che ha bisogno di rendersi riconoscibile. Qualcuno dice “indossate le mascherine” e loro non indossano le mascherine, qualcuno protesta dall’altra parte del mondo per un razzismo cancellato solo sulla carta e Trump risponde con i poliziotti a cavallo e la Bibbia in mano, qualcuno lamenta le morti nere in mare (che chissà perché valgono meno dei morti sotto le ginocchia) e qualcuno risponde sferragliando il rosario, alcuni dettano una regola e altri violano le regole rivendicando la violazione come eroico dissentimento.

Da Salvini con la mascherina abbassata a Bolsonaro che si assembra fino a Trump che invoca i proiettili, la politica di questi giorni è tutta una lava di gesti brevi e di metafore belliche che non rispondono a una che sia una delle questioni che sono sul tavolo. Trump risponde alla violenza invocando ancora più violenza e poi lamentandosi della violenza degli altri: rispondere a una questione complessa con uno spot di qualche parola è più da incapaci che irresponsabili. I Gilet Arancioni invocano un complotto mondiale ordito per mettere in scena una finta pandemia ma non si capisce chi ci stia guadagnato e che cosa: a domanda non rispondono, sono i soliti poteri forti. Bolsonaro in Brasile ci avvisa che tanto “moriremo tutti” prima o poi: mo’ me lo segno, grazie per l’illuminante rivelazione.

Dovunque si gratti non ci sono mai soluzioni, una che sia una. Esistono solo per contrapporsi senza nemmeno sentirsi in dovere di proporre un’alternativa. Chiedete a Trump, Salvini o Bolsonaro quale sia la via per vincere: l’eliminazione degli avversari. Solo quello, solo così, come dei ragazzini che giocano a battaglia navale sul tavolo della cucina. Vivono solo di riflesso dei loro nemici, se glieli togli balbetterebbero per ore di riforme che li mostrerebbe per quelli che sono: muri, condoni, preghiere mimate, sostegno ai più forti, calpestamento dei più deboli. Modelli economici impraticabili e culto di se stessi. Sono il niente mischiato con niente che usa i simboli per nascondere le proprie pudenda.

Leggi anche: 1. Per la Festa della Repubblica in piazza ci vanno i nemici della Repubblica (di Marco Revelli) / 2. Roma, gilet arancioni in piazza del Popolo senza protezioni. Pappalardo: “Abbracciatevi!”. Troupe di La7 aggredita in diretta 

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Fiano su Salvini: “Ha bloccato per giorni persone su una nave, quale sarebbe l’interesse pubblico?”


Intervista al parlamentare del Partito Democratico Emanuele Fiano sulla strategia di Matteo Salvini per evitare il processo sul caso Diciotti: “Non c’è possibilità per me che il blocco di una nave e delle persone su quella nave (vorrei ricordare che io su quella nave ci sono stato e ho visto le facce terrorizzate delle ragazze stuprate) possa avere un interesse pubblico e costituzionale”
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