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Strage di Bologna, la vergogna di un Paese che dopo 40 anni ha ancora una giustizia monca

10 e 25 del 2 agosto di 40 anni fa. Rimangono le commemorazioni, rimane l’immagine di quell’orologio fermo a dirci che non è vero che il tempo non si ferma, anche il tempo si inginocchia di fronte a 85 morti che frequentavano quella mattina la stazione centrale di Bologna. Ragazzi e bambini, tantissimi: il presidente Pertini, arrivato subito nel pomeriggio, raccontò di avere visitato bambini in terapia intensiva che stavano morendo sotto i suoi occhi. Angela aveva 2 anni, Sonia ne aveva 7. Kai ne aveva 8.

Quarant’anni e una storia che viene raccontata ancora per metà: qui da noi siamo bravissimi a commemorare storie che non ci siamo nemmeno presi la briga di raccontare. Sono stati condannati i tre colpevoli: Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Terroristi fascisti dei Nuclei armati rivoluzionari che in quegli anni hanno contribuito alla politica del terrore che ha ucciso magistrati, poliziotti, carabinieri e perfino camerati considerati traditori. Per Gilberto Cavallini, altro estremista nero, la condanna di primo grado è arrivata solo a gennaio di quest’anno. Il neofascista Paolo Bellini, di Avanguardia Nazionale, ora è imputato e chissà quanto ci metteremo a leggere la sentenza.

Poi ci sono Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi: sospettati di avere foraggiato economicamente la strage, tutti deceduti nel frattempo, tutti iscritti alla Loggia massonica P2 e tutti individuati fuori tempo massimo, per permettere l’ennesima umiliazione su quella strage: il negazionismo. Il fetore di chi ancora lucra su quei morti perché la storia non venga raccontata per intero. Siamo il Paese che si ferma sempre un passo prima dell’individuazione dei mandanti, un Paese che restituisce quella giustizia a metà che non basta mai (e per fortuna) ai famigliari delle vittime e a chi crede nello Stato.

Per questo anche oggi sull’anniversario della strage di Bologna possono dare aria alla bocca quelli che giocano sulla riscrittura degli eventi sempre a favore della propria propaganda. Di Licio Gelli ci rimane una condanna per il depistaggio successivo, solo quella, e tutti i suoi segreti che si è portato nella tomba. Ma l’importante qui da noi è che la politica sfili per le cerimonie, sacerdoti del ricordo che non si ricordano mai dove sono stati. Alla fine siamo stati noi a permettere che oggi siamo così monchi.

Leggi anche: Quei cattivi ragazzi: Bologna, la storia di Mambro e Fioravanti e tutti i dubbi su una strage lunga 40 anni (di Luca Telese)

L’articolo proviene da TPI.it qui

«E con questa scrittura così vivida, così forte, così vera, così diretta non può che far male.»: Francyna_ recensisce Carnaio

E come sempre non trovo le parole per ringraziarvi.

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Francyna_ recensisce #carnaio ・ Carnaio racconta la storia di DF, un banalissimo paesino costiero, dove non succede mai nulla e la vita dei cittadini scorre indisturbata. Ma un giorno a DF accade qualcosa di inaspettato: sulla costa compare un cadavere, un uomo di colore che proviene da chissà dove. Ma questo è solo l’inizio. I cadaveri iniziano a comparire sulla spiaggia uno dietro l’altro, fino a quando centinaia di migliaia di corpi si riversano sul paese, come uno tsunami incontrollabile. I corpi sono neri, tutti uguali, tutti delle stesse dimensioni, corpi perfetti che sembrano creati in provetta. Ma i cittadini di DF, dopo un iniziale momento di paura e confusione, decidono di trasformare un dramma in una risorsa. Una risorsa molto redditizia che non lascia spazio a nessun tipo di umanità. • Le tematiche trattate sono tante: questi corpi tutti uguali non lasciano spazio all’individualità, sono “migranti” e basta, senza un nome, un passato, un futuro, non sappiamo da dove vengono e perché arrivino, e a nessuno a DF interessa; nasce un regime dittatoriale, un male subdolo e invisibile, che si insinua a piccoli passi, poco alla volta; il diverso è visto come portatore di un male da sconfiggere, che se non può essere eliminato viene sfruttato come risorsa da cui trarre profitto; è presente una politica corrotta, incapace, basata sulla disinformazione e sulla mitizzazione del politico come salvatore della patria. • Carnaio è un libro di denuncia sociale, una grande metafora di ciò che accade ai nostri giorni. È un libro ricco di simboli e lancia un messaggio chiarissimo: e tu da che parte staresti? Approfitteresti della situazione per trarre un guadagno oppure ti ribelleresti? O peggio ancora, rimarresti impassibile e ti faresti trascinare dagli eventi? Un libro che instilla dubbi e costringe il lettore a porsi domande, che si imprime nella mente di chi legge senza lasciar spazio all’immaginazione. Un libro che fa paura, che sembra reale, che disturba. E con questa scrittura così vivida, così forte, così vera, così diretta non può che far male. Ringrazio @fandangolibri per avermi inviato la copia di questo libro e a @giuliocavalli per averlo scritto

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Un regalo (se vi piace): leggo il secondo capitolo

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Come promesso, ‘Mio padre in una scatola da scarpe’ diventa podcast con la lettura a voce alta. Ha qualcosa di magico, la lettura di un libro, perché mi tiene in bilico tra i miei diversi lavori, tra la scrittura e il palco, e per questo ci tengo moltissimo. Quindi pian piano aggiungeremo tutti i capitoli, un cammino svolto insieme, una compagnia prima di dormire. Eccoci al secondo, “le botte in piazza”, che rientra personalmente tra i miei preferiti.
Il podcast è anche facilmente scaricabile da iTunes qui (oppure abbonarvi via mail qui). Ma tra qualche giorno vi racconto anche come le portiamo sul palco. Restiamo in contatto. Buon ascolto.

