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Se la politica diserta l’addio a Gino Strada e va in massa al meeting di CL

Alla camera ardente allestita per Gino Strada si sono presentate circa undicimila persone. Sapete quanti rappresentanti del governo o delle massime istituzioni sono state presenti? Zero. Zero assoluto. Del resto, visitare Gino Strada mentre il mondo ha gli occhi sulle macerie afghane dovute all’avidità dell’Occidente è qualcosa che richiede un certo pelo sullo stomaco, una capacità di dissimulazione che viene difficile perfino ai politici più spericolati.

Gino Strada, del resto, come dice sua figlia, va benissimo come icona da morto, come andava bene da vivo solo mentre era chiuso in sala operatoria. Altrimenti toccherebbe rispondere alle accuse che per tutta la vita ha brillantemente argomentato contro i signori della guerra che ora si mettono in posa mentre prendono in braccio i bambini davanti alle televisioni del mondo.

La politica, si sa, si compie votando in Parlamento, decidendo al governo, scegliendo le parole da usare e decidendo dove essere presenti (e dove non essere presenti) e i politici nostrani erano tutti, ma proprio tutti, a baciare la pantofola di Comunione e Liberazione al meeting di Rimini.

Come tutti gli anni la festicciola di fine anno di una combriccola parareligiosa riesce magicamente a coniugare tutti, destra e sinistra e buoni e cattivi e perfino il presidente della Repubblica: tutti concentrati a mettere in scena lo spettacolo di una classe dirigente in tournée come se fosse in circo per farsi applaudire dai ciellini. Mentre gli eredi di Gino Strada corrono a suturare le ferite del mondo a Rimini oggi, martedì 24 agosto 2021, Matteo Salvini ci ha spiegato che la ministra Lamorgese no, non va bene e ne chiede le dimissioni perché sarebbe colpevole di essere troppo poco feroce con i disperati del Mediterraneo (nonostante in termini di disumanità Lamorgese abbia comunque ottenuto grandi risultati nella solita guerra alla solidarietà).

Il solito inarrivabile Salvini: subito dopo aver messo in discussione una delle ministre più rappresentative del Governo Draghi – di cui fa parte, anche se finge di non saperlo – risponde alle critiche sul suo sottosegretario Durigon – quello che vorrebbe cancellare la memoria di Falcone e Borsellino per deviarla su Arnaldo Mussolini – dicendo: “Ragioneremo io e Durigon su cosa è più utile fare. Di perdere tempo con il passato non ne ho assoluta voglia”.

Capito? La ministra si prende a cannonate in pubblica piazza, mentre il suo nostalgico sottosegretario compagno di partito è una questione che si deve risolvere nel tinello di via Bellerio.

Sulla politica estera, al meeting di Comunione e Liberazione, abbiamo ascoltato Giorgia Meloni puntare il dito contro Biden per la gestione della guerra in Afghanistan dimenticando 20 anni di storia recente e il suo idolo Trump che decise il ritiro delle truppe.

A proposito di Afghanistan: il renziano Ettore Rosato ci fa sapere, sempre dal meeting di Comunione e Liberazione, che dobbiamo organizzare l’accoglienza dei profughi e che “tra l’altro molti di loro sono persone istruite, colte che conoscono lingue”. Chissà cosa gli avrebbe risposto Gino sentendo questo classismo perfino nella solidarietà.

Meloni si è anche lamentata di essere additata come omofoba solo perché si oppone al Ddl Zan. Ma che strano: un’amica di Orban ed Erdogan (noti omofobi) che si oppone a una legge contro l’omotransfobia e che si è inventata una “ideologia gender” che esiste solo nei bigini della destra peggiore viene accusata di essere nemica della comunità Lgbti. Che vergogna, signora mia.

Ovviamente al meeting di CL non poteva mancare un attacco contro i poveri, colpevoli di essere poveri e che si meritano di essere poveri, perché se sono poveri non può significare altro che siano dei falliti e indolenti.

“Io lo sento dire ogni giorno da centinaia di imprenditori, commercianti, lavoratori. Il reddito di cittadinanza sta creando enormi problemi, sta provocando un deserto economico, e anche morale perché disincentiva alla politica. Crea solo un deserto economico e morale perché diseduca le persone alla fatica e alla sofferenza”, dice Matteo. No, no, non è il solito Matteo Renzi che tuona come al solito contro il reddito di cittadinanza: è l’altro Matteo, sempre più gemello, Matteo Salvini, che chiede scusa per averlo votato.

Avere poi una classe politica (in gran parte di sfaticati) che si pone l’obiettivo di “educare le persone alla fatica e alla sofferenza” e viene applaudita di gran lena rende perfettamente l’idea sullo stato delle cose.

Poi c’è Antonio Tajani: Tajani di quella Forza Italia che qui da noi ha smantellato la sanità pubblica (e con CL ha reso la Lombardia regina degli interessi privati della sanità privata) che chiede di “rifondare il sistema sanitario”. Applausi anche qui. E alla fine, ascoltandoli, viene perfino da ringraziarli di non essere passati da Gino. Meglio così.

