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Rimpatri senza diritti, ecco i numeri italiani

Sono uno dei punti di forza di certe campagna elettorali di certa politica eppure nei numeri e nei modi dei rimpatri forzati sembra che vogliano metterci il naso in pochi. La situazione ha provato a definirla ieri il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, in occasione del convegno “Rimpatri forzati e tutela dei diritti fondamentali”, organizzato a Palazzo Merulana ha snocciolato i dati da gennaio a settembre 2021.

Dall’inizio del 2021 al 15 settembre sono state rimpatriate 2.226 persone, più della metà verso la Tunisia (1.159) con Albania (462) e Egitto (252) tra i principali Paesi di destinazione. Il 61,2% dei rimpatri sono stati operati tramite voli charter con scorta a bordo, il 12,3% con voli commerciali con scorta e il 26,5% con voli commerciali senza scorta (al 58% verso l’Albania). Per quanto riguarda i 71 voli charter, su 1.362 persone, 1.105 sono state quelle rimpatriate in Tunisia, 227 in Egitto, e 30 in Georgia. Il dato complessivo, anche a causa della pandemia, registra un’evidente flessione rispetto agli anni scorsi: 6.398 le persone rimpatriate nel 2018, 6.531 nel 2019, 3.351 nel 2020 e 2.226 nel periodo dal primo gennaio al 15 settembre di quest’anno.

Al di là dei numeri poi ci sarebbero anche i diritti e il Garante ha sottolineato come serva imitare “alcune informalità delle prassi” e “assicurare l’esercizio del diritto di difesa” per innalzare “il livello di tutela dei diritti fondamentali delle persone coinvolte”. In particolare il Garante ha formulato alcune raccomandazioni: in particolare, “garantire il controllo parlamentare sugli accordi di riammissione”, introdurre una “banca dati per gli eventi critici o altri accadimenti particolari”, quali atti di contenimento, interventi sanitari, proteste, fughe, episodi di autolesionismo o reclami, come “strumento di trasparenza e tutela”. E ancora: investire nella formazione di tutte le Forze di polizia impiegate nelle operazioni di rimpatrio forzato, prevedere nuove professionalità nei voli di rimpatrio per la mediazione culturale e il supporto socio-psicologico, garantire al cittadino straniero interessato un “congruo preavviso” a tutela del “diritto di difesa e nel rispetto della dignità della persona”.

Secondo il Garante, inoltre, serve un “deciso allineamento dell’uso delle misure coercitive agli standard internazionali” e va migliorata l’assistenza sanitaria “garantendo valutazioni preventive di idoneità effettive e la continuità di trattamenti e programmi terapeutici”. Infine serve un “deciso e urgente” adeguamento dei locali utilizzati negli scali aeroportuali. Tutto questo è descritto nel “Rapporto tematico sull’attività di monitoraggio di rimpatrio forzato di cittadini stranieri tra gennaio 2019 e giugno 2021” (presentato durante il convegno) dove si raccomanda anche “di avere aggiornamenti rispetto alla realizzazione di programmi formativi che coinvolgano tutte le unità di personale delle Forze di Polizia impiegate in un’operazione di rimpatrio forzato fin dalle prime fasi della procedura, a partire dal momento in cui il rimpatriando viene informato dell’avvio dell’operazione e successivamente prelevato dalla propria stanza detentiva”.

Poi, volendo, ci sarebbe da capire anche perché l’Egitto sia un partner ineludibile anche sui rimpatri su un’intesa tecnica che risale addirittura al 2017 come se in mezzo non ci fosse stato il caso di Giulio Regeni e 1.520 casi di sparizione forzata fra il luglio 2013 e l’agosto 2018, con dodici vittime di minore età e dove 15.000 civili sono stati giudicati da tribunali militari dal 2014. Ma questo è un altro lungo discorso.

L’articolo Rimpatri senza diritti, ecco i numeri italiani proviene da Il Riformista.

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Salvini ha spaccato la Lega cercando di rincorrere FdI senza capire che la Meloni ha già preso il suo posto

Ha ragione Massimiliano Fedriga quando dice che Francesca Donato non è certo “una colonna della Lega che ha abbandonato il partito” ma Fedriga (come il suo gran capo Salvini) omette di dire che sono proprio i Donato, Bagnai, Borghi, Siri e Pillon che tengono il partito con un piede fuori dal governo che sta svuotando il partito di voti.

