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Ingiusti perfino nel vaccino

Nove persone su dieci non riusciranno a vaccinarsi entro il prossimo anno contro il Covid-19 in almeno 67 Paesi a basso reddito, denuncia People’s vaccine alliance

Ne dovevamo uscire migliori ne usciremo probabilmente vaccinati. Noi. Noi saremo vaccinati perché il caso ha voluto che nascessimo in quella parte di mondo che se lo può permettere, eppure proprio durante la pandemia (che è stata e che continua a essere globale) abbiamo scritto, ascoltato e discusso centinaia di volte sull’esigenza di garantire una copertura vaccinale che fosse solidale e non seguisse solo secondo le logiche di mercato. I dati, per ora, dicono tutt’altro.

I numeri ce li dà People’s vaccine alliance, l’organizzazione formata da Amnesty international, Frontline aids, Global justice now e Oxfam: secondo le loro stime nove persone su dieci non riusciranno a vaccinarsi entro il prossimo anno contro il Covid-19 in almeno 67 Paesi a basso reddito.

Il ruolo del razziatore, manco a dirlo, spetta ovviamente all’Occidente che è riuscito ad accaparrarsi in tempo tutte le dosi che servono. I Paesi ricchi con appena il 14% della popolazione mondiale si sono già assicurati il 53% dei vaccini più promettenti: il Canada addirittura è riuscito a ottenere dosi in tale quantità da poter vaccinare ogni cittadino cinque volte, mentre l’Unione europea 2,3 volte.

Ben 67 Paesi a reddito medio-basso e basso rischiano di essere lasciati indietro sebbene 5 – Kenya, Myanmar, Nigeria, Pakistan e Ucraina – abbiano registrato quasi 1,5 milioni di contagi. «A nessuno dovrebbe essere impedito di ottenere un vaccino salvavita a causa del Paese in cui vive o della quantità di denaro che possiede», dice Sara Albiani di Oxfam Italia: «Senza un’inversione di marcia, miliardi di persone in tutto il mondo non riceveranno un vaccino sicuro ed efficace contro il Covid-19 negli anni a venire».

E a proposito di vaccini ha ragione Heidi Chow, di Global Justice Now quando dice che «tutte le case farmaceutiche e gli istituti di ricerca che stanno lavorando allo sviluppo di un vaccino devono condividere i dati, il know-how tecnologico e i diritti di proprietà intellettuale in modo che sia prodotto un numero sufficiente di dosi sicure ed efficaci per tutti. I governi devono anche garantire che l’industria farmaceutica anteponga la vita delle persone al profitto».

Non è una questione da poco: sull’equità della distribuzione del vaccino si gioca la credibilità mondiale e lo spirito di solidarietà mondiale. Quello che qualcuno diceva che sarebbe arrivato e invece, non è una sorpresa, non c’è. Oppure quello che gli altri dicono che non sia importante, sempre per quella vecchia storia di essere nati dalla parte giusta del mondo.

Notate: un argomento così enorme viene discusso pochissimo, proprio nel momento in cui tutti discutono delle loro piccole facezie. Tutto così gretto, tutto così basso, tutto così ingiusto.

Buon giovedì.

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Ne usciremo privati

Nel bel mezzo della seconda ondata della pandemia, nella discussione sul Natale,  di chi come il presidente della Liguria Toti ci dice di «chiudere le scuole e aprire le piste da sci», sempre schiacciati tra profitto e salute, tra incassi e malattie, avvicinandosi a queste feste che servono per le ore giuste per riempire i carrelli, in mezzo a tutto questo c’è la prossima legge di bilancio.

Ed è qualcosa che quest’anno conta ancora di più perché dentro la legge di bilancio c’è l’idea di Paese che si vuole disegnare, c’è la lista delle priorità e la visione del mondo. E allora mettiamoci le mani dentro questa legge di bilancio che si prepara ad arrivare in Parlamento. Ecco l’articolo 89 comma 3 e l’articolo 93:

ART. 89.3. Per l’anno 2021, i contributi di cui all’articolo 2 della legge 29 luglio 1991, n. 243, sono incrementati di 30 milioni di euro.

