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Taranto

Il vero allarme sicurezza

Pensateci bene, non avete la sensazione che il problema degli omicidi sia il primo problema della sicurezza in Italia? Non vi è capitato ogni volta, tutte le volte, di vedere rilanciato, di sentire dibattuto un delitto qualsiasi soprattutto se torna utile alle esigenze televisive (quindi con qualche efferatezza di cui disquisire in studio) o se torna utile alle esigenze della propaganda (e qui lo straniero viene perfetto)?

Se dovessimo disegnare il Paese come esce raccontato dai giornali e dalla televisione verrebbe da dire che gli omicidi siano moltissimi. Pensate ai morti sul lavoro e ai morti di lavoro: da 24 ore si parla (e per fortuna) della morte di Luana D’Orazio risucchiata da un macchinario tessile a Prato. D’Orazio è perfetta per la narrazione perché era giovane (22 anni), mamma da appena un anno e bella.

Eppure si muore più di lavoro che di omicidio: l’anno scorso 1.270 persone hanno perso la vita sul lavoro e gli omicidi sono stati 271. Se le emergenze devono essere pesate con i numeri l’allarme sicurezza che dovrebbe far strepitare la classe politica e su cui si dovrebbero accapigliare dovrebbero essere questi morti. Attenzione, quest’anno sta andando tutto molto peggio: le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Inail entro il mese di marzo sono state 185, 19 in più rispetto alle 166 registrate nel primo trimestre del 2020 con un incremento dell’11,4%. Per capirsi: lo scorso 29 aprile una trave aveva ceduto nel deposito Amazon di Alessandria causando un morto e 5 feriti, a Taranto un gruista di 49 anni è morto precipitando sulla banchina e a Montebelluna (Treviso) un operaio di 23 anni era stato investito da un’impalcatura, morendo sul colpo. Tre morti in un giorno.

Parlare dei morti sul lavoro è molto meno redditizio dell’altra “sicurezza” di cui si ciancia un po’ dappertutto: c’è da mettere mano a una normativa che risale al 1965 e il Decreto 81 del 2008 che ha ampiamente superato i 10 anni non ha mai visto il completamento di alcuni articoli che attendono ancora la firma di una ventina di decreti attuativi che avrebbero dovuto renderli operativi.

E se qualcuno pensa che sia inaccettabile morire a 22 anni sul lavoro allora vale la pena rileggere la dichiarazione di ieri della madre di Luana D’Orazio: «Sul lavoro non devono morire né ventenni, né trentenni, né più anziani, sono tutte vite umane».

Buon mercoledì.

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Diritti di Cristello

Mi sembra che si parli molto poco, troppo poco, con quel silenzio cortese che si crea di solito per inzerbinarsi a qualche potente, della storia di Riccardo Cristello, che da 21 anni lavora all’ex Ilva di Taranto, che è stato operaio in magazzino e poi tecnico controllo costi dell’acciaieria, che ha aiutato anche in amministrazione per le fatture e che dopo una vita vissuta all’interno dell’azienda senza mai nemmeno una virgola fuori posto ora si ritrova disoccupato, licenziato per “giusta causa” solo che a guardarla da fuori la causa sembra tutt’altro che giusta.

La colpa di Cristello sarebbe quella di avere condiviso sul suo Facebook (e ci potete scommettere che Riccardo non sia propriamente un influencer capace di raggiungere milioni di persone) una lettera non sua, arrivata da un gruppo watshapp, in cui si invitava a seguire in televisione la fiction Svegliati amore mio (un programma con Sabrina Ferilli, eh, mica un pericoloso documentario di giornalismo di inchiesta) in cui si denunciano i danni che il siderurgico provoca in termini di salute pubblica. Sia chiaro: la serie televisiva non è sull’ex Ilva e non ha riferimenti su niente.