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“Gino Strada morto piace a tutti perché non parla”, l’accusa della figlia Cecilia

«Ci dicono: “soffriamo la sofferenza”. Hanno sofferto in Africa e dover aggiungere sofferenza alla sofferenza è difficile da spiegare e da capire»: Juan Gil, il capo missione della Resq People, al telefono racconta la difficoltà di tenere sulla sua nave 166 persone raccolte nel Mediterraneo in 4 differenti operazioni di soccorso. «Abbiamo 24 donne, 17 minori di cui 3 con meno di 5 anni, un bambino di 9 mesi e una bambina di un anno». La nave italiana è in attesa di un porto e per ora riesce a gestire le persone a bordo ma, come ci dice Gil, «oggi vediamo il mare più mosso, non è più come nei giorni precedenti e stare in mare non è certo il posto adatto per chi ha sofferto patimenti, detenzione, estorsioni e violenze». Malta ha rifiutato il porto mentre dall’Italia non è giunta ancora nessuna risposta. «Siamo sempre in attesa. Abbiamo qualche giorno di autonomia per quanto riguarda il cibo ma la situazione preoccupante sono le persone che non capiscono quando sbarcheremo e ogni giorno inevitabilmente cresce l’ansia e ogni giorno ci è più difficile riuscire a spiegare».

Sulla stessa nave è impegnata anche Cecilia Strada, figlia di Gino Strada il fondatore di Emergency che è mancato nei giorni scorsi e che per anni si è impegnata con l’associazione in Afghanistan. «In questo momento trovarmi qui è uno strazio – dice Cecilia Strada – perché non riesco a seguire granché dovendoci occupare della navigazione e delle persone a bordo. Penso però ai molti amici, i colleghi, alle molte persone che ho incrociato negli ultimi anni. Prima mi è capitato di prendere per 5 minuti il telefono in mano mentre ero in pausa, e ho scoperto che è ancora pieno di foto della mia ultima volta in Afghanistan. Guardando quei volti mi viene naturale chiedermi se quelle persone oggi siano ancora vive».

Così mentre scoppia l’emergenza in Afghanistan Cecilia Strada si ritrova nel mezzo di un’emergenza in mezzo al mare: «ma non dobbiamo parlare di “emergenza profughi”: l’emergenza sono i profughi, la tragedia di queste persone, la loro emergenza di persone in mezzo al mare o nei centri di detenzione in Libia o qualsiasi altro luogo di violenza. Quello che sta accadendo è il naturale risultato di ciò che accade, è la Storia che chiede il conto: vivere in un sistema sbagliato e violento sicuramente non farà piovere pasticcini. Se si vive in una sistema che chiude i canali d’accesso legali la gente muore nel deserto, in mare o nei centri di detenzione e così come accade in Afghanistan se si usa la guerra per fare finire la guerra è naturale che si continui con la guerra». Cecilia Strada dice che «in Afghanistan è andato storto tutto e l’incubo peggiore oggi è diventato realtà».

Nel giorno in cui è mancato il padre Cecilia ha detto di essere dove “doveva essere”, “a salvare vite umane”: «Noi tendiamo a piangere sempre quando è troppo tardi – ci dice – a commuoverci quando ormai la gente è fottuta. Ci impressiona il cadavere del bambino sulla spiaggia, ci provoca angoscia e disagio. Ci impressionano le persone aggrappate alla carlinga dell’aereo a Kabul ma sono le stesse persone del giorno prima: dobbiamo muoverci prima e non commuoverci dopo».

Sul lutto piuttosto ipocrita dopo la morte del padre dice di non avere «fatto in tempo a vedere niente ma sono sicura che non avrei avuto nemmeno troppa voglia. Ho saputo di gente che l’ha pianto dopo non avere mai perso l’occasione per attaccarlo. Del resto Gino morto piace a tutti perché un morto non parla. Se stava zitto e curava la gente piaceva ma quando apriva la bocca e raccontava il perché della guerra e delle armi allora non piaceva più. Gino Strada doveva stare zitto in sala operatoria, solo così».

Ora Resq aspetta con urgenza un porto. «Quel porto che se avessimo a bordo dei francesi soccorsi dopo un incidente su una barca a vela arriverebbe immediatamente e che invece a questi che non sono bianchi diventa difficile dare. Eppure chi ha un problema in mare ha diritto a scendere prima possibile a terra. Questa notte andiamo a riparare tra Capo Passero e Siracusa per proteggerci dal vento e dalle onde e intanto aspettiamo fiduciosi una risposta».

