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Sommersi dalle tangenti si accapigliano per la capitale morale

terzo classificato_la corruzione uno sporco accordo

Ci si abitua a tutto e questo è il limite fisico di ogni democrazia. Ci si abitua ad un linguaggio greve mentre si disimparano le parole più confacenti, ci si abitua ad un leaderismo pop mentre si svuotano i processi della democrazia e evidentemente ci si abitua alle ruberie come se fossero un dovuto e naturale rumore di sottofondo. Milano e Roma duellano sulle parole del Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione rivendicando una superiorità morale calcolata sulle minor ruberie, mica sulle buone pratiche ma su chi ha rubato o corrotto o si è fatto corrompere di meno. Si esulta, anche: i più ottimisti ci dicono “avete visto quanta poca mafia e tangenti per Expo?”. E si applaudono da soli.

Il mio editoriale è qui.

Milanesi, tenete calde le spugne per la Pedemontana

Io non so come trovare le parole per raccontare la devastazione che sta dietro alle lingue di asfalto che sono state progettate per sfamare gli interessi cementizi. Non so se ci si rende conto che con la scusa del “servono per l’Expo” abbiamo perso chilometri di territorio non ripristinabile per decreto. Non so come ripetere ancora che Giuseppe Sala, il dominus di EXPO, ha avuto arrestati per tangenti i suoi due collaboratori più stretti. Non so se vi ricordate che la famiglia mafiosa di Carlo Cosco (colui che uccise la sua ex moglie Lea Garofalo) lavorava sulla linea 5 della metropolitana milanese e viveva tranquillamente in case ‘popolari’ come un bisognoso qualsiasi. Non so se avete avuto modo di verificare quanto poco siano state mantenute le promesse di infrastrutture nei paesi toccati da queste nuove strade, autostrade, tangenziali e autotangenziali che hanno sostituito spesso campi agricoli. Agricoltura: il tema di EXPO che si è fatta il trucco con piastre di cemento su terreni privati e che, nonostante le parole a vuoto, non si sa cosa sarà dopo.

Certo la devastazione in città fatta di fiamme e oscenità spruzzate sui muri è facile, evidente, sotto gli occhi di tutti. E certo è una risposta di dignità scendere con le spugne in mano a pulire. Certo. Ma tenete calde le spugne perché tra poco arriveranno novità dalla Procura anche sugli appalti della Pedemontana. E magari questa volta facciamo che ce ne accorgiamo. Eh?

ExpoLeaks

A seguito dell’ondata di arresti avvenuti a marzo 2014 che ha coinvolto numerosi persone del circuito Expo, il paese è stato travolto dall’ennesimo scandalo di malagestione di opere pubbliche. È per questo che crediamo ci sia un reale bisogno di ExpoLeaks, un progetto che fonde giornalismo e tecnologia per favorire la trasparenza e contrastare la corruzione che danneggia l’imprenditoria onesta e la cosa pubblica.
ExpoLeaks è concepita per dare uno spazio a tutti coloro che sono coinvolti nella mostra universale, dai cittadini ai funzionari pubblici, dagli operai ai dirigenti, dai volontari agli imprenditori. Chiunque potrà ora condividere, in modo completamente anonimo e sicuro, informazioni e documenti relativi a possibili irregolarità e forme di illecito. Tutti i cittadini potranno così contribuire al corretto svolgimento dell’Esposizione Universale.

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Intanto Raffaele Cantone rimane solo

Non arrivano le nomine, l’Autorità Anticorruzione è parcheggiata dietro il nastro della propaganda:

E Cantone restò solo. Mentre si infiamma il dibattito politico sugli arresti per i Mose e per l’Expo2015, il consiglio dei ministri convocato oggi non ha scelto i tre componenti dell’Autorità anticorruzione da affiancare al magistrato nominato presidente da Renzi in aprile. Se era già nell’aria il rinvio del decreto sui famosi poteri dell’Autorità in fatto di controllo sugli appalti pubblici, la mancata scelta degli altri membri si traduce nell’immobilità di fatto dell’ente, dato che i vecchi componenti hanno presentato le loro dimissioni all’arrivo del nuovo numero uno

EXPO: dopo le tangenti vogliono anche più soldi

Fabrizio Gatti squarcia un altro velo. In Lombardia e su Milano, tra Comune e Regione, (mi raccomando) continuate pure a stare tutti zitti, eh:

I lavori per l’Expo 2015 potrebbero costarci molto più del previsto. La Mantovani spa, la società che ha realizzato la piastra su cui saranno costruiti i padiglioni dell’Esposizione universale, pretende ora 110 milioni in più rispetto al prezzo che la stessa Mantovani aveva formulato per strappare l’appalto alle concorrenti. L’impresa è ora al centro dello scandalo tangenti a Venezia per il periodo in cui era amministrata da Piergiorgio Baita, già arrestato e condannato nei mesi scorsi. La capocordata, insieme con altre imprese appartenenti all’intera lobby parlamentare dal Pdl alla Lega Coop, si era aggiudicata il contratto più grosso di Expo con l’offerta di 165 milioni, partendo da una base d’asta di 272 milioni. Un ribasso che aveva scandalizzato perfino un politico navigato come il celeste senatore Roberto Formigoni, allora governatore ciellino della Lombardia e ora imputato per la corruzione sulla sanità.

Le corruzioni e il tifo

Si parla di DASPO ai politici, di alto tradimento, di regole (e sulle regole basterebbe riuscire a smetterla con questi lavori “in urgenza” e questa passione innata per le deroghe al fine di snellire a tutti i costi) ma la solita cronica debolezza della politica sta nell’immaturità con cui si affronta il problema. Se un sindaco ruba vorremmo che tutti i partiti proponessero delle soluzioni e non assistere alle contumelie di alcuni e allo scaricabarile degli altri: non ci interessa se Orsoni sia o no iscritto al PD (che poi Orsoni è stato portato sul palmo della mano da Bersani fino a Travaglio, per dire) ma vogliamo sapere come ogni partito voglia modificare il meccanismo perché ci sia la giusta punizione per i colpevoli (se colpevoli) e la ricetta del vaccino per il futuro. E invece no: tutti a dire “è suo”, “non è mio” e queste altre nefandezze in una sequela di inetti e di inettitudine.

«Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo»

Tra tutti vale la pena leggere Gian Antonio Stella (Corriere della sera, 5 giugno 2014) sulle tangenti legate al MOSE:

«Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta

L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan. 

C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento. 

C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento…». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli? 

C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza». 

E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei. 

C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio. 

C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette. 

E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri. 

E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei». 

Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti. 

L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose… Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla… Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva… 

Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari! 

L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?