È vero, l’europarlamentare Donato probabilmente finirà in qualche partito laterale (si parla di Italexit di Gianluigi Paragone) oppure sparirà nella schiera di Fratelli d’Italia ma che la Lega di Salvini si stia spaccando e esaurendo è un fatto politico che ormai più nessuno riesce a nascondere.

Non bisogna essere fini analisti politici per capire che lo spazio occupato da Salvini (quello dell’opposizione urlata, muscolare e dura disponibile perfino ad accarezzare i complotti per continuare a partorire nuovi nemici immaginare) non sia compatibile con la presenza nei banchi di un governo che dell’equilibrio, della misura (e perfino della sbiaditezza) fa la propria cifra politica.

Gli errori inanellati da Salvini del resto ormai cominciano ad accumularsi: dopo avere costruito il proprio bacino di voti sulla sfrontatezza e sul mito dell’uomo forte Salvini è riuscito ad apparire tonto e debolissimo facendosi bastonare nel primo governo Conte, è apparso poco credibile mentre urlacciava contro i grillini suoi ex compagni di governo (mentre erano ancora fresche le foto in cui apparivano abbracciati e sorridenti) e ora paga lo scotto di essere elemento dell’ammucchiata di maggioranza.

Ovvio che se decidi di capitalizzare il tuo essere “ferocemente contro” paghi pegno nel momento in cui ti ammorbidisci. Altrettanto ovvio è che Salvini abbia dovuto ammorbidirsi per tentare di ammantarsi di quel minimo di credibilità che voleva utilizzare per proporsi come futuro leader del centrodestra e di governo.

Entrambe le missioni sono fallite: nella posizione politica occupata oggi dalla Lega è inevitabile che la linea di Giorgetti e compagnia cantante (che godono non poco mentre assistono all’erosione del loro segretario) sia la più efficace, forse perfino inevitabile. Ed è una naturale conseguenza che sia proprio Giorgia Meloni con Fratelli d’Italia l’unica ad apparire opportuna in quello spazio precedentemente occupato da Salvini.

A proposito di Giorgia Meloni: per un vizio tutto italiano di combattere le persone piuttosto che i modi e contenuti forse sarebbe il caso (lo ripetiamo da tempo su queste pagine) di capire che il nuovo Salvini è già da un pezzo Giorgia Meloni, è lei ad avere ereditato il velato razzismo, la carezzevole vicinanza agli ambienti estremisti e il piglio ai limiti del negazionismo che piace tanto ai No vax e ai No qualsiasi cosa.

Se la battaglia politica è quella di combattere un certo sovranismo nazionalista che attraversa l’Europa forse conviene lasciare Salvini a sbriciolarsi per conto suo e cominciare ad ascoltare con attenzione le pericolose valutazioni di quella che potrebbe essere a capo della coalizione di centrodestra data per favorita alle prossime elezioni politiche. L’hanno capito perfino i transfughi leghisti che si spostano in massa verso Fratelli d’Italia. Chissà quando lo capiranno certi editorialisti.

L’articolo proviene da TPI.it qui

Il Green Pass non è un dogma: ecco perché se ne può discutere senza essere no vax

Il tema è complesso, molto più articolato di come spesso viene affrontato e non è certo buono per essere stropicciato per sfamare opposte e radicali tifoserie. L’estensione del green pass nelle prossime settimane, soprattutto nel mondo del lavoro, pone un’importante riflessione sulla libertà. Da una parte c’è chi crede che la libertà sia l’ambiente dell’individualismo spinto, faccio quello che voglio soprattutto finché le regole me lo consentono, mentre dall’altra si insiste sulla libertà che non esiste senza un piano relazionale e che non può slegarsi da una responsabilità collettiva.

Poi c’è il tema della salute, anche questo troppo serio per non essere preso sul serio: il diritto di mettere a rischio la propria salute (non accade forse con il fumo, con l’alcol o con qualsiasi altra sregolatezza?) non ha nulla a che vedere con il diritto di mettere a rischio la salute degli altri: non è vietato viaggiare in autostrada a 200 all’ora con i fari spenti per il gusto di intaccare la libertà personale ma semplicemente per il dovere di evitare per quanto possibile che qualcun altro rimanga coinvolto in un incidente. Il concetto sembra così banale, eppure sfugge.