E quando le si chiede se davvero è fiduciosa, Strada risponde: «Io ho fiducia nel genere umano, una fiducia smisurata. Solo che se fosse una quindicenne bianca che racconta quello che abbiamo ascoltato oggi da una quindicenne che abbiamo a bordo, allora aprirebbero i porti, gli aeroporti e perfino le astronavi. Noi aspettiamo»

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Strada, la morte ti fa bello

Lacrime, lacrime di coccodrillo dappertutto. E chissà come si sarebbe incazzato Gino osservando questi politici impudichi che si atteggiano a prefiche mentre spremono lacrime artificiali dai loro profili social, mentre usano la faccia di Gino per accelerare gli algoritmi, per allinearsi al lutto in tendenza e meritarsi un trafiletto. Il giorno dopo la morte di Gino Strada l’ipocrisia fa perfino più schifo del giorno prima, ci sono tutti in prima fila, come se si fossero tolti un peso, serbando la speranza che la morte cancelli il più in fretta possibile anche la memoria, quella recente e quella passata. Perché Gino possa essere immolato a santo laico diventando un simbolo e svuotandone il senso.

Le opinioni di Gino Strada scivolate come il vento

Sì, perché se è vero che Strada ha dato con Emergency un contributo monumentale alla cura nelle zone di guerra è vero anche che Gino Strada ha ribadito spesso giudizi e opinioni che sono scivolate via come vento. Il Gino medico nelle zone più oscure del mondo andava benissimo ma gli occhi e la lingua di Gino sulle cose nostre erano trattati come si fa per gli ospiti indesiderati. Onorano Gino da morto, mica l’hanno ascoltato da vivo. Però, vorrebbero essere credibili. Vorrebbero essere credibili coloro che hanno insozzato il Mediterraneo più di quanto possano fare i cadaveri e che oggi lo piangono. I protagonisti dei Decreti Sicurezza e della becera propaganda sovranista: lo piange ipocrita Conte che è stato presidente del governo più apertamente inumano, lo piange ipocrita il Pd che ha spianato la strada fin dai tempi di Minniti, lo piange Draghi che però non aveva trovato il tempo di rispondergli sulla Libia, lo piange Gentiloni, lo piange Renzi, lo piange perfino Salvini. Che prega per Gino Strada dopo averlo additato come protagonista della «mangiatoia dell’immigrazione clandestina» è la fotografia perfetta del sudiciume che vorrebbe odorare d’incenso.

Alla fine basterebbe leggere i commenti sotto il (finto) cordoglio di Zaia per capire il tilt a cui stiamo assistendo: «Quanta retorica! Ma che fine ha fatto la Lega? Ah già! Sta al governo con quelli che una volta erano gli antagonisti. Che fine miserabile! Pensare che vi ho creduto! Bleah!», scrive un elettore leghista, poi «Governatore non mi sembra il caso di santificare», «Per lui esisteva chiunque che non era italiano», «Se per impegno umanitario s’intende quello di far arrivare migranti in Italia a iosa è meglio se ti iscrivi al Pd caro Zaia. Sei sempre più come il latte scaduto caro governatore». Questo per capire il livello della discussione.

Nessuna risposta prima e onore oggi

La politica omaggia Strada eppure è la stessa politica che ha pensato e attuato una sanità diventata profitto, a disposizione in base al reddito, mercificata attraverso le privatizzazioni. Nessuna risposta prima e onore oggi. Gino Strada stava con quelle Ong che sono state combattute da Renzi, Minniti, Gentiloni, Di Maio, Conte, Lamorgese e Draghi: morto Gino gabbato lo santo. Lo definivano burbero Gino, perché caratterizzarlo come un perenne stizzito era il modo migliore per annacquare le sue parole e per delegittimarlo in modo dolce: è un nevrastenico che esagera, uno che dice cose giuste ma estreme. Non prendetelo alla lettera e semplicemente ringraziatelo con un buffetto. Questo era il messaggio.

La convinzione che sarà difficile trovare un altro come lui

È proprio per questo che la perdita di Gino è enorme: si annusa nell’aria una certa convinzione feroce che ci vorrà parecchio tempo prima di trovare un altro che come lui ha guardato dritto negli occhi il potere dalle mani insanguinate con il coraggio che può dare il salvataggio estremo di un bambino saltato in aria su una mina a forma di giocattolo. C’è molta politica che si è tolta un grande peso nella quotidiana battaglia per riaffermare valori non negoziabili come i diritti che siano davvero di tutti. O come il dovere di salvare anche l’uomo più sconosciuto nell’angolo più nascosto del mondo.

Piangono ma sono lacrime di coccodrillo, posture finte che dureranno giusto il tempo del funerale eppure nessuno che abbia il coraggio di dire che Emergency, in un mondo umano e normale, nemmeno avrebbe dovuto esistere. E basta leggere gli editoriali di oggi per rendersi conto che si sta raccontando una storia di buoni dappertutto, in guerra contro la guerra e contro i mali del mondo. Tutto bellissimo, certo, anche piuttosto funzionale per scriverci un editoriale ma mancano i cattivi. Qualcuno è responsabile del dolore che Gino Strada e Emergency curano e hanno curato. Almeno non lasciamogli la facoltà di mimetizzarsi in mezzo al dolore.

