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SGOMBERO

Parliamo di povertà?

Mi scrive uno sfogo densissimo Filippo. Filippo è uno di quelli con le mani dentro la povertà, ce ne sono tanti nel nostro Paese, anche se ce ne dimentichiamo spesso. È un membro anomalo in un ente religioso: di sinistra, ateo, sbattezzato. Con le mani, per lavoro, dentro gli angusti dolori di chi è stato sopraffatto dalla pandemia. Ma sopraffatto vero, senza la preoccupazione di dove andare a sciare il prossimo Natale.

“Bene, ora, da qualche mese a questa parte, mi trovo quotidianamente a conoscere e a confrontarmi con persone, con famiglie per lo più composte da giovani genitori e bambini poco più che neonati, che, trattenendo le lacrime, si sono trovate, senza capire come, nella condizione di dover chiedere aiuto a me, a noi, ai professionisti e ai volontari di organizzazioni caritatevoli.
Dov’è oggi lo Stato Sociale? La povertà non era stata abolita? Come può pensare uno Stato di essere sulla strada giusta se i suoi cittadini devono dipendere da queste associazioni e non possono fidarsi degli organi pubblici predisposti? È normale che in Italia, in una piccola Provincia piemontese, oggi sia stato fondamentale l’intervento economico di due enti caritatevoli per permettere a due famiglie di riavere luce e gas? E’ normale che vengano spesi 38.000 € (giuro, 38.000 €) per le luminarie natalizie quando la luce ogni giorno viene a mancare nelle case dei cittadini?
Sui giornali, nei tg, in radio, leggo e sento solamente discussioni su quanto sia importante andare a ballare o a sciare, ma le urla e le lacrime disperate di chi non riesce a pagare affitti, bollette per luce o gas non meritano lo stesso interesse dei capricci del Briatore di turno?
“Quando torneremo alla normalità vi restituirò tutto”, è questa la frase che oggi mi sono sentito ripetere più e più volte da persone che rivolgevano lo sguardo a terra, che si vergognavano di essere li, di aver deluso i canoni di questa società fondata sul successo personale, sui beni materiali. Ma io, noi, non vogliamo niente in cambio, tutto quello che facciamo, dalla distribuzione di alimenti, al pagamento di utenze, alla ricerca di offerte di lavoro, lo facciamo perché crediamo nell’umanità (un grazie a quella parte di umanità che sostiene i nostri progetti).
Da un lato aiutare queste persone, sentirmi dire “grazie, senza di voi non so come avrei fatto” mi fa sentire bene, mi da una carica oserei dire “rivoluzionaria”, ma solo per pochi istanti, subito dopo subentra la Disperanza, una sensazione di rabbia mista a impotenza che ti fa venir voglia di mollare tutto, che ti fa sentire piccolo, impotente di fronte a un mostro imbattibile e fa percepire come inutili tutti i tuoi sforzi per garantire un’esistenza dignitosa a chi da questo sistema viene sacrificato.
È normale che uno Stato non sia in grado di garantire uno stile di vita dignitoso ai suoi cittadini? È normale che uno Stato debba dipendere da associazioni caritatevoli per sopperire alle sue mancanze e che non se ne interessi minimamente a livello centrale? Quale è stato il preciso momento in cui il mio Paese, quel Paese per il quale mia nonna ha sacrificato la sua gioventù lottando per un ideale di giustizia e equità, per il quale io mi sono messo in gioco difendendo le cause degli ultimi, dei più deboli, ha abbandonato il suo popolo?
Dopo una giornata emotivamente devastante, dopo essermi trovato di fronte a ragazzi miei coetanei, che spensierati sgargarozzavano birre guardando le partite con me nei bar fino a poco tempo fa e che ora non dormono la notte, tormentati da quella maledetta sensazione, quella maledetta ansia che folgora cuore e stomaco e annebbia la ragione causata dal sentirsi inadeguati, dal convincersi di aver fallito e di non essere degni dei proprio genitori, dei propri figli per non riuscire a garantirgli un’infanzia spensierata come quella da noi vissuta, l’amministrazione comunale cosa fa? Si vanta di aver vinto una causa in tribunale che gli permette lo sgombero di un campo Rom…9 persone, 2 bambini, a fine novembre, in mezzo a una strada. Tanto “qualcun altro” ci penserà….”

Quando torniamo seriamente a parlare di povertà?