ART. 93. (Trattamento di previdenza dei docenti di Università private) 1. Ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui al comma 1 dell’articolo 4 della legge 29 luglio 1991, n. 243, per i professori e ricercatori delle Università non statali legalmente riconosciute, a decorrere dall’1 gennaio 2021, l’aliquota contributiva di finanziamento del trattamento di quiescenza è pari a quella in vigore, e con i medesimi criteri di ripartizione, per le stesse categorie di personale in servizio presso le Università statali. Restano acquisite alla gestione di riferimento e conservano la loro efficacia le contribuzioni versate per i periodi anteriori alla data di entrata in vigore della presente legge. Ai maggiori oneri derivanti dal differenziale tra l’aliquota contributiva e l’aliquota di computo relativa ai trattamenti di quiescenza con riferimento al periodo 2016-2020 pari a euro 53.926.054 per l’anno 2021, si provvede mediante apposito trasferimento dal bilancio dello Stato all’ente previdenziale.

I contributi alle università private (private!) vengono aumentati di 30 milioni di euro arrivando quindi a 98 milioni di euro. A livello percentuale si tratta di un incremento del 44%. Non male se si pensa a come sono ridotte le università pubbliche (e la pandemia ce lo sta raccontando). Uno potrebbe immaginare che lo stesso incremento percentuale arrivi alle università pubbliche e invece no, niente. Anche perché sarebbe un aumento di 3,4 miliardi per il prossimo anno. Quindi niente da fare. Nell’articolo 93 invece si dice che la maggioranza vuole dare il suo contributo per pagare i trattamenti di previdenza dei professori delle università private con un trasferimento all’Inps di 54 milioni di euro.

Ne dovevamo uscire migliori. Vediamo di non uscirne privati.

Buon lunedì.

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Parliamo di povertà?

Mi scrive uno sfogo densissimo Filippo. Filippo è uno di quelli con le mani dentro la povertà, ce ne sono tanti nel nostro Paese, anche se ce ne dimentichiamo spesso. È un membro anomalo in un ente religioso: di sinistra, ateo, sbattezzato. Con le mani, per lavoro, dentro gli angusti dolori di chi è stato sopraffatto dalla pandemia. Ma sopraffatto vero, senza la preoccupazione di dove andare a sciare il prossimo Natale.

“Bene, ora, da qualche mese a questa parte, mi trovo quotidianamente a conoscere e a confrontarmi con persone, con famiglie per lo più composte da giovani genitori e bambini poco più che neonati, che, trattenendo le lacrime, si sono trovate, senza capire come, nella condizione di dover chiedere aiuto a me, a noi, ai professionisti e ai volontari di organizzazioni caritatevoli.
Dov’è oggi lo Stato Sociale? La povertà non era stata abolita? Come può pensare uno Stato di essere sulla strada giusta se i suoi cittadini devono dipendere da queste associazioni e non possono fidarsi degli organi pubblici predisposti? È normale che in Italia, in una piccola Provincia piemontese, oggi sia stato fondamentale l’intervento economico di due enti caritatevoli per permettere a due famiglie di riavere luce e gas? E’ normale che vengano spesi 38.000 € (giuro, 38.000 €) per le luminarie natalizie quando la luce ogni giorno viene a mancare nelle case dei cittadini?
Sui giornali, nei tg, in radio, leggo e sento solamente discussioni su quanto sia importante andare a ballare o a sciare, ma le urla e le lacrime disperate di chi non riesce a pagare affitti, bollette per luce o gas non meritano lo stesso interesse dei capricci del Briatore di turno?
“Quando torneremo alla normalità vi restituirò tutto”, è questa la frase che oggi mi sono sentito ripetere più e più volte da persone che rivolgevano lo sguardo a terra, che si vergognavano di essere li, di aver deluso i canoni di questa società fondata sul successo personale, sui beni materiali. Ma io, noi, non vogliamo niente in cambio, tutto quello che facciamo, dalla distribuzione di alimenti, al pagamento di utenze, alla ricerca di offerte di lavoro, lo facciamo perché crediamo nell’umanità (un grazie a quella parte di umanità che sostiene i nostri progetti).
Da un lato aiutare queste persone, sentirmi dire “grazie, senza di voi non so come avrei fatto” mi fa sentire bene, mi da una carica oserei dire “rivoluzionaria”, ma solo per pochi istanti, subito dopo subentra la Disperanza, una sensazione di rabbia mista a impotenza che ti fa venir voglia di mollare tutto, che ti fa sentire piccolo, impotente di fronte a un mostro imbattibile e fa percepire come inutili tutti i tuoi sforzi per garantire un’esistenza dignitosa a chi da questo sistema viene sacrificato.
È normale che uno Stato non sia in grado di garantire uno stile di vita dignitoso ai suoi cittadini? È normale che uno Stato debba dipendere da associazioni caritatevoli per sopperire alle sue mancanze e che non se ne interessi minimamente a livello centrale? Quale è stato il preciso momento in cui il mio Paese, quel Paese per il quale mia nonna ha sacrificato la sua gioventù lottando per un ideale di giustizia e equità, per il quale io mi sono messo in gioco difendendo le cause degli ultimi, dei più deboli, ha abbandonato il suo popolo?
Dopo una giornata emotivamente devastante, dopo essermi trovato di fronte a ragazzi miei coetanei, che spensierati sgargarozzavano birre guardando le partite con me nei bar fino a poco tempo fa e che ora non dormono la notte, tormentati da quella maledetta sensazione, quella maledetta ansia che folgora cuore e stomaco e annebbia la ragione causata dal sentirsi inadeguati, dal convincersi di aver fallito e di non essere degni dei proprio genitori, dei propri figli per non riuscire a garantirgli un’infanzia spensierata come quella da noi vissuta, l’amministrazione comunale cosa fa? Si vanta di aver vinto una causa in tribunale che gli permette lo sgombero di un campo Rom…9 persone, 2 bambini, a fine novembre, in mezzo a una strada. Tanto “qualcun altro” ci penserà….”