È anche vero però che il sistema sanitario nazionale (e la Costituzione) prevedono l’obbligo di curare tutti, indipendentemente dalle loro scelte personali (e per fortuna) e quindi avvelenare i pozzi con idee strampalate come quella di addebitare i ricoveri a chi rifiuta il vaccino non porta nessun altro risultato oltre al crollo della serietà del dibattito.

Che l’uscita dalla pandemia avvenga solo grazie al vaccino è il pensiero comune della scienza ed è una lezione della Storia: chi rifiuta il vaccino adducendo misteriosi complotti mondiali o peggio ancora presunti piani di stermini di massa è stupido e pericoloso. La stupidità è da sempre nemica della democrazia e chi la cavalca per interessi politici è un immorale fallito.

Però una riflessione sul green pass che ora sostanzialmente serve per qualsiasi cosa forse conviene davvero farla. Ad esempio, è possibile sapere sulla base di quali analisi tecniche è stata presa questa decisione? Quali sono i criteri, gli studi e i dati sui quali si è deciso di adottare questa misura e poi estenderla? Per essere più precisi: al raggiungimento di quale risultato verrà tolto? A che percentuale di vaccinati? Al raggiungimento di quanti decessi per settimana? Al raggiungimento di che numero di nuovi casi al giorno? Davvero non è pericoloso porre una misura senza chiarire un obiettivo?

Perché le leggi e le regole di una democrazia sono un cosa seria e sentire che l’obbligo di green pass nei luoghi di lavoro “serve a ovviare alla mancata messa in sicurezza dei mezzi di trasporto” (come ad esempio ha dichiarato Lina Palmerini durante una puntata di Otto e mezzo) oppure sentire (come ha detto il ministro Brunetta) che viene adottato un decreto legge che entrerà in vigore solo fra un mese per sfruttare intanto “l’effetto annuncio” è qualcosa che non ha niente a che vedere con il diritto. E noi siamo un Paese fondato sul diritto.

Per questo bisognerebbe essere molto cauti nell’additare come “no green pass” tutti coloro che pongono dei dubbi. Roberto Perotti (economista e accademico bocconiano) a Radio1 ha detto quello che tutti pensano e che non hanno il coraggio di dire: “Il green pass è un modo per obbligare le persone a vaccinarsi senza introdurre un obbligo vaccinale”.

Ecco allora lo snodo fondamentale: se si ritiene che il vaccino sia la migliore soluzione per uscire dalla pandemia (e su questo quasi tutti sono d’accordo) allora la politica dovrebbe prendersi la responsabilità di fare politica senza paternalismi e senza misure che servono per “indurre a”. Che l’Italia adotti un’estensione del green pass che non è presente per ora in nessuno Stato è un fatto politicamente rilevante, oltre che sanitario.

Sì, è vero che non c’è soddisfazione più grossa che vedere i pericolosi no vax costretti a correre a vaccinarsi per non perdere il reddito, ma siamo sicuri che sia la strada più intellettualmente onesta? Siamo d’accordo che l’obbligo vaccinale sia (come dice Selvaggia Lucarelli) un privilegio gratuito per continuare a vivere in salute? Sì, perfetto. Allora non si abusi di strumenti collaterali.

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Sì vax, ma senza coraggio

Sarebbe il caso che il governo governi. Se vuole rendere obbligatorio il vaccino lo faccia, anziché continuare a limare sulle categorie per il green pass, costringendo a vaccinarsi di rimbalzo

La politica è l’arte della mediazione ma spesso dietro questo aforisma si cela la tiepidezza di chi non vorrebbe decidere. Le perquisizioni a casa di no vax che diventano barzotti sui loro gruppi Telegram mentre sognano di posizionare il tritolo sotto il Parlamento sono qualcosa che non bisogna sottovalutare ma converrebbe anche ricordare che alla resa dei conti, quando si sono messi in testa di bloccare i treni in tutta Italia, nelle stazioni c’erano perfino più iscritti a Italia Viva.

Di sicuro però c’è che solo il 65,9% degli italiani ha completato il ciclo vaccinale (tenendo conto anche di quelli che sotto i 12 anni non si possono vaccinare) e il numero è ben lontano da garantire una certa sicurezza. Dialogare con i no vax più convinti cercando di convincere gli inconvincibili è una mossa che disvela una certa povertà politica, che si affida alla persuasione piuttosto che alla decisione.