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Gino Strada: «L’Italia ripudia la guerra ma siamo in guerra da oltre vent’anni»

Una larga fetta del Paese rifiuta l’odio xenofobo diceva Gino Strada in questa intervista per poi aggiungere: «Ma c’è bisogno di un nuovo soggetto politico. Spero che nasca»

Cosa rispondere a chi ancora continua con la retorica dell’invasione?
Risponderei di informarsi. Qui non c’è nessuna invasione, sembra che il problema dell’Italia non siano i trecento miliardi e passa lucrati dalle mafie, i centocinquanta miliardi di evasione fiscale, altri centinaia di miliardi di corruzione ma sembra che il problema siano quaranta migranti fuori dal porto di Lampedusa. Su questo si è costruita una narrazione fasulla. In Italia in questo momento sono più i giovani che se ne vanno di quelli che arrivano. Certo, gli stranieri vengono qui per ragioni diverse rispetto a chi emigra poiché l’Italia è un Paese mediamente ricco. Ma dov’è questa invasione? Calcoliamola in termini demografici: è una follia, non esiste, è una cosa costruita ad arte perché bisogna alimentare l’odio verso il diverso. Diverso che può essere declinato in vari modi: può essere il rom, il sinti, l’ebreo o il nero. Ma è un odio che si riversa sempre su chi sta al di sotto nella scala sociale. Come se la responsabilità dei problemi, anche drammatici, che vivono gli italiani, come la crisi economica e la difficoltà di arrivare a fine mese, fossero colpa degli ultimi e non colpa di chi invece sta più in alto nella scala sociale. E questa è una pazzia tipica della mentalità fascista.
Però molte persone dicono: «Non ho rappresentanza politica, non ho molti mezzi, sono un cittadino normale, cosa posso fare?». Come gli risponderesti?
Io sono tra quelli che non hanno rappresentanza politica. “Nel mio piccolo” è sempre la domanda più grande su cosa possa fare una persona. Io credo che di cose da fare ce ne siano tantissime. Cominciando dall’informarsi e dal capire l’entità reale dei problemi e delle questioni. Fino al continuare ad esercitare delle pratiche alternative, delle pratiche di resistenza e ce ne sono tantissime. Non c’è soltanto Riace, c’è una solidarietà diffusa molto importante. Poi il cittadino normale non ha spesso altri modi per dire le sue opinioni se non votando. Fino a quando non ci saranno più le elezioni, che, attenzione, non significano per forza democrazia: a volte è un esercizio tecnico e poi quando si va sui tecnicismi elettorali si vede che in realtà di possibilità di scelta il cittadino non ne ha. Però si potrebbe iniziare prendendosi l’impegno di non votare per nessuno che non ripudi sul serio la guerra. Io non voterei mai un partito che non mi garantisce che non farà mai la guerra in nessun caso, tranne ovviamente il caso di subire un’invasione militare ma non mi sembra il nostro. Io credo che il primo compito della politica sia quello di rispettare la Costituzione e i suoi principi fondamentali tra cui il ripudio della guerra e invece abbiamo una classe politica che delinque tranquillamente contro la Costituzione, senza nessun problema, e nessuno glielo fa notare.
L’Italia ripudia la guerra…
Sì, ma siamo in guerra da oltre vent’anni. O ce lo siamo dimenticati? Ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan. Certo si possono fare le solite operazioni di trasformismo: se un mio avversario compie un gesto di violenza è terrorismo mentre se lo compio io è un atto umanitario. Dobbiamo fare sparire queste nebbie, chiamare le cose con il loro nome: la guerra è guerra. L’Afghanistan è l’esempio più lampante: siamo andati lì con una decisione presa un mese dopo l’inizio dell’attacco americano e siamo ancora lì, abbiamo avuto tanti morti, abbiamo speso miliardi. C’è qualcuno che mi sa dire una ragione per cui noi siamo in Afghanistan al di là del servilismo verso gli Usa? Puro servilismo. Diciamo che siamo una colonia. Abbiamo 70 testate nucleari americane sul nostro territorio, la nostra politica estera non esiste, si prendono solo ordini. Perché oggi siamo nella Nato? Perché siamo in un’alleanza militare? Queste domande ormai non si possono nemmeno più fare, si dà per scontato che siamo una dependance degli Usa. I nostri politici fanno ridere, non hanno nemmeno quella dignità e quell’orgoglio nazionale che tra l’altro tanto vantano.
L’argomento del momento è la vicenda della Sea-Watch e la decisione presa della sua comandante…
Al di là dei dettagli tecnici mi pare che qui sia in gioco un principio: si tende a criminalizzare chi aiuta. Questa cosa è intollerabile, inaudita, perfino inaspettata nella sua rozzezza, nella sua stupidità. E questo purtroppo è un processo che va avanti da qualche anno, dal governo precedente: la guerra alle Organizzazioni non governative è iniziata con il governo a guida Pd e Minniti ministro dell’Interno.
Improvvisamente sembra che una parte degli italiani sia diventata legalitaria, tutti rispettosi delle leggi e tutti pronti a crocifiggere Carola Rackete, che ne pensi?
Vedo che siamo in un periodo in cui tutti urlano, tutti gridano, c’è gente che parla di cose che non conosce, sembra che l’incompetenza sia diventata la regola. Però io non ci credo che a questo schiamazzo di una politica ormai vergognosa corrisponda un vero sentire degli italiani. Credo che molta gente, probabilmente la maggioranza, stia mal sopportando questo clima. Per questo credo che la situazione sia ancora reversibile almeno nel nostro Paese. È vero che c’è una macchina propagandistica pazzesca e che c’è un’assenza delle più alte cariche dello Stato. Che non ci sia nessun commento sul fatto che ormai la politica si faccia con i tweet e il dibattito si faccia con gli insulti, se non con i pestaggi, è preoccupante. Un membro del Parlamento che si permette di dire «affondiamo la nave»… sono cose che erano impensabili alcuni anni fa. Però io non credo che tutto questo sia il sentire degli italiani.
Quindi sei ottimista?
Io vedo un Paese dove c’è molta solidarietà. Un Paese dove ci sono migliaia di organizzazioni, di associazioni, piccole o grandi o medie che siano, che si danno da fare comunque per migliorare la vita delle persone. Questa cosa è incompatibile con la politica attuale. Se pensassi che veramente gli italiani la pensano come Salvini dovrei concludere da medico che ci sia stato un cambiamento genetico e antropologico degli italiani. Tutta questa società civile, una volta si chiamava così, credo che vorrebbe un mondo diverso, più equilibrato, più giusto, più sereno, meno carico di odio. Credo che questa sia una brezza che c’è già e che spero diventi vento forte.
Un fischio?
Sì. Non c’è bisogno che urli una bufera però, insomma…
Però è vero che sembra che questa parte d’Italia non trovi da una parte una rappresentanza politica e dall’altra una narrazione sui media aderente alla realtà…
Questo è sicuro. Basti pensare che qualche giorno fa l’ex ministro della Difesa (Pinotti, Pd, ndr) ha emesso un comunicato di solidarietà alla Guardia di finanza e questa dovrebbe essere l’opposizione. Poi si chiedono perché perdono i voti. Ma questi sono loro. Non c’è dubbio che ci sia bisogno di un nuovo soggetto politico, non ho il minimo dubbio su questo. Credo che il Pd sia morto, sepolto e purtroppo non prenderanno mai la decisione di sciogliersi che sarebbe un grande passo avanti per l’Italia. C’è bisogno di un nuovo soggetto politico che ridefinisca le regole del vivere associato. Spero che nasca.