Quando torniamo seriamente a parlare di povertà?

Buon giovedì.

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L’audizione di Renzi getta nuove ombre sul caso Regeni: quando fu informato il governo italiano?

È successo qualcosa di importante nell’audizione di Matteo Renzi, nella veste di ex Presidente del Consiglio, di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, ritrovato senza vita il 3 febbraio 2016 in Egitto. Secondo quanto dichiarato da Renzi la morte del ricercatore friulano gli sarebbe stata comunicata il 31 gennaio, ben 6 giorni dopo la scomparsa. Ha detto Renzi: “Noi abbiamo reagito mettendo in campo tutti gli strumenti – ha detto – Abbiamo lavorato tutti insieme a livello istituzionale come una squadra. Sì, abbiamo rimpianti. Io ho pensato ‘perché abbiamo saputo questa notizia solo il 31 gennaio?’ Se avessimo saputo prima avremmo potuto agire prima”.

Peccato che l’allora ambasciatore italiano in Egitto Maurizio Massari avesse dichiarato alla stessa Commissione che l’ambasciata italiana venne informata dal professore che Regeni avrebbe dovuto incontrare, Gennaro Gervasio, il 25 gennaio alle 23.30. E a sottolineare l’incongruenza c’è anche un comunicato del Ministero degli Esteri che “precisa che le Istituzioni governative italiane e i nostri servizi di sicurezza furono informati sin dalle prime ore successive alla scomparsa di Giulio, il 25 gennaio 2016”. Non è una cosa da poco: attivarsi sin dalle prime ore della sparizione di Regeni avrebbe sicuramente permesso un intervento più tempestivo, come ammette lo stesso senatore di Italia Viva, e forse avrebbe permesso un più facile accertamento della verità.

Smentito dalla Farnesina Renzi ha voluto controbattere con una nota del suo ufficio stampa: “nel corso dell’audizione di questa mattina il senatore Renzi ha espressamente richiamato la relazione del ministro Gentiloni e del Segretario Generale Belloni come parte integrante della sua esposizione. Che la Farnesina fosse informata dal 25 gennaio alle 23.30 è vero per esplicita dichiarazione lasciata a verbale dall’Ambasciatore Massari”. Quindi secondo Renzi la Farnesina sapeva ma non aveva informato il Presidente del Consiglio. Ma è possibile che il capo del Governo non sappia che un suo concittadino all’estero risulta irreperibile?

Ma i dubbi non sono finiti: il 27 e il 30 gennaio l’intelligence italiana ha incontrato gli omologhi egiziani, che avevano già avvisato l’ambasciatore italiano della scomparsa di Regeni. È possibile che in quelle due riunioni non si sia affrontato l’argomento? Ed è pensabile che i servizi italiani (che fanno riferimento al Presidente del Consiglio) non abbiano avuto occasione di aggiornare Renzi sulla scomparsa di un giovane italiano? Tutti dubbi che hanno bisogno di essere chiariti in fretta perché nella storia di Giulio Regeni (e delle responsabilità della politica egiziana) non possiamo permetterci di avere ombre anche sulle istituzioni italiane. La morte di Giulio Regeni non merita altre macchie. Davvero, no.

Leggi anche: Regeni, la procura di Roma è pronta al processo agli 007 egiziani. Ma il governo italiano teme al-Sisi

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A proposito di fiducia e di vaccini

Vale la pena di leggere le parole del professor Andrea Crisanti sui «dati di efficacia e di sicurezza» da mettere a disposizione della comunità scientifica

C’è, com’è normale che sia, un gran chiasso intorno ai vaccini anti Covid che stanno arrivando nei prossimi mesi in giro per il mondo. Nel numero di Left in edicola ne parliamo approfonditamente e proviamo a analizzare la situazione uscendo dagli steccati degli annunci e dei complotti (a proposito, è l’occasione buona per regalarsi e regalare un abbonamento, qui) e siamo in quel momento in cui i complottisti e i tifosi tireranno le bombe per minare la credibilità di ciò che accade. Un film già visto.