Insomma, per dirsela tutta, sarebbe il caso che il governo governi: Mario Draghi aveva risposto convintamente «sì» alla domanda sull’obbligo vaccinale e ora continua a limare sulle categorie per il green pass. Essere paternalisti non serve per difendersi dal prendere decisioni.

Come scrive giustamente Vitalba Azzolini per Domani (perché qualche volta conviene citare colleghi che ci hanno visto lungo): «Non è chiaro perché, con l’attuale decreto, siano assoggettate all’obbligo di certificazione verde solo alcune categorie di lavoratori, né quali siano i criteri di priorità seguiti. Sul piano del diritto non si comprende perché si ricorra a diversi decreti-legge per disporre estensioni successive a pochi giorni di distanza, creando confusione».

E poi: «Pare che un’estensione ulteriore della certificazione verde ad altre e più numerose categorie di lavoratori sarà sancita la prossima settimana con un nuovo decreto che, insieme a quello appena emanato, andrà ad aggiungersi alle norme dei decreti precedenti in tema di “green pass” e ai relativi emendamenti in sede di conversione. Ciò renderà necessario un coordinamento tra le regole dei diversi provvedimenti, tenendo anche conto – tra le altre cose – della spiegazione data via Faq alle regole stesse, talora in modo non del tutto conforme a una loro interpretazione testuale e sistematica. Il labirinto delle disposizioni in tema di contrasto al Sars-CoV-2 è ormai oltremodo complesso – per usare un eufemismo – con buona pace dell’obiettivo di semplificazione e razionalizzazione normativa messo per iscritto nel Piano nazionale di ripresa e resilienza e a cui il governo si è impegnato nei confronti dell’Unione Europea».

Allora facciamo che il governo dei migliori governi in modo migliore: prenda decisioni, abbia coraggio e la smetta di usare metodi che sono semplicemente una forma di paternalismo insopportabile. Se vuole rendere obbligatorio il vaccino lo renda obbligatorio senza costringere a vaccinarsi di rimbalzo. Meglio una legge che renda obbligatorio il vaccino (ci sono tutti gli strumenti legislativi per poterlo fare) oppure un’applicazione generalizzata del green pass che non penalizzi ingiustamente alcune categorie esentandone altre.

Abbiate coraggio. Forza, su.

Buon venerdì.

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Salvini, la famiglia prima di tutto ma non se sono profughi: la proposta senza senso di accogliere solo donne e bambini

Ci sono molti modi per cannibalizzare un territorio che è spolpato da 20 anni di guerra feroce e inutile, poi caduto nelle mani di quegli stessi per cui 20 anni fa ci si era mossi e che ora sono tornati riaccendendo le stesse paure e l’odore degli stessi errori di vent’anni prima: anche l’Afghanistan entra nella centrifuga paradossale e cretina di Matteo Salvini, ovviamente con nessun interesse reale per la vicenda ma banalmente per accarezzare gli sfinteri del proprio elettorato senza stordirlo con troppa complessità.

Corridoi umanitari per donne e bambini in pericolo certamente sì. Porte aperte per migliaia di uomini, fra cui potenziali terroristi, assolutamente no”, ha detto Matteo Salvini con la faccia tronfia di chi si illude di essere riuscito ad apparire compassionevole ma duro, difensore della propria Patria simulando un minimo interesse per le patrie degli altri.

Peccato che basta metterci un secondo di testa, accendere un minimo di logica per accorgersi che la frase non ha nessun senso. Una “cagata pazzesca” come la definirebbe Fantozzi. Dentro c’è l’assurda idea di considerare donne e bambini elementi separati dagli uomini, di fatto proponendo una classificazione per genere e per età delle persone da salvare dimenticandosi totalmente che le famiglie solitamente invece siano composte da tutti e tre gli elementi. Ed è piuttosto curioso che lo strenuo difensore della “famiglia tradizionale” immagini invece famiglie spaccate in giro per l’Europa senza nessuna possibilità di coinvolgimento.

Ma non solo: Salvini parte dall’assunto che tutti gli uomini afghani siano evidentemente pericolosi e “terroristi”, dimenticando di fatto (o ignorando per troppa pochezza storica e culturale) che i terroristi a cui si riferisce (cioè quelli dell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001) siano del Paese con cui va a braccetto il suo amico Renzi. Pregiudizio e ignoranza: il mix perfetto per il razzismo, ovviamente.