L’intervista di Giulio Cavalli a Gino Strada è stata pubblicata su Left del 5 luglio 2019

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Le altre interviste a Gino Strada pubblicate negli anni su Left sono qui–> https://left.it/tag/gino-strada/

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il dramma di Moussa: pestato in strada e incarcerato, si toglie la vita a 23 anni

Innanzitutto diamogli un nome, perché ieri per quasi tutto il giorno il ventitreenne proveniente dalla Guinea Moussa Balde che si è suicidato domenica 23 maggio nel Centro permanenza rimpatri di Torino è stato solo un “immigrato”, per alcuni “un clandestino”, un “irregolare”, comunque “uno straniero” e come cappello di ogni cronaca della sua vicenda si leggeva di quanto fosse depresso, malato, dedito all’alcol e un’altra decina di altre caratteristiche che tornavano utile a cannibalizzarlo, a trasformarlo in “altro” così quel morto suicida poteva essere facilmente disinnescato, interessarci solo di sguincio, una notizia del solito straniero fuori di testa da mettere in pagina.

Invece la storia di Balde Moussa va raccontata per intero perché c’è dentro tutto il fallimento di questo Paese (e questa Europa) che non solo non tende la mano ai morituri ma non si prende nemmeno la briga di salvare i salvabili, che getta nel sacco dell’umido tutti i periferici che non hanno nemmeno una porta a cui bussare per diventare visibili.
Il 9 maggio Balde Moussa ha fatto capolino nei giornali per essere stato massacrato di botte nei pressi del Carrefour di Ventimiglia. Tranquilli, anche in quel caso è andato tutto come previsto: nonostante girasse un filmato chiarissimo in cui si vedeva il bastone sulla carne, si sentivano le urla terrorizzate dalle finestre, si scorgeva una donna chiedere aiuto urlando “lo ammazzano” mentre tre baldi uomini si accanivano su di lui anche in quel caso la notizia è stata trattata come si tratta un pestaggio di uno straniero: “era ubriaco”, si sono affrettati a scrivere tutti, “aveva litigato qualche minuto prima con uno dei tre”. Come se da qualche parte esistesse una legge (anche morale) che consenta la lapidazione come legittima difesa.