Nei giorni scorsi si è fatto molto chiasso su una presunta dichiarazione di Crisanti che avrebbe dichiarato di non volersi vaccinare subito, appena disponibile il vaccino, ma di preferire aspettare qualche tempo per esserne sicuro. Ammetto di essere rimasto piuttosto stupito della leggerezza della comunicazione (del resto si pone il solito tema dei medici che spesso hanno più di qualche falla come divulgatori) ma proprio ieri Crisanti ha voluto tornare sul tema e ha scritto parole che vale la pena leggere. In una sua lettera al Corriere della Sera puntualizza di volere «i dati di efficacia e di sicurezza» vengano «messi a disposizione della comunità scientifica» e «delle autorità che ne regolano la distribuzione». Crisanti fa notare, in effetti, le modalità di annuncio delle case di produzione che si sono concentrate sui proclami senza occuparsi «di condividere i dati con la comunità scientifica». «Se le aziende in questione – scrive Crisanti – sono in possesso di informazioni che giustificano annunci che possono apparire rivolti in particolare ai mercati finanziari, queste devono essere rese pubbliche anche in considerazione del fatto che la ricerca è stata finanziata con quattrini dei contribuenti»·

La credibilità e la fiducia è qualcosa che si costruisce operando con trasparenza. Sempre. In tutti i campi. Il fatto che si aspetti (giustamente) un vaccino come un popolo assetato aspetta la pioggia non può essere l’unica spinta per proporlo. E sui dati che devono essere pubblici si discute da mesi anche per quello che riguarda i contagi e le modalità del contagio, che ogni regione gestisce un po’ come gli pare. Su un tema come questo si dovrebbe limitare il più possibile la richiesta di atti di fiducia (e talvolta di fede) e giocare a carte scoperte. Sarebbe la risposta migliore e più solida contro negazionisti e altre corbellerie varie. È un filo sottile, la fiducia.

Buon martedì.

Per approfondire, Left del 20-26 novembre 2020

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La vergogna del San Raffaele di Milano: con centinaia di morti al giorno sminuisce la pandemia

Accadono cose di cui sfugge il senso, di cui non si coglie il nesso e che raccontano perfettamente la guerra tra uomini di scienza che si gioca sui metodi di narrazione piuttosto che sui dati scientifici. Sarebbe poco male, una battaglia interna che sicuramente poco appassiona se non fosse che da mesi, sotto questi duelli tra virologi e professionisti, ci sta un Paese che inevitabilmente costruisce le proprie tesi e le proprie paure proprio sulle parole di quelli che improvvisamente sono diventati divulgatori scientifici. E la divulgazione scientifica è una cosa sera, terribilmente seria, importante quasi quanto un nuovo vaccino o una nuova cura.

Per questo sarebbe curioso chiedere a qualcuno del Gruppo San Donato e dell’università Vita-Salute San Raffaele il senso del loro comunicato stampa in cui prendono le distanze da un tweet del medico Roberto Burioni, che sembra non dire nulla di particolare. Partiamo dall’inizio. Burioni twitta: “Alcuni dicono che i pronto soccorso sono affollati da persone in preda al panico, e può essere vero. Ma quelle centinaia di persone che finiscono ogni giorno al cimitero a causa di Covid-19, sono spinte dal panico? Basta bugie. Basta bugie. Basta Bugie”.

L’intento appare perfino scontato: mentre abbiamo passato mesi a sentire esimi virologi che ci dicevano che il virus fosse “clinicamente morto” oppure che fosse una semplice influenza (in capo a tutti proprio quel professor Zangrillo del San Raffaele di Milano per cui Burioni lavora) forse sarebbe il caso di rendersi conto che la sottovalutazione del virus (e la conseguente morbidezza sull’attenzione che occorre tenere per non fomentare l’epidemia) è un rischio reale e enorme.

Il Gruppo San Donato risponde con un comunicato in cui dice: “Pur riconoscendo l’autonomia di espressione, il Gruppo San Donato e l’università Vita-Salute San Raffaele lo invitano a considerazioni più rispettose della verità e del lavoro altrui”. Ora: i Pronto Soccorso sono affollati, lo dicono i numeri e basta una veloce ricerca su internet per valutare il livello di stress. Si affollano anche i ricoveri ordinari e straordinari. Si incrementa, purtroppo, anche il numero dei decessi quotidiani.

