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Stefano Bartezzaghi

Eco secondo Bartezzaghi

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«Torna in mente, a questo punto, una serata passata ad Almese, in Val di Susa, dove aveva accettato di ricevere un premio, per omaggiare con affetto sincero la memoria del bravo giornalista culturale della Stampa e di Tuttolibri a cui era intitolato, Giorgio Calcagno. Esaurita la cerimonia ci fu una cena «placée» in un ristorante, allietata dalla musica di una giovane arpista che suonava in mezzo ai tavoli. La cena durò come un medio matrimonio e subito dopo il dessert lo sentii dire, all’altro capo della sala, «ora vado a bermi un whisky con Bartezzaghi». Io ero seduto a un tavolo di notabili locali, vicino all’uscita: Eco passò, reggendo borse che si indovinavano pesanti, e mi rapì dicendo a voce neppure troppo bassa: «Se non andiamo in fretta mi regalano altri libri». In una borsa trasportava preziosissimi acquisti che gli avevano recapitato lì certi librai antiquari torinesi amici suoi; in un’altra aveva alcuni esemplari dell’unica forma di editoria che attualmente non è in crisi: i libri dell’Assessore (volumi illustrati di grande peso e formato, commissionati dagli enti locali a proposito di glorie e tesori del territorio, regalati sistematicamente e con forse involontaria crudeltà a ogni personalità in visita). All’uscita del ristorante scoprii che per l’occasione disponeva di un autista: un signore suo coetaneo, molto loquace e spiritoso, che era stato comandante dei vigili urbani e che era stato incaricato, in mattinata, di andare a prendere il professore a casa. Durante il tragitto avevano molto familiarizzato, con barzellette, aneddoti, confidenze sulle famiglie e sugli acciacchi, forse anche canti: così Eco lo aveva eletto a proprio custode. L’unico bar aperto era sullo stradone che collega Almese al resto della valle, una specie di stazione di servizio, con tabaccheria, tavola calda, pompe di benzina. Trovammo un tavolino sulla terrazza esterna, in mezzo ai clienti notturni, fra i quali conviveva pacificamente una popolazione autoctona di anziani dialettofoni giocatori di carte e/o commentatori «di base» di eventi sportivi e giovani variopinti e vario-tatuati, tutti già un po’ alticci. Il dehors sopraelevato del bar dava sulla strada, su cui rombavano auto, camion e moto. Eco patteggiò le consumazioni, ottenendo le quantità e proporzioni di bevande e ghiaccio da lui preferite. Da quel momento fu a perfetto suo agio per un paio d’ore: non era mai stato là e non conosceva nessun altro, a parte me e, da poco, il comandante in pensione (strabiliato dalla familiarità stabilita con una persona di tanto rilievo), eppure era come se fosse nel suo locale preferito di Milano o Bologna.»

Vale la pena leggere il bel pezzo di Bartezzaghi su Eco e il suo prossimo.

Stupire i sensi e chetare i nervi

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Stefano Bartezzaghi da leggere su ‘nuovo’ e ‘possibile’:

Quindi, quando diciamo «nuovo» non stiamo dicendo molto: in un certo senso è nuova persino la ripetizione ennesima di un jingle o di un luogo comune e le strategie di comunicazione spesso consistono proprio nel fare apparire come nuovo qualcosa che tanto nuovo non è. Il bello è che ciò che si vuol far apparire come nuovo deve essere ripetuto un numero sufficiente di volte da farlo diventare banale: si potrebbe dire che la comunicazione contemporanea consiste nello stupire i sensi e chetare i nervi.

Si potrebbe pensare che la sinistra sia per il nuovo di rivoluzione e di riconfigurazione e la destra sia per il nuovo di ripetizione e di variazione. Categorie come quelle di «conservatori», «moderati», «progressisti», «radicali» potrebbero infatti suggerirlo, nei loro nomi. Purtroppo queste categorie sono davvero vecchie, nel senso che si riferiscono a un mondo in cui la trasmissione del potere era appena passata dai modelli dinastici e aristocratici a quelli democratici.

Nella società di massa non è più così. Quello che è successo quando il nuovo ha fatto mitologia è che il nuovo, il progresso, le riforme, la riconfigurazione e addirittura la rivoluzione non sono stati più bandiere esclusive della sinistra e valori a questa intrinseci. Per dirla in termini gloriosamente vecchi, questa è stata una vera e propria perdita di egemonia.

Anche la creatività, altro termine orribilmente ambiguo, è passata da Bruno Munari e dal movimento del Settantasette ai consigli di amministrazione e ai ministri di economia e finanza. Anzi alla nostra epoca persino i conservatori, con il nome che si ritrovano, hanno dovuto procedere a un rebranding vero e proprio, inventando la buffa sigla «neocon», un ossimoro incarnato da due mozziconi di parola che assieme non dovrebbero poter stare. Ma i conservatori non hanno conservato sé stessi: si vede che hanno fatto qualche progresso.

Inutile dire che spesso il «nuovo» non si realizza neppure: è un’apparenza di nuovo e tutta la polemica da talk show è l’accusa reciproca di propugnare come nuovo qualcosa che nuovo non è, ma è anzi profondamente vecchio. Sempre senza mai mettere in dubbio l’equivalenza fra nuovo e buono, cioè la valorizzazione positiva del nuovo. Cioè la sua mitologia che è anche un’ideologia vera e propria, poiché è ideologica ogni assegnazione a priori di valori positivi e negativi.

Il risultato finale è che, divenuto mitologia, il nuovo non è più utile a orientare alcun discorso verso le differenze fra destra e sinistra che ora, non a caso, vengono date per cadute. Non ci sono linee: c’è una sfera unificata da quel principio di retorica da campagna elettorale per cui il nuovo è buono e bisogna sempre propugnarlo almeno a parole. Partiti e personalità che aspirano direttamente al potere devono collocarsi obbligatoriamente dentro a quella sfera.

Chi vuole ragionarci sopra, si accomodi fuori, dove non c’è obbligo di nuovismo (ma da dove, probabilmente, non si arriva a vincere elezioni). A meno che a cambiare non sia, innanzitutto, questa situazione.

Ma per cambiarla basta la critica e la smitizzazione del Nuovo? C’è di che dubitarne, per quanto il lavoro puntiglioso di analisi critica delle proposte e delle riforme sia necessario.

Il resto è qui.

Il giocatore viene privato del gioco. Grazie.

Sul regolamento di un circolo di minigolf si legge: Il comportamento indisciplinato e con maleducazione, o danneggiando la mazza o l’impianto, il giocatore viene privato del gioco. Grazie. La Direzione.

[Stefano Bartezzaghi, Non ne ho la più squallida idea, Milano, Mondadori 2012, p. 55]