Le forze dell’ordine, rispettando questo infame ordine delle cose che ha preso piede dalle nostre parti, si sono premurati di verificare l’irregolarità del ragazzo nel territorio italiano e hanno raccontato il pestaggio estraendo dal cilindro il presunto movente del presunto furto del presunto telefono di uno dei tre aggressori. Capito? Allora tutto a posto, allora la violenza criminale condita con un po’ di razzismo è passata in secondo piano. Lui, Balde Moussa, raccontava ai compagni di cella del Cpr di Torino (perché noi abbiamo carceri per persone non condannate sul nostro territorio, un abominio giuridico che continuiamo a fingere di non vedere) che in realtà era tutto un tentativo di zittirlo e invisibilizzarlo. Ora vai a sapere la verità, tanto è morto e si è risolto il problema. Il comunicato ufficiale dice che Balde Moussa sia stato trovato morto impiccato con delle lenzuola mentre si trovava in isolamento nella sua cella. Nel Cpr era stato con alcuni compagni di cella e poi (senza una motivazione specifica) in isolamento per non meglio precisati “motivi sanitari”. Qualcuno parla di una depressione: che per i depressi sia meglio star soli deve essere una nuova scintillante teoria che sarebbe curioso farsi raccontare.

Di certo alcuni testimoni raccontano che gli erano state negate richieste di aiuto e di soccorso per i dolori e che, nonostante la prognosi rilasciata dai medici dell’ospedale, quelle botte erano state ignorate dagli operatori, dalle guardie e dallo staff medico del centro di detenzione. Non è difficile crederlo: al di là del caso specifico che nei Cpr non vengano rispettati i più basilari diritti è una non notizia che ogni volta coglie impreparati solo coloro che fingono (male) di non sapere. Il girone infernale dei Cpr è fatto di militarizzazione estrema, di mancanza delle più basiche regole di igiene, di nessuna comunicazione ai detenuti (che non conoscono nemmeno i propri diritti), di udienze su fascicoli che spesso non sono mai nemmeno stati letti e, poiché il sistema dei rimpatri è completamente farlocca, di “liberazioni” con inviti a tornarsene al proprio Paese autonomamente.

Balde Moussa ha affrontato il viaggio per arrivare in Europa, non riusciva a passare il confine a Ventimiglia (non voleva rimanere in Italia, voleva andare verso nord), è stato pestato ed è finito in un carcere dopo essere stato vittima di un reato. Tecnicamente si è suicidato, certo, ma siamo sicuri di non sapere chi siano i mandanti e i fiancheggiatori?

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Siete nudi e applaudite?

La Rai lottizzata dalla politica fa schifo. La repressione del diritto di espressione di un artista fa schifo, soprattutto quando non ci si prende nemmeno la responsabilità di farlo alla luce del sole ma si usano parole oblique come “contesto”, come “sistema” e come “opportunità” senza nemmeno avere il coraggio di dire “noi preferiremmo non esporci”. Almeno sarebbe stato coraggioso da parte della Rai, almeno quello, almeno riconoscere che in Rai il primo grande talento E mica solo in Rai, anche in certi ambienti, in certe aziende, in certe fabbriche perfino nel mondo editoriale e teatrale, posso confermarvi.

Però questo centrosinistra che applaude Fedez senza accorgersi che è stato smutandato anche lui un po’ mi lascia perplesso. Posso scriverlo o si offende qualcuno? Perché sulla legge Zan sono molti che per non disturbare il proprio elettorato moderato (nel centrosinistra ci sono vagonate di politici convinti di avere vagonate di voti moderati) hanno preso la strada della tiepidezza senza mai dirci esattamente come la pensino. E accade per tutti le leggi che questi reputano “divisive” (e nel corso degli anni è diventato perfino divisiva la Liberazione, tanto per dire quanto sia pericoloso questo giochetto) che quelli che dovrebbero combattere i bigotti, gli omofobi, i razzisti in realtà non riescono a essere più che tiepidi.

È la politica che dovrebbe assumersi la responsabilità di un servizio televisivo pubblico che sia libero, è la politica che dovrebbe avere la responsabilità di condannare la marcia e intollerabile campagna omofoba che circola contro gli oppositori della legge Zan, è la politica che dovrebbe fare diventare “pop” gli argomenti di Fedez. Se Fedez non è un semplice testimonial ma diventa addirittura un apripista significa che qualcuno quella strada non l’ha segnata e avrebbe dovuto farlo, no?

Applaudire senza accorgersi di essere tra gli scoperchiati è piuttosto comodo e facile. Siete nudi e applaudite? Dai, su, rivestitevi e fate il vostro dovere. In Parlamento e fuori.

Buona domenica.