Quindi quali sarebbero le “considerazioni” poco “rispettose della verità” esattamente? Qual è il punto che ha fatto saltare i nervi all’azienda tanto da costringerli a prendere carta e penna? Non è una domanda da poco perché un cittadino qualsiasi, un osservatore esterno, rimane incastrato proprio su questo punto. E sarebbe importante saperlo, no?

Leggi anche: Il San Raffaele smentisce Burioni che dice che ogni giorno ci sono centinaia di morti: “Considerazioni infondate, non conosce situazione”

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Elly Schlein a TPI: “Io segretario Pd? Sto bene dove sto. Sui migranti troppe ambiguità, ci vuole più coraggio”

Vicepresidente della Regione Emilia Romagna ed ex europarlamentare, Elly Schlein fondato le liste “Coraggiosa” hanno corso alle ultime elezioni amministrative con buoni risultati. TPI l’ha intervistata su Ue, politiche migratorie e futuro del governo.
L’Europa dice “superiamo gli accordi di Dublino” e poi esce con questa solidarietà invertita tra stati del Migration Pact. Che ne pensi?
È un errore strategico perché, al di là della dichiarazione del volere abolire il regolamento di Dublino, non risolve il nodo fondamentale che solo la riforma approvata dal parlamento nel 2017 risolveva: cioè un ricollocamento automatico per condividere equamente tra gli stati la responsabilità sull’esame delle richieste di asilo, valorizzando i legami delle persone. Quello è il tema. Mi sembra un piano deludente perché in questo modo mette da parte il lavoro fatto dal parlamento e approvato dalla maggioranza e che poteva essere utilizzato anche per convincere i governi dentro al consiglio a votare, anche a maggioranza qualificata. E invece ripropone l’idea molto vecchia della solidarietà flessibile. Un’operazione culturalmente molto pericolosa è mettere sullo stesso piano i ricollocamenti (e quindi la condivisione dell’accoglienza) e la sponsorizzazione dei rimpatri. Mi sembra che lasci le mani libere a quei governi che si sono dimostrati molto interessati alla solidarietà europea quando vuol dire fondi strutturali e assolutamente indisponibili quando si tratta di un’altra forma di responsabilità europea che è quella che già i trattati chiedono sull’asilo e sull’accoglienza. Mi sembra anche un errore strategico perché anziché farsi forte di una posizione già approvata dal parlamento si riparte da zero con una proposta che non risolve il tema della solidarietà obbligatoria.

L’Europa dice che è solidarietà obbligatoria perché comunque devi dare un contributo…
Cosa sceglieranno i paesi del blocco di Visegrad tra i ricollocamenti e tra il dare un po’ di soldi per fare i rimpatri o dare altro supporto operativo? C’è poi un’altra preoccupazione che sono le procedure accelerate alle frontiere che sembrerebbero aumentare il carico di lavoro ai paesi di confine come l’Italia e soprattutto non si capisce basate su cosa. La convenzione di Ginevra chiede un pieno esame individuale delle domande d’asilo e se tu fai una procedura accelerata – magari basata sul concetto molto discrezionale di paese terzo sicuro – rischi di costituire un filtro d’ingresso che nega il permesso di asilo a seconda del paese da cui provieni. Non mi sembra un passo avanti. Mi sembra un passo indietro. Perfino la commissione Junker, anche se con soglie altissime, faceva scattare un obbligo di ricollocamento per tutti i paesi europei. Al governo italiano spetta un difficile negoziato in cui trovare alleati sui ricollocamenti obbligatori.

In Italia qualche giorno fa hanno bloccato la Mare Jonio ed è la sesta nave ferma in porto per questioni burocratiche anche piuttosto discutibili. I decreti sicurezza rimangono sempre lì e Lamorgese ha parlato di possibili profili penali per le Ong. Come siamo messi qui da noi a criminalizzazione della solidarietà?
Evidentemente male. Mi sembra che ci sia ancora troppa ambiguità in relazione all’obbligo di ricerca e soccorso in mare e non mi sembra che si sia risolto il tema facendo la guerra a coloro che cercano di sopperire alle mancanze istituzionali. Non si sta discutendo di rimettere in mare un’operazione di ricerca e soccorso istituzionale come è stata Mare Nostrum, no, e a fronte di questo a maggior ragione è sbagliato criminalizzare chi si sta occupando di salvare vite in mare che è un obbligo giuridico e morale. Male.