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Sicilia, Fava a TPI: “Musumeci fa lo scaricabarile. Ma sui migranti il governo ha paura di decidere”

Nello Musumeci insiste. Il governatore della Sicilia non ha intenzione di fermarsi sulla sua ordinanza che chiede lo sgombero degli hotspot dell’isola e risponde al no del governo parlando di responsabilità sanitarie. Si finirà probabilmente con un ricorso al tribunale amministrativo ma intanto la provocazione ha preso piede tra i sostenitori di destra e corre sul web. TPI ha intervistato Claudio Fava, deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana.
Fava, il governatore Musumeci insiste. Come legge questa ultima uscita sullo svuotamento degli hotspot e la chiusura ai nuovi arrivi?
È già un pezzo di campagna elettorale, perché ha riannodato i fili di una coalizione piuttosto frammentata e lasca e naturalmente ha ottenuto le benedizioni della destra alla quale Musumeci continua a rivolgersi. Manifesta la sua indole, la sua cultura politica: è un autoritario, convinto che la migliore forma di governo sia quella di affidare al podestà le chiavi della vita dei cittadini. Anche se si affida ai poteri di tutela della salute lui sa perfettamente che intervenire sui porti, sulle prefetture, sugli hotspot è competenza esclusiva del governo nazionale, segnatamente del Ministero dell’Interno. Ma è un modo per rimettere al centro una parola che sia una calamita e che ha bisogno di nemici facili, l’immigrato portatore di contagi.

Quindi è tutta campagna elettorale…
L’altra ragione è che c’è un fallimento complessivo su tutta la politica di investimento del post-Covid, le risorse promesse per il settore del turismo non sono mai arrivate, nemmeno un centesimo, le condizioni dell’isola sono abbastanza allo sfascio quindi un giorno ci si inventa il ponte, un giorno il tunnel, un giorno chiudiamo gli hotspot. Tutto pur di non parlare di quello che accade a casa nostra: c’è un’ordinanza di controlli per chi arriva dai Paesi considerati focolai poi però in aeroporto, nei porti e nelle stazioni i controlli sono minimi e anche in questo Musumeci dice che la responsabilità non è sua ma del Ministero dei Trasporti.
Una responsabilità che palleggia…
Su alcune cose dice “la responsabilità non è nostra”, su altre dice “la responsabilità non è nostra ma me ne occupo direttamente io”. In questo un po’ ci è un po’ ci fa.

Sembra seguire un po’ il copione di certe Regioni di centrodestra che giocano sul Covid per scontrarsi con il governo e fare parlare di sé. Non è simile all’atteggiamento della Lombardia con Fontana?
Sì. In più nel suo caso c’è una sfumatura di carattere politico, di identità politica. Gli piace fare il podestà. Dopo il Covid ha preteso e ottenuto dalla sua maggioranza il voto su un emendamento infilato in una legge che gli dà, in caso di emergenza sanitaria, pieni poteri e la possibilità di emanare delibere di giunta anche in contrasto con la legislazione vigente. Ed è una cosa abbastanza bizzarra, decidono loro a quale normativa possano derogare senza passare dal Parlamento regionale. È la sua idea di ventennio e ha utilizzato il Covid per ritrovare quei toni, quel cipiglio. Un tempo era un atteggiamento inoffensivo e invece oggi interviene su un tema vero, reale.

Esiste comunque un problema immigrazione in Sicilia?
Esistono problemi concreti nelle città che sono il punto di approdo naturale per i profughi. Non lo risolvi chiudendo, lo risolvi cercando di avere un livello di partecipazione da parte di tutte le Regioni. Anche perché non possiamo lamentarci dell’Europa che non fa la propria parte e poi in Italia lasciare che siano le Regioni di frontiera a occuparsene perché le altre non vogliono rotture di coglioni. Abbiamo un sistema geopolitico basato sul principio dell’egoismo: non a casa mia. È una questione che va affrontata da un governo che non riesce e non è riuscito a ottenere una linea di condivisione e di consapevolezza e di disciplina partecipata da tutti i presidenti di Regione. Qui tutti, in nome della salute, hanno deciso a casa loro.

Però la propaganda di Musumeci sembra funzionare: cosa dire a quelli che lo applaudono, come riuscire a parlar con loro?
Non è semplice perché se dall’altra parte hai un governo pavido che non è capace di fare un passo e di prendere una direzione risolutiva è chiaro che poi è difficile parlare solo sul piano di principio e della linea della condotta morale. Il cittadino alla fine si trova confortato da un decisionista che può anche essere incostituzionale ma che è una risposta alla preoccupazione. Come per le discoteche si registra una certa inerzia da parte di figure chiave del governo nazionale di affrontare con coraggio i problemi che si presentavano. Ora il tema sono gli immigrati e il tema ha bisogno di un tavolo di soluzione che non può essere affidato a ciascun presidente di Regione. Avere un nemico, un untore, qualcuno su cui scaricare le proprie frustrazioni in tempo di crisi conforta molti, anche chi non ha nulla a che fare con quella cultura politica. Poi magari un giorno ti svegli e ti accorgi che gli untori sono i tuoi figli che sono andati a fare un party e sono tornati asintomatici e carichi di virus.