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La bugie di Conte sui migranti: “Con me porti mai chiusi”

Riposizionarsi in politica, si sa, costa fatica, richiede spalle molto larghe e soprattutto una credibilità che va trattata con cura. Se dovessimo pensare al principe del riposizionamento di questi ultimi anni non potremmo che cadere sulla figura di Giuseppe Conte, l’ex due volte presidente del Consiglio che è riuscito nell’impresa di governare con la Lega di Salvini per poi, nel giro di qualche mese, essere addirittura indicato come “il punto di riferimento dei progressisti” dal Partito democratico. Merito anche della liquidità di un’epoca politica in cui una buona narrazione conta molto di più degli ideali, Conte è riuscito a imbastire una drammaturgia perfettamente pop e magistralmente funzionale.

Cambiare opinioni e posizioni non è un peccato, in politica può essere un pregio se l’evoluzione è motivata e risulta credibile a vecchi e nuovi elettori ma Conte sceglie per riposizionarsi la svilente strada della negazione e questo no, non è accettabile: «con i miei governi i porti non sono mai stati chiusi» ha detto l’ex presidente del Consiglio al webinar delle Agorà a cui ha partecipato con il segretario del Pd Enrico Letta. Un’affermazione (furbescamente accettabile dal punto di vista giuridico) che cozza furiosamente con il primo Conte, quello con Salvini al ministero dell’Interno e con tutta la fanfara dei “taxi del mare” e le Ong finite in decine di inchieste che si sono tutte dissolte. Basterebbe un’immagine per raccontare quel Conte: c’è il futuro leader del Movimento 5 Stelle che sorride sornione con il suo ministro Salvini reggendo un foglio con l’hashtag #decretosalvini e la dicitura “sicurezza e immigrazione”. Quello è stato il punto più alto (o più basso, a seconda dei punti di vista) della piena condivisione della linea leghista. Quel testo era stato approvato il 24 settembre 2018: il comunicato stampa del Consiglio dei ministri precisa che ci si riunì «alle ore 11.41 a Palazzo Chigi, sotto la presidenza del presidente Giuseppe Conte».

Le parole sono importanti. Vale la pena ricordare anche come Conte, rispondendo al Pd (in quel caso nella veste di oppositore) sul caso Aquarius, appoggiò in toto la linea dura di Salvini: usare il divieto di sbarco per mostrare i muscoli contro l’Europa. Poi la Sea Watch e la comandante Carola Rackete. «È stato – disse Conte – un ricatto politico sulla pelle di 40 persone». Insomma, non proprio le parole di chi vuole prendere le distanze dalla politica di Salvini. A luglio 2018 anzi proprio l’allora premier rivendicava (sta ancora sul suo profilo Facebook) il risultato della spartizione dei migranti ottenuto lasciandoli in mare per giorni: «Francia e Malta prenderanno rispettivamente 50 dei 450 migranti trasbordati sulle due navi militari. A breve arriveranno anche le adesioni di altri Paesi europei». Come dire: se non li facciamo sbarcare gli altri si muovono, quindi il nostro agire è utile e chi se ne frega dei diritti.

L’ultimo atto del Parlamento prima della caduta del primo governo Conte? Agosto 2019, decreto sicurezza bis che stringeva ancora di più i lacci dell’immigrazione: il governo pose la fiducia per farlo passare. E anche i 159 migranti sulla nave Open Arms a cui fu impedito per 19 giorni l’accesso ai porti italiani nell’agosto del 2019 sono figli del governo gialloverde. Che Conte oggi ci dica di non avere “mai chiuso i porti” è una presa in giro alla memoria e alla verità. Potrebbe dirci di avere sbagliato, potrebbe dirci di essersi accorto che i diritti sono più importanti degli slogan, potrebbe perfino dirci di essere sceso a compromessi per tenere salda la propria posizione ma la narrazione per invertire il passato questa volta è miseramente fallita e che il Pd non alzi nemmeno un’osservazione aggiunge desolazione: se la prossima alleanza nasce sulle frottole non è un buon inizio.

L’articolo La bugie di Conte sui migranti: “Con me porti mai chiusi” proviene da Il Riformista.

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Migliori anche a leccare chi viola i diritti umani

Ieri il presidentissimo Mario Draghi si è recato in Libia. Ogni volta che qualche esponente di qualche nostro governo passa dalla Libia non riesce a evitare di tornare con le mani sporche di sangue per un qualsiasi atteggiamento riverente verso i carcerieri sulle porte d’Europa, come se fosse una tappa obbligata per poter frequentare i salotti buoni per l’Europa e anche il “migliore” Draghi è riuscito a non stupirci rivendicando con orgoglio l’amicizia, la stima e la vicinanza ai libici che violano i diritti umani. Ogni volta è stupefacente: negare la realtà di fronte ai microfoni della stampa internazionale deve essere il risultato di un corso speciale che viene inoculato ai nostri rappresentanti. E ogni volta fa schifo.