Troppe ambiguità anche da parte di questa maggioranza. Spero possa risolverla in modo diverso anche con la modifica di questi decreti sicurezza che davvero stiamo aspettando da troppo tempo. Era il primo segnale necessario di discontinuità del governo Conte e ne stiamo parlando ancora dopo un anno. È importante che arrivi in fretta e che corregga non solo la criminalizzazione delle Ong ma anche gli altri profili gravissimi come quello che tendeva a smantellare l’unico sistema di buona accoglienza che è quello diffuso, che rifiuta la grande concentrazione di persone dove spariscono i diritti e spesso si infila l’ interesse economico, quello che privilegia le piccole soluzioni abitative distribuite sul territorio con adeguati servizi di inserimento nella società e con adeguati controlli da parte delle amministrazioni locali e con trasparenza sull’utilizzo dei fondi. Chi ha scritto i decreti sicurezza privilegiando le grandi concentrazioni rispetto all’accoglienza diffusa è proprio chi vorrebbe fare dell’accoglienza un business, calpestando i diritti. Con un po’ di coraggio in più questa maggioranza dovrebbe riscrivere complessivamente le leggi sull’immigrazione rimediando ai disastri delle destre che hanno prodotto irregolarità e ingiustizia, non certo inclusione e sicurezza per le comunità.

Molti ti vorrebbero segretaria del Pd ma le tue liste “Coraggiosa” hanno corso alle amministrative ottenendo ottimi risultati. Hai intenzione di continuare su questa linea o pensi che si possa pensare a un partito di centrosinistra che tenga insieme tutto?
Noi stiamo bene dove stiamo. Anzi, in una tornata che ha segnato dei risultati importanti ma non brillanti per le forze progressiste e la sinistra siamo rimasti positivamente sorpresi che le liste di coraggiosa abbiano avuto una crescita significativa. a Faenza abbiamo fatto il 7,22 per cento, a Vignola abbiamo avuto una crescita del 145 per cento rispetto alle regionali di 8 mesi fa. A Imola è andata bene, siamo cresciuti al 5 per cento. Quindi in una tornata in cui il centrosinistra si è difeso bene ma non c’è stata una crescita in valori assoluti, “Coraggiosa” è in controtendenza forse perché stiamo provando a dare una chiarezza di visione che in questo momento a livello nazionale manca. Stiamo cercando, dentro le coalizioni, di contribuire a fermare la destra ma qualificando la nostra proposta sui temi della lotta alle disuguaglianze e alla transizione ecologica, due temi su cui chi si sta mobilitando anche fuori dalla politica è stufo di titubanze e di ambiguità. Questo può essere anche uno spunto importante per le forze che formano questa maggioranza. Sui temi del clima, dell’immigrazione e del lavoro di qualità bisogna che si sblocchi questo governo. Su giustizia sociale e transizione ecologica questo governo può fare fronte comune e fare un balzo in avanti. “Coraggiosa” non ha mai avuto l’ambizione di essere un nuovo partito o una sigla in più, ha sempre avuto l’ambizione di scuotere l’intero campo delle forze ecologiste e progressiste pretendendo chiarezza nella visione condivisa di futuro. Unità sì ma non ha senso se non è accompagnata dalla coerenza di un progetto condiviso. Quindi per ora noi continuiamo a stare dove stiamo e continueremo su questa strada.

Come vedi il futuro del governo?
I risultati elettorali danno un respiro ampio ma non per stare fermi, guai a sedersi sui risultati. Quei risultati consegnano la responsabilità alle forze di governo di rilanciare in avanti. Abbiamo un’occasione straordinaria, le risorse in arrivo vanno utilizzate coinvolgendo i territori e le parti sociali, non è un sfida di governo, è una sfida che riguarda il paese. Quelle risorse ci danno l’occasione di ricostruire il paese su basi nuove, possiamo risolvere alcuni ritardi accumulati nei decenni.
Quali sono le priorità?
Transizione ecologica, su cui bisogna investire il 37 per cento delle risorse del Recovery Fund, la trasformazione digitale, su cui bisogna investire il 20 per cento e la coesione sociale. Le priorità indicate dalla commissione europea centrano proprio la congiunzione tra lotta alle diseguaglianze e transizione ecologica che sono i temi su cui insistiamo da tempo. Se il governo avrà la capacità di progettare il nuovo e non semplicemente aprire cassetti polverosi per accontentare qualcuno, si potranno spendere bene. Nei vecchi cassetti ci sono progetti scritti troppi anni fa per riuscire a interpretare i cambiamenti che servono. Io credo che la tenuta di questo governo si misurerà se le forze che lo compongono, piuttosto che continuare a distinguersi, proveranno a lavorare concretamente sui temi che li uniscono. E questi sono i temi su cui possono provare a fare un passo avanti insieme.