Leggi anche: 1. Sicilia, ordinanza di Musumeci: “Entro le 24 di domani migranti fuori dall’isola”. Ma il Viminale lo blocca: “Non può farlo” / 2. Sicilia, Musumeci non molla: “Il governo vuole un campo di concentramento per migranti, vado dalla magistratura”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Caso Diciotti e sgombero Casapound: ecco le 5 differenze che svelano tutta l’ipocrisia del governo gialloverde

Se sono entrambi stati votati dagli italiani, perché Salvini può decidere per conto suo e invece la Raggi deve sottostare alla burocrazia? È evidente che i giallo-verdi agiscono usando due pesi e due misure (peraltro tutti a favore della Lega). Una farsa imbarazzante, che deve essere chiara a tutti

https://www.linkiesta.it/it/article/2019/02/21/caso-diciotti-sgombero-casapound-a-confronto-contraddizioni-governo/41168/?fbclid=IwAR1ECe6JhZwg5JhClvEY5i1pY8olTTCuIui4cnoEA-BSrmQr3cZl13E62WU

Lo sgombero dei Casamonica. Al di là del tifo.

«Perché mai tutti sparlano di tutti? Credono tutti di rimetterci qualcosa se riconoscono il più piccolo merito a qualcuno».

Si potrebbe partire dalla massima di Johann Wolfgang Goethe per aprire una riflessione sullo sgombero di ieri che ha visto per la prima volta lo Stato (e il Comune di Roma e Regione Lazio) alzare la voce con la schiena dritta contro il clan dei Casamonica, facendoli sloggiare dalle loro ricche (e abusive) abitazioni

«Ma perché ci salvate, se non ci volete?»

Il quarto sgombero in poco più di un mese. Oggi, 7 novembre, come annunciato dai volontari, le tende in cui trovavano rifugio più di cento migranti transitanti da Roma sono state tolte con la forza.

«Ma perché ci salvate, se non ci volete? Perché ci salvate se pensate che la nostra vita non vale quanto la vostra?», scrive su facebook Myriam El Menyar dalla pagina di Baobab experience. Sotto la pioggia battente di queste ore, questa mattina, 70 migranti sono stati identificati, prelevati dalle forze dell’ordine e condotti all’ufficio stranieri di Via Patini. Tutti loro sono già in attesa di protezione internazionale e relocation europea.

«Non aiuteremo le forze dell’ordine e l’AMA a smantellare l’accampamento di fortuna», hanno continuato a ripetere i volontari, mentre sotto i litro occhi si preparava lo sgombero. «Non smonteremo le tende donate dai cittadini, già riparo insufficiente alle violente precipitazioni di questi giorni. Resisteremo, in modo pacifico ma fermo. Dalla parte giusta».

Intanto, più di cento migranti in transito dalla Capitale, restano per le strade di Roma, in cerca di riparo dalla pioggia battente di queste ore. Buonanotte Italia.

(Ne scrive Left, qui)

Qui: dove anche la foto di un bimbo morto scade quasi subito.

Nello sgombero dell’accampamento a Ventimiglia ci sono alcune piccole scene, gesti minori ma simbolici che meritano un’osservazione:

Le ruspe. Davvero. Non si sarebbe mai creduto che potessero diventare qualcosa di più di uno schizzo sulla maglietta o dalla bocca di Salvini e invece eccole proprio a Ventimiglia. La città che era diventata simbolo dell’accoglienza e che davvero sembrava avere preso coscienza di essere semplicemente una zona di passaggio bloccata dalla miopia politica europea. E invece ecco le ruspe: così Toti (il governatore più trasparente delle regioni italiane) potrà ricamarsi una vittoria sul bavero.
I rifiuti: quegli indumenti trattati da stracci, quelle coperte lanciate nei camion della spazzatura sono oggetti portati molto spesso dai cittadini. Doni. Gesti concreti di un’accoglienza che mentre cerca le proprie regole vorrebbe avere il diritto di restare sospesa. Non è stato sgomberato un luogo illegale: è stata spianata la residenza di un bisogno. Come se si potesse usare la discarica come un tappeto e nasconderci la polvere sotto.
I fogli di via. Nei giorni scorsi chi prestava aiuto è stato invitato ad andarsene con un foglio di via. Oggi possiamo dire che era l’antipasto della smobilitazione. Le istituzioni che ritengono pericolosi gli “aiuti” non organizzate sono spesso le istituzione che hanno paura di mostrarsi nude, sguarnite in qualche dovere che gli spetterebbe. Così “via i migranti, via i bisognosi, via i solidali”: a rileggerle tra qualche anno queste cose ci faranno inorridire. Inorridire.
Il vescovo colpevole di dare da mangiare agli affamati. Il sindaco Ioculano ha criticato la scelta del vescovo di Ventimiglia Antonio Suetta di dare qualche migliaio di euro ai volontari per garantire il cibo sufficiente. La misericordia è un ostacolo al buon governo. Aspettiamo con ansia l’incoronazione di Nerone.
Qui: dove anche la foto di un bimbo morto scade quasi subito.