«Sul piano dell’immigrazione noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia», ha detto ieri Draghi, con quella sua solita soffice postura con cui ripete le stesse cose dei suoi predecessori aggiungendoci un filo di zucchero a velo. Sarebbe curioso chiedere a Draghi cosa si intenda esattamente per “salvataggio” poiché i libici (questo è un fatto accertato a livello internazionale) si occupano principalmente di respingimenti, di riportare uomini e donne nei lager dove continuano le torture, gli stupri e lo schiavismo, poiché i libici sono quelli che il 10 ottobre del 2018 hanno sparato a una motovedetta italiana, poiché i libici sono gli stessi che il 26 ottobre 2019 hanno sparato sulla nave Alan Kurdi per impedire il soccorso dei migranti, poiché i libici sono gli stessi che il 28 luglio dell’anno scorso hanno sparato contro i migranti uccidendone 3. Solo per citare qualche esempio, ovviamente, dato che quel pezzo di mondo e di mare continua a rimanere sguarnito, anche questo per precisa volontà politica.

Caro presidente Draghi, siamo contenti che lei si senta barzotto per questo tipo di salvataggi ma le auguro di non essere mai “salvato” così. Del resto legittimare quella combriccola di assassini che vengono educatamente chiamati Guardia costiera libica è un esercizio retorico che dura da anni: anche su questo il governo dei migliori continua spedito. Considerare la Libia un partner affidabile significa accettare la sistematica violazione dei diritti umani: come si chiamano coloro che elogiano in pubblico un’attività del genere facendola passare per doverosa? Ognuno trovi comodamente la risposta.

E mentre Draghi si è occupato di proteggere gli affari dell’italiana Eni in Libia, di farsi venire l’acquolina in bocca per l’autostrada costiera al confine con Bengasi (che riprende il tragitto della strada inaugurata nel 1937 da Benito Mussolini e conosciuta anche come “via Balbia”, evocando le azioni di Italo Balbo), di continuare a foraggiare la Guardia costiera libica per essere il sacchetto dell’umido dell’umanità nel Mediterraneo e di riassestare e ristrutturare la Banca centrale libica, i diritti e i dolori delle persone rimangono sullo sfondo come semplice scenografia dei barili di petrolio per cui i canali sono invece sempre aperti.

Del resto secondo il leader libico Abdul Hamid Dbeibah, Italia e Libia «soffrono e devono affrontare una sfida comune che è l’immigrazione clandestina, un problema che non è solo libico ma internazionale e riguarda tutti, come il terrorismo e il crimine organizzato». Solo che in questo caso sono chiarissimi gli autori di questo “problema”: Libia, Europa, Italia e la nuova spinta di Mario Draghi.

L’eccelso Mario Draghi insomma è il vassoio di cristallo delle solite portate, schifose uguali ma dette con più autorevolezza: avrebbe dovuto essere “il competente” e invece non è riuscito nemmeno a leggere un rapporto dell’Onu prima di andare in gita. E ovviamente non ha nemmeno fatto un giro nei campi di concentramento, non sia mai, si sarebbe sporcato il polsino.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il fascino della divisa

Ve lo ricordate Sandro Gozi? Un “traditore dello Stato”, un “nemico dell’Italia”, un “meschino”, un “disertore”, “uno a cui bisognerebbe togliere la cittadinanza”: sono solo alcune delle definizioni che sono state usate da esponenti di Lega e Fratelli d’Italia quando l’ex sottosegretario dei governi Renzi e Gentiloni assunse un ruolo politico per Macron in Francia. Sia chiaro: tutto alla luce del sole, al di là dell’opportunità su cui ognuno può avere la sua idea.

Salvini e Meloni sono pronti a individuare “tradimenti dell’Italia” in ogni frangente, soprattutto quando si tratta di nemici politici. In questi giorni in Italia c’è l’ipotesi di un tradimento proprio bello e finito, roba quasi da film, un capitano di fregata, Walter Biot, sorpreso dai Ros a vendere segreti militari ai russi in un parcheggio di Roma: anche se fa piuttosto ridere comunque siamo di fronte a uno dei più gravi episodi di spionaggio degli ultimi anni.

Nessuna parola di Meloni e Salvini, ovviamente. È il fascino della divisa: se scorrete i loro social trovate le solite badilate sugli immigrati, sulla sinistra (più Giorgia Meloni ovviamente, poiché Salvini ora si deve fingere moderato), indignazione per la condanna ridotta a Kabobo ma niente sull’ufficiale. Eppure, oh, se ci pensate è proprio il prototipo del traditore perfetto. Ma niente di niente.

Curiosa anche certa stampa che da giorni ci racconta come Biot avrebbe venduto documenti riservati ai russi per problemi di soldi (la moglie ci dice che hanno “quattro cani da mantenere”, tra le altre cose). Parliamo di un dipendente dell’Esercito, eh. Provate a chiedere in giro per strada alla gente in pandemia, a proposito di povertà. Tutta la pietas che non hanno per i poveri senza divisa è esplosa per il capitano di fregata.

Che ipocrisia, che bassezza, che poca roba. Che peccato.

Buon venerdì.

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