Transizione ecologica significa investire su un nuovo modo di spostarsi, una mobilità dolce e sostenibile puntando su ferro, intermodalità e ciclabili, vuol dire creare occupazione di qualità nelle rinnovabili, nell’efficientamento energetico degli edifici e nella prevenzione del dissesto, perché l’unica grande opera che serve al paese è la cura del territorio così colpito dai cambiamenti climatici. E poi investire sulla trasformazione digitale per rimediare i ritardi enormi che abbiamo a partire dalle pubbliche amministrazioni, ma vuol dire riuscire a governare anche processi di innovazione tecnologica per metterli al servizio delle persone, perché non governati hanno prodotto un’enorme concentrazione di ricchezze e saperi. Si dovrà assicurare pari accesso alla rete per chiudere i divari territoriali, e per il privato investire nel digitale vuol dire innovare e contribuire all’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese.

Coesione sociale significa anche fare un enorme investimento sulla scuola, sul capitale umano, sulla formazione a partire dagli asili nido. Investire sui nidi vuol dire rendere più solidi i percorsi educativi contrastando povertà educative e dispersione scolastica, ma significa anche fare politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro indispensabili per colmare il divario occupazionale delle donne, favorendo una migliore distribuzione del carico di cura. Dopo la crisi del 2008, le ricette hanno reso il lavoro più precario, specie per donne e giovani. Oggi dobbiamo evitare quegli errori e ricostruire su basi diverse. Non abbiamo più scuse, le risorse ci sono.

Leggi anche: TPI intervista Elly Schlein, campionessa di preferenze in Emilia-Romagna: “Vi racconto la nuova sinistra che può battere Salvini”

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Dal Conte 1 al 2 la criminalizzazione della solidarietà delle Ong continua a gonfie vele…

Ci sono molti modi per boicottare i salvataggi in mare. Si può fare smargiassando e usandolo come tema di propaganda politica, come fece a suo tempo il ministro dell’interno Salvini che ancora continua sulla stessa lunghezza d’onda ma si può fare anche sotto traccia, in un modo perfino più subdolo, agitando la clava della burocrazia al posto della clava della paura ma ottenendo il medesimo effetto. Nel secondo caso si deve avere anche un bel pezzo del mondo dell’informazione che accetti di farti passare per il buono, perfino per l’avversario politico delle politiche di Salvini e bisogna contare su una buona dosa di indifferenza cosicché i fatti vengano taciuti, tenuti sotto traccia, sminuiti.

Siamo al governo Conte bis, quello che aveva promesso discontinuità con il governo giallo verde proprio sul tema dei diritti umani dell’immigrazione e siamo ancora qui, più di un anno dopo, a osservare un governo che mantiene le stesse politiche (la mancata abolizione dei decreti sicurezza di Salvini di fatto non ha spostato di una virgola le regole, nonostante le tante belle parole) e negli ultimi giorni stiamo assistendo a un’inquietante ascesa di casi di navi che vengono fermate. Badate bene: non ci sono urlati e minacce, no, no. Qui si tratta di carte bollate. Ma il risultato è lo stesso.

Ieri a rimanere bloccata è stata la Mare Jonio, la nave dell’Ong Mediterranea che ha ricevuto un diniego all’imbarco a bordo di due membri: un paramedico soccorritore e un esperto di ricerca e soccorso in mare del Rescue Team di Mediterranea Saving Humans. Secondo Donato Zito, comandante della Capitaneria, «i loro profili non hanno alcuna attinenza con la tipologia di servizio svolto dalla Mare Jonio». È un furbo escamotage di scartoffie: la Mare Jonio (come praticamente tutte le navi umanitarie) è registrata come mercantile con funzioni di cargo, monitoraggio e sorveglianza e il registro navale italiano le ha riconosciuto una notazione in classe come nave attrezzata per la ricerca e il soccorso. Tutto bene, quindi? No, perché la Guardia Costiera invece non riconosce quello status e ecco che la Capitaneria trova il ganglo per bloccare l’imbarco dei due tecnici. «Inoltre – si legge ancora nel provvedimento – l’imbarco dei soggetti sopra menzionati risulta in netto contrasto anche con le precedenti diffide notificate». Sì, perché dal 9 giugno a oggi sono ben quattro le diffide notificate. La Ong Mediterranea non ha dubbi: «Si tratta, evidentemente, di una mirata persecuzione amministrativa e giudiziaria che nasce da una precisa volontà politica del Governo…».