Ne ho scritto qui.

Il solstizio d’estate è in viale Montello, a Milano, dietro al sorriso di Lea e Denise

MILANO – Blitz delle forze dell’ordine giovedì mattina in viale Montello 6, lo stabile tristemente noto come il «fortino delle cosche». Dopo quarant’anni, finalmente è stata espugnata la più longeva roccaforte di spaccio e racket di Milano, creata dalla famiglia Cosco, coinvolta nel caso di Lea Garofalo, la donna sciolta nell’acido. Strada chiusa al traffico, impiegati una settantina di uomini delle forze dell’ordine tra polizia e carabinieri per liberare l’edificio. (il Corriere ne parla qui)

Chi passa di qui lo sa bene, su Lea Garofalo e il clan Cosco ci abbiamo lasciato una pezzo di lavoro e di cuore (qui tutti i post). E sulla loro ingombrante presenza in viale Montello un pezzo di Milano aveva già preteso una soluzione senza mediazioni. Per questo è una buona notizia. Ed è il solstizio d’estate più bello che potessimo augurarci in questo sole milanese.

#MACAO non si sgombera la fantasia

Stanno sgomberando Macao. Sto arrivando lì. Per vedere, per capire. Intanto pubblico l’articolo scritto giusto ieri per IL FATTO QUOTIDIANO.

Eccoci, l’avevamo già scritto, oggi qualcuno vorrebbe insegnarci che Macao è violenza. Niente a che vedere con l’arte, dicono. Invece Macao è fantasia. E la fantasia non può essere violenta per natura. E’ straripante, inaspettata, destabilizzante e selvaggia. Ma mai violenta. E le parole che sono state usate fino a qui non hanno un mezzo centimetro di spessore per cogliere ciò che succede dentro MACAO per provare a riformularlo in risposta politica (o chiamatela pure proposta, se vi viene la paura di dare troppa importanza ai ragazzi del Torre Galfa). E mi vengono in mente una decina di buoni motivi per provare a smettere di balbettare come professionisti del cerchiobottismo. Perché a guardare da fuori quello che sta succedendo si nota come tutti corrano ad occupare la sedia del non prendere posizioneprenderne poca ma timidamentedire tutto e il suo rovescio. E alla fine De Corato rischia di diventare l’unico veramente comprensibile. Anche perché (anche questo proviamo a dirlo da tempo) in medio ci sta virtus me il rischio è la mediazione che marcisce in mediocrità.

MACAO ha bisogno di una risposta politica, civile e culturale. Al di là dello spazio in cui si esercita.

Perché Milano unge Dario Fo ad ogni vernissage e celebra le palazzina Liberty ma forse non sa bene cosa sia successo davvero.

Perché la partecipazione non si può pretendere con la manina alzata e tutti composti ai banchi. E ogni forma di partecipazione ha la propria disciplina (e indisciplina) ma il punto rimane coglierne il cuore.

Perché i fan di tutti gli #occupy del mondo poi in fondo vogliono ordine e disciplina sotto il proprio balcone. Un #occupy federalista: l’importante è che rompa le scatole agli altri fuori dal nostro quartiere.

Perché la cultura (so che a qualcuno dispiace) è fatta anche di lavoratori. E anche i lavoratori della cultura si incazzano come si incazzano tutti i lavoratori del mondo. E anche nella miseria di questo campo cominciano a esserci fastidiosi piccoli Marchionne.

Perché dentro MACAO non ci sono (come leggo in giro) contraddizioni: l’appello di MACAO è semplice, diretto e chiaro. Si può essere d’accordo o meno. Vietati i “ni”, per favore.

Perché sarebbe proprio bello in un EXPO che puzza solo di grigi e lobby immaginare subito un orto per MACAO (con tutto lo spazio che c’è, no?). E poter dire che l’abbiamo curato e innaffiato, quando saremo anziani con i nipoti, raccontarci come l’abbiamo immaginato insieme senza ombre e abbiamo preso la responsabilità di coglierne i frutti. Fare politica, insomma.