Ma il capolavoro dell’idiozia è questo: “E mentre a Kabul i talebani riportano in vigore la sharia, la violenta legge islamica, in Italia stanno per sbarcare 166 e 322 clandestini da due navi di ONG con bandiera tedesca e norvegese. Io il 15 settembre andrò a processo perché ho difeso il mio Paese, qualcun altro dorme…”, scrive Salvini.

Qui dentro c’è tutto il sottovuoto spinto della sua propaganda: mischiare argomenti diversi ed erroneamente descritti facendo un giro largo per parlare di sé. L’uomo che giudica i colpevoli solo leggendo i titoli di Libero si rivende come eroe perché rinviato a giudizio (lui che sputa di solito perfino sugli indagati) e in un tweet mette dentro sharia (chiamandola erroneamente “violenta legge islamica”), bandiere tedesche e norvegesi, clandestini che non lo sono (anche in questo caso lo decide un percorso giuridico) e un processo di cui lui stesso ha già deciso la sentenza. Badate bene: è il Salvini che banchetta in giro per l’Italia raccogliendo firme per un referendum sulla giustizia. Fate un po’ voi.

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La lezione di Tamberi e Barshim: esistono vittorie senza sconfitti, nello sport come nella vita

Il vero spirito olimpico. Non tanto “l’importante è partecipare” che è una frase ormai storpiata dalle su mille strumentalizzazioni ma il valore della condivisione (così tanto fuori moda in quell’epoca in cui l’egoismo è diventato addirittura “obbligatorio” secondo una certa narrazione): l’italiano Gianmarco Tamberi e il qatariota Mutaz Barshim, campione del mondo in carica, hanno condiviso la medaglia d’oro, ricevendone una a testa. Hanno dimostrato con un gesto semplice, perfino naturale nel suo svolgimento avvenuto in diretta sotto gli occhi di tutto il mondo che la condivisione moltiplica i successi e che la competizione può essere anche uno strumento per certificare le amicizie.

Gianmarco e Mutaz, che hanno celebrato insieme l’oro doppio sul gradino più alto del podio, sono amici da anni e negli hanno coltivato la loro empatia. Entrambi hanno condiviso lo stesso infortunio alla caviglia, uno di quegli infortuni che mette in discussione tutta una carriera e che piombano addosso aprendo dei dirupi. Si sono sostenuti l’un l’altro, insieme, sfidandosi in pista e poi ogni volta ritrovandosi fuori.

Quando nelle finale olimpica hanno entrambi saltato 2 metri e 37 centimetri e hanno scoperto l’opportunità di non togliere l’uno all’altro la vittoria più felice della loro vita Gianmarco e Mutaz hanno mostrato al mondo che ci si può concedere il lusso di fermare la competizione di fronte alla vicinanza degli stessi incubi.

Quegli abbracci non erano solo i festeggiamenti per una medaglia, quegli abbracci sono la felicità di essere arrivati fin lì insieme. Ed è una lezione di sport ma è soprattutto un modo di intendere la vita: per raggiungere i propri obiettivi, mentre il mondo vorrebbe insegnarci ad essere sempre più competitivi fino allo sfinimento, si possono anche onorare i propri valori, le persone intorno, le esperienze vissute.

Una vittoria senza sconfitti non è certo l’ordine naturale delle cose ma quando accade è lo sport nella sua forma più nobile. Quanto si è disposti a cedere i propri valori per primeggiare? Quanto si è disposti a tradirsi per vincere? È il professionismo nel suo senso più alto: professare i propri valori in quello che si fa e professarli in modo talmente intenso che alla fine profumano come il risultato perché sono il risultato. Gianmarco Tamberi e Mutaz Barshim sono un monumento alla lealtà delle regole non scritte: ricordarcele è sempre un’occasione, mica solo di sport.

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Gli eroi senza coraggio

Se Salvini e Meloni sono contrari alle chiusure, sono contrari al Green pass, sono contrari ai vaccini, esattamente come pensano di poter uscire dalla pandemia? È una domanda semplice semplice…

Non è difficile essere Matteo Salvini o Giorgia Meloni, basta intestarsi al meglio tutte le battaglie fuori dal governo senza però mai spendersi per proporre delle soluzioni. Facile facile. Piuttosto irresponsabile, certo ma in termini di voti funziona eccome.