Qualche giorno fa la Capitaneria di Porto di Palermo ha deciso il fermo amministrativo della nave Sea Watch dopo ben 11 ore di accuratissima ispezione a bordo e uno dei motivi avanzati sarebbe stato «l’eccessivo numero di giubbotti di salvataggio a bordo». Anche allora le parole del responsabile affari umanitari di Medici Senza Frontiere Marco Bertotto fu chiaro: «Le autorità italiane – dichiarò – provano a fermare le organizzazioni umanitarie – che cercano solo di salvare vite in mare come richiesto dal diritto marittimo internazionale – mentre disattendono i loro stessi obblighi di soccorso, con l’assenso se non il pieno appoggio degli stati Europei».

Il fermo della Mare Jonio di ieri è il sesto fermo amministrativo negli ultimi cinque mesi da parte delle autorità italiane. Tutto questo mentre dall’inizio del 2020 quasi 8mila rifugiati e migranti sono stati intercettati in mare e riposatamente nelle prigioni libiche dalla Guardia costiera libica, quella che profumatamente paghiamo per fare il lavoro sporco. Ad agosto sono state dichiarate morte e disperse 111 persone, quasi 400 da inizio anno. In tutto questo la ministra Lamorgese nei giorni scorsi ha dichiarato che le sanzioni alle Ong potrebbero “diventare penali”. Tutto questo mentre l’Europa si arrabatta per costruire una solidarietà tra Stati, dimenticandosi delle persone, con il Migration Pact.

Intanto quei torturatori che si fanno chiamare Guardia costiera libica continuano indisturbati il loro lavoro e i lager libici mietono vittime. E allora viene da chiedersi: ma siamo sicuri che il problema fosse solo Salvini? O semplicemente bisognava semplicemente imparare a fare il lavoro sporco in modo pulito, sottovoce, senza social? Una cosa è certa: la criminalizzazione della solidarietà continua a gonfie vele.

L’articolo Dal Conte 1 al 2 la criminalizzazione della solidarietà delle Ong continua a gonfie vele… proviene da Il Riformista.

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Solidali a respingere

C’era grande attesa per il il nuovo Patto europeo per le migrazioni e l’asilo, il Migration pact che ieri Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, ha presentato in pompa magna. C’era anche molta attesa visto che proprio la presidente nei giorni scorsi aveva annunciato il superamento del Regolamento di Dublino che da tempo rende iniquo l’approccio degli Stati europei nei confronti delle migrazioni.

La presidente ha parlato di “un nuovo inizio” (che è una frase che qui in Italia risuona con l’odore stantio dei decreti sicurezza che continuano a rimanere in vigore) parlando di “solidarietà europea”. In cosa consiste?

Rimane il principio del Paese di primo ingresso che dovrà svolgere tutte le pratiche burocratiche e sanitarie. Dice l’Europa che però nel giro di pochi giorni saranno prese “veloci decisioni di asilo e di rimpatrio”, con l’intento di velocizzare l’esame delle domande d’asilo. Diventa difficile pensare che la ricerca di rapidità non comprima ulteriormente i diritti che già spesso vengono calpestati. Ma tant’è.

E allora dov’è la solidarietà? È una solidarietà al contrario, la solita, dell’Europa che si chiude. Il vicepresidente della Commissione, Schinas, ha ripetuto più volte la definizione di “sponsorship sui rimpatri”. Spiega Schinas: «La nuova idea di sponsorizzazione dei rimpatri servirà a riequilibrare interessi concorrenti: non tutti gli Stati membri accetteranno la ricollocazione dei migranti con questo sistema offriamo un’alternativa percorribile: se non si decide di accogliere si può aiutare nel rimpatrio». In sostanza: se un Paese non vuole accogliere deve aiutare gli altri a rimpatriare. Una nuova solidarietà europea che li vede tutti uniti a respingere. Il piano è sempre lo stesso: solidali tra Stati a contenere gli arrivi e ancora più perfomanti nei respingimenti. I “ricollocamenti”, quelli che dovevano essere “automatici” dopo gli accordi di Malta e che sono rimasti lettera morta, continuano a rimanere un’utopia.

E un programma di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo? Niente. L’apertura di canali umanitari (e legali)? Niente. Interrompere la criminale cooperazione con la Libia? Niente. Collocamenti automatici? Niente. Sanzioni? Niente.

Siamo alle solite: una decisione a respiro cortissimo e una solidarietà che no, non ce la fa proprio a guardare a quelli che vengono dal mare.

Buon giovedì.

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