Ogni tanto a quest’ora

Tipo adesso, che ho appena finito di scrivere un articolo così veloce che sembrava non dovessero mai smettere di battere i tasti, ogni tanto a quest’ora mi rimangono in testa delle idee, mica poche, di una storia, di un pezzo o di un’inchiesta da provare ad annusare e ho le dita così stanche come penso che siano stanche le gambe stanche delle persone anziane che si preoccupano delle proprie gambe. E le idee mi rimangono in testa ma non mi arrivano alle dita come si ci fosse un imbuto ostruito in mezzo al petto.

E allora vado a dormire con la speranza che domattina, quando mi sveglio di mattina, domani, le idee non siano appassite e le abbia ancora tutte lì, chiare e in fila come sono adesso che è sera, senza nemmeno un piega sgualcita.

Così penso che la mia scrittura è l’orma migliore che mi potesse capitare di imparare a lasciare.

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Chissà che non mi passi

28163532_incontro-con-giulio-cavalli-attore-lombardo-sotto-scorta-4Di solito mi capita così, più o meno proprio in questo momento qui che sto per scrivere proprio per non perderlo: mi assale il dubbio di non avere usato abbastanza bene le parole. Mi prende a fine giornata, dopo che comunque di parole ne ho masticate e scritte tantissime ma mi succede anche dopo un viaggio, lungo, con parole in sottofondo insieme al rumore della strada. Oggi pensavo durante la riunione di redazione al libro bellissimo di Benedetta Tobagi (Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre: lo trovate qui) che mi ha lasciato, tra le altre cose, il gusto antico di rispettare la parola nella responsabilità del giornalismo esercitato con il cuore onesto e mentre ci osservavo seduti per scandagliare le storie che vale la pena raccontare, ho creduto di avere colto, un secondo soltanto e poi via, il rito nella scelta della storia giusta, presa dal lato più poetico, inaspettato, ligi al pensiero e alla verità. Che poi pensiero e verità sono come due fratelli: solo accusandosi a vicenda riescono a coltivare un amore perseverante.

Insomma questa sera pensavo che, anche se ho imparato a controllarla per mestiere, spero davvero che non mi passi la paura di non essere stato all’altezza delle parole che ho scritto. Perché è una delle mie fisime a cui sono più affezionato. E guai a me se guarissi.

Ecco. L’ho scritto. Preso.

Il rumore là fuori

1393775838_TECH_rumoreRispondendo ad un utente sulla propria pagina Facebook Bono degli U2 parlando della promozione del loro ultimo disco ha scritto: “c’è un sacco di rumore là fuori. Penso che sia necessario fare un po’ di casino per superarlo”. Sto scrivendo L’amico degli eroi, lo spettacolo e libro sulla vicenda inumana di Marcello dell’Utri e i suoi poco onorevoli compari di vita e sono rimasto incastrato dal silenzio qui dentro e anch’io dal rumore là fuori. Dopo lo spettacolo su Giulio Andreotti ho avuto grandi difficoltà a scrivere e produrre, non lo nascondo, per motivi che probabilmente non mi sono ancora del tutto chiari: mettici la paura, la stanchezza, mettici la malattia nera che hai sempre il sospetto di non avere superato del tutto e mettici l’indolenza che mi ha lasciato addosso. Abbiamo inventato qualcosa, sì, messo in scena giullarate, scritto articoli ma tutti questi ultimi anni si sono svolti con una dinamica granulosa e molle che ha perso la spinta dei primi anni di produzione. Con poca speranza, forse, principalmente faticando ad accendere quella vecchia energia. Ecco: il “rumore là fuori” comincia a farti paura quando hai paura di avere perso quell’equilibrio che avevi, ti salvava e non hai mai capito bene come ricrearlo quasi se ti fosse arrivato sempre un po’ per caso oppure perché non ci hai dedicato abbastanza tempo per carpirne gli ingredienti. Solo un pensiero. Tutto qui. Torno a scrivere, eh.

Lo scrittore secondo Woody

Uno scrittore deve essere sincero con se stesso.
Non importa tanto di che cosa scriva. Importa che la storia sia bella. Ed è bella se viene dalla vita vera e se i personaggi «mostrano coraggio e grazia nelle avversità».
Il problema è che nella vita reale siamo confusi. Siamo incerti su che cosa pensare di noi stessi se siamo sinceri davvero. Ci sono troppe possibilità interpretative. Perché la storia non è data, la stiamo costruendo. E possiamo sperare che non sia come sembra essere. Possiamo progettare di cambiarla. Possiamo sentirci vittima di ciò che non ci consente di cambiarla. Possiamo aspettare con fiducia che cambi. Essere sinceri con se stessi nella vita reale non è facile perché ci sono troppe possibili storie che si dipanano dal presente. Eppure uno scrittore sa come fare…
Lo scrittore sceglie una “verità” e la interpreta fino in fondo. Con coraggio e con grazia nelle avversità. Lo scrittore è un personaggio della sua storia. È capace di sincerità perché è capace di scegliere una tra le possibili vite che ha di fronte, trasformandola in una storia che, al contrario della vita reale, ha un capo e una coda. Così la vede Luca De Biase.