C’è una parte del Paese che, seguendo la scienza, è convinta che la campagna vaccinale sia la più veloce e possibile soluzione per uscire dal virus. Per chi non se ne fosse accorto è anche la posizione del governo Draghi che, fin dall’inizio, ha parlato di «rischio ragionato» (e quanto sia stato ragionato ce lo diranno le prossime settimane) senza mai prescindere dalla campagna vaccinale.

Dall’altra parte ci sono quelli che, spesso appellandosi a tesi piuttosto squinternate, credono che il vaccino non possa essere l’elemento imprescindibile per uscire dalla pandemia e rivendicano la libertà di scelta.

Poi c’è una terza parte che invece non vale la pena nemmeno prendere sul serio che ipotizza 5G, complotti internazionali e altre cretinerie varie.

I secondi e i terzi di questo terzetto nazionale sono elettori in gran parte di Salvini e Meloni, sono quelli che hanno additato Speranza come artefice di tutti i mali e che rivendicano la libertà di ammalarsi e sostanzialmente di rimando anche il diritto di fare ammalare gli altri.

Salvini e Meloni, con ben poco coraggio, navigano nelle acque dei dubbiosi e dei contrari senza nemmeno la dignità di prendersene la responsabilità, come succede spesso su diversi argomenti. Ieri il capogruppo Francesco Lollobrigida, capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia (nonché cognato di Giorgia Meloni, sempre a proposito di merito e di familismo) in una mostruosa intervista a Repubblica dice: «Sì, mi sono vaccinato, con Johnson, dopo avere preso il Covid. Ma non consiglierei a nessuno sotto i 40 anni di farlo, perché la letalità è inesistente», dimostrando di non avere capito nulla della funzione dei vaccini per impedire l’eccessiva circolazione del virus e il comparire di altre varianti.

Salvini è sulla stessa scia. Ha detto ieri: «Mi rifiuto di vedere qualcuno che insegue mio figlio che ha 18 anni con un tampone o con una siringa. Prudenti sì, terrorizzati no». Eppure sono proprio i più giovani quelli da mettere in sicurezza.

A proposito: Giorgia Meloni un mese fa ha detto di avere prenotato il vaccino ma poi non si hanno più avuto notizie. Matteo Salvini invece non è riuscito per mesi a prenotare la vaccinazione (ma guarda un po’) e ora ci avvisa che la farà ad agosto. Però, dice Salvini, niente foto sui social. Avete letto bene: l’uomo che fotografa tutto quello che mangia, ci dice che non fotograferà il vaccino.

Ora sorge spontanea una domanda: se Salvini e Meloni sono contrari alle chiusure, sono contrari al Green pass, sono contrari ai vaccini, esattamente come pensano di poter uscire dalla pandemia? È una domanda semplice semplice. Credono che non ci sia nessuna pandemia? Perfetto, con coraggio ce lo dicano. Siamo qui ad aspettare con il taccuino aperto.

Buon lunedì.

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Da Calenda ai renziani: quelli che non vivono senza parlare male del Pd

Sono quelli che da settimane si ostinano a vedere “vedove di Conte” dappertutto. Chiamano così chiunque si permetta di osservare e criticare un’azione qualsiasi del governo Draghi oppure del generale Figliuolo (di cui hanno i poster in cameretta di fianco al calciatore o al cantante preferito) e se qualcuno gli fa notare che utilizzare la vedovanza per irridere gli altri sia piuttosto antipatico e fuori luogo ti rispondono che è un “modo di dire”.

Del resto sono gli stessi del “ciaone”, del “stai sereno”, dei poveri che se lo meritano e dei disoccupati che sono fannulloni. A leggerli ti verrebbe da pensare che siano dei Salvini più edulcorati e invece, mistero della fede, si collocano nel centrosinistra.

Meglio: immaginano un centrosinistra in cui esistano solo loro e che faccia delle gran grigliate con il centrodestra, tutti a braccetto, perché sono gli stessi che stanno portando avanti da tempo il processo di riabilitazione di fascisti omeopatici rivenduti come futuri statisti.

Tutto il giorno scrivono di politica, sui loro social in cui fanno gruppo sostenendosi vorticosamente, scudieri di una bestiolina clone della stessa di Salvini con la sola differenza di indovinare quasi sempre i congiuntivi. 

Il loro tema costante è uno sempre quello, sempre lo stesso: il PD. Odiano il PD, sono tutti stati inventati dal PD, molti di loro sono stati eletti con il PD eppure il PD è il loro argomento costante.

Ne vorrebbero la distruzione, lo smaciullamento però fingono di pungolarlo “per il suo bene”. Perché un elettore di un partito debba così intensamente interessarsi di un altro potrebbe apparire incomprensibile. Poi ti metti a vedere le loro percentuali di voto e capisci il riflesso del loro nemico è l’unico modo di avere un po’ di luce.

C’è chi si candida sindaco di Roma, come Calenda, e non lascia passare un solo giorno senza discutere animosamente del PD, colpevole di non averlo incoronato candidato unico (re e papa) del centrosinistra.

C’è chi come i renziani se la prende con il PD che permette a Conte di appoggiare un suo candidato alle primarie, lì dove Renzi ha messo una sua candidata direttamente con il bollino. Poi ogni tanto succede che qualcuno gli dica “ok, se non vi sta bene ve ne potete andare” e loro si mettono in un angolo con il broncio. Ma rimangono, non vanno, senza capire perché quel partito che prendono tutti i giorni a calci ce l’abbia così tanto con loro. E della loro ossessione ne vorrebbero fare un programma politico.

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Ripartenza senza freni

Dietro la tragedia del Mottarone ci sono scelte prese per non perdere il fatturato. Accade anche nei cantieri e nelle fabbriche, quando in nome del profitto si risparmia sulla manutenzione, a scapito della sicurezza dei lavoratori. E allora sorge un dubbio, allargando il discorso…

Il quadro che esce dalle prime indagini sulla tragedia del Mottarone dove una funivia caduta ha provocato la morte di 14 persone sta assumendo contorni terrificanti. Siamo solo nelle fasi preliminari, certo, ma che le tre persone fermate (Luigi Nerini, proprietario della società che gestisce l’impianto, la Ferrovie Mottarone srl, il direttore dell’esercizio Enrico Perocchio e il capo servizio Gabriele Tadini) abbiano ammesso di avere consapevolmente disattivato il freno di emergenza segna già un punto importante. Quel freno provocava il blocco dell’impianto e l’ultimo intervento tecnico non era riuscito a risolvere il problema così si è pensato bene di manometterlo per non interrompere il servizio.

Per giorni ci si è interrogati sui eventuali difetti di materiali o un errore tecnologico mentre ora, ancora una volta, riaffiora l’errore umano. Anzi, a bene vedere, tanto per tenerci all’ecologia del linguaggio, si potrebbe dire che qui stiamo parlando di avidità umana, roba un po’ diversa dal semplice errore: si tratta di avidità, di scelte prese consapevolmente a discapito della salute per non avere perdite di fatturato. Il discorso è sempre quello: considerare la sicurezza un disturbo, una perdita di tempo o un vezzo burocratico significa assegnare poco valore alle vite umane. Forse è accaduto sul Mottarone, molto probabilmente è accaduto per il ponte che avrebbe fatto perdere soldi alle autostrade, accade quando per velocizzare la produzione si asportano le protezioni dai macchinari che si inghiottono i lavoratori, accade quando non si mettono in sicurezza i cantieri da cui volano gli operai, accade quando si finge di non sapere i livelli di inquinamento degli impianti (accade più lentamente ma accade), succede quando si risparmia sulla manutenzione. «L’errore umano ci può sempre essere, la consapevolezza nel togliere le misure di sicurezza non può, non deve e non bisogna neanche sognarsela», ha dichiarato Valeria Ghezzi, presidente dell’Associazione nazionale esercenti funiviari.

È sempre il profitto ritenuto più importante delle vite umane. Sempre quel vecchio discorso che nessuno vuole affrontare con parole chiare. È il pensiero di una società che va ripensata proprio dalle fondamenta da questo punto di vista. E allora sorge un dubbio, volendo allargare il discorso: semplificare le procedure di sicurezza per proteggere il fatturato è esattamente il pensiero che sta dietro a certe proposte anche di questo governo. E che questa “voglia di ripartenza” per molti sia smodata voglia di fare in fretta soldi per recuperare il perduto rende l’argomento ancora più sensibile. Pensateci, vale davvero la pena soffiare nella ripartenza senza freni?

Buon giovedì.

(nella foto: funivia Mottarone, il “forchettone” che manteneva aperte le ganasce del freno)

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La festa alle mamme

Un altro giorno da reality show è passato. Con i politici che festeggiano la mamma senza proporre soluzioni per sostenere le donne madri. Che nel 2020 in tante hanno perso il lavoro o vi hanno rinunciato per seguire i figli. Anche perché mancano gli asili nido

In questo tempo in cui tutti i giorni i politici non possono permettersi di dimenticare di onorare le feste ieri si è assistito a un profluvio di auguri dei leader (e pure di quelli meno leader) alle loro mamme e a tutte le mamme d’Italia (i patriottici) e a tutte le mamme del mondo (i globalisti). Ci siamo abituati, senza nemmeno farci più troppo caso, ad aspettarci dai politici gli stessi input di un influencer, mettiamo il mi piace alla sua foto con la mamma e ci scaldiamo per un augurio pescato su qualche sito di aforismi.

Le mamme, dunque. Su 249mila donne che nel corso del 2020 hanno perso il lavoro, ben 96 mila sono mamme con figli minori. Tra di loro, 4 su 5 hanno figli con meno di cinque anni: sono quelle mamme che a causa della necessità di seguire i bambini più piccoli hanno dovuto rinunciare al lavoro o ne sono state espulse. D’altronde la quasi totalità – 90mila su 96mila – erano già occupate part-time prima della pandemia. È questo il quadro che emerge dal 6° Rapporto Le Equilibriste: la maternità in Italia 2021, diffuso in occasione della Festa della mamma da Save the Children. Uno studio sulle mamme in Italia che, oltre a sottolineare le difficoltà affrontate fa emergere ancora una volta il gap tra Nord e Sud del Paese.

Già prima della pandemia la scelta della genitorialità, soprattutto per le donne, è spesso interconnessa alla carriera lavorativa. Stando ai dati, nel solo 2019 le dimissioni o risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro di lavoratori padri e lavoratrici madri hanno riguardato 51.558 persone, ma oltre 7 provvedimenti su 10 (37.611, il 72,9%) riguardavano lavoratrici madri e nella maggior parte dei casi la motivazione alla base di questa scelta era la difficoltà di conciliare l’occupazione lavorativa con le esigenze della prole.

Lo «shock organizzativo familiare» causato dal lockdown, secondo le stime, avrebbe travolto un totale di circa 2,9 milioni di nuclei con figli minori di 15 anni in cui entrambi i genitori (2 milioni 460 mila) o l’unico presente (440 mila) erano occupati. Lo «stress da conciliazione», in particolare, è stato massimo tra i genitori che non hanno potuto lavorare da casa, né fruire dei servizi (formali o informali) per la cura dei figli: si tratta di 853mila nuclei con figli 0-14enni, nello specifico 583mila coppie e 270mila monogenitori, questi ultimi in gran parte (l’84,8%) donne.

Il problema è urgente: nonostante gli asili nido, dal 2017, siano entrati a pieno titolo nel sistema di istruzione, ancora oggi questa rete educativa è molto fragile e, in alcune regioni, quasi inesistente. Una misura necessaria a dare ai bambini maggiori opportunità educative sin dalla primissima infanzia, che contribuirebbe a colmare i rischi di povertà educativa per le famiglie più fragili, ma anche a riportare le donne e in particolare le madri nel mondo del lavoro. La Commissione europea ha indicato come obiettivo minimo entro il 2030 per ciascun Paese membro di almeno dimezzare il divario di genere a livello occupazionale rispetto al 2019 ma per l’Italia, numeri alla mano, la missione sembra praticamente impossibile.

In un Paese normale nel giorno della Festa della mamma i politici non festeggiano la mamma ma illustrano le proposte. La politica funziona così: c’è un tema e si propongono soluzioni. Il dibattito politico ieri era polarizzato sui disperati che sono sbarcati (vedrete, ora si ricomincia) e su una libraia (una!) che ha liberamente scelto di non vendere il libro di Giorgia Meloni (censura! censura! gridano tutti).

E intanto un altro giorno da reality show è passato.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.