Seduto sul divano Riccardo Cristello e sua moglie devono avere pensato che valesse la pena sprecare una serata per un argomento così vicino alla loro vita e alla vita dei loro concittadini, in quella Taranto dove quasi tutti hanno un amico o un parente ucciso dalla gestione criminale dell’acciaieria, ben prima che arrivasse ArcelorMittal a gestirla.

«Dopo anni di rapporti umani vissuti nella fabbrica, mi hanno chiamato la domenica delle Palme dicendomi che c’era un problema di numero e che dovevo rimanere in cassa integrazione per una settimana. In verità mi stavano sospendendo per poi licenziarmi, senza nessun avvertimento, nessuna telefonata, se non la raccomandata col provvedimento», racconta in un’intervista a Repubblica Cristello. Licenziato così, su due piedi, per un post su Facebook che ha fatto rumore solo dopo il licenziamento. Una scelta di marketing tra l’altro che grida vendetta per stupidità e per cretineria.

Poi, volendo vedere, ci sarebbe anche quella vecchia questione dei diritti da rispettare, della politica che dovrebbe alzare la voce (almeno una parte) e di una violenza che ha distrutto la vita di una persona. «Ho l’impressione di essere il capro espiatorio. Lo spirito sembra sia quello di punirne uno per educarne cento. Non possiamo più parlare, non possiamo più commentare, dobbiamo stare zitti e basta», dice Cristello.

Viene da chiedersi se in questo periodo in cui alcuni vedono “dittatura” dappertutto non sia il caso di alzare la voce per una situazione del genere: c’è dentro il diritto al lavoro, il diritto alle proprie opinioni (che tra l’altro nulla c’entrano con l’azienda) e soprattutto c’è il diritto di dire forte che Taranto è stata devastata e sanguina ancora.

Aspettiamo con ansia.

Buon martedì.

Nella foto frame da una videointervista del Corriere della Sera

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La preghiera dell’odio

Un parroco in un paese della Puglia ha organizzato una veglia di preghiera contro la legge contro l’omotransfobia che, a suo dire, sarebbe un’insidia che minaccia la famiglia. E la sindaca si è ribellata

Siamo a Lizzano, paese in provincia di Taranto, dove il parroco, don Giuseppe, ha pensato bene di organizzare una veglia di preghiera contro la legge contro l’omotransfobia (il disegno di legge Zan è già stato approvato in Commissione Giustizia) che, a suo dire, sarebbe un’insidia che minaccia la famiglia. L’oscurantismo del resto va molto di moda tra alcuni leader politici e figurarsi se non prende piede anche tra i parroci di provincia dove con un arzigogolato ragionamento si riesce a mettere insieme la famiglia con l’odio verso i gay: sono quei pensieri deboli e cortissimi che prendono molto piede dove l’ignoranza regna sovrana. Evidentemente per don Giuseppe il suo dio vuole che si continui a odiare e discriminare perché le famigliole possano stare tranquille. Contento lui.

Il punto che conta però è che in molti (per fortuna) si sono ribellati a questa pessima iniziativa e soprattutto la sindaca del paese, la dott.ssa Antonietta D’Oria, pediatra di famiglia, mamma di quattro figli che lavora a Lizzano da trent’anni ed è impegnata in varie associazioni di ambito sociale, ambientale e culturale decide di prendere carta e penna e di rispondere. Potrebbe essere la solita diatriba tra parroco e sindaca ma di questi tempi le parole sono preziose. Ecco la risposta:

“È notizia ormai rimbalzata su tutti i social media che il parroco di Lizzano, il parroco della nostra Comunità, il nostro parroco ha organizzato un incontro di preghiera contro le insidie che minacciano la famiglia, tra cui, prima fra tutte, cita la legge contro l’omotransfobia.
Ecco, noi da questa iniziativa prendiamo, fermamente, le distanze.
Certo non sta a noi dire quello per cui si deve o non si deve pregare, ma anche in una visione estremamente laica quale è quella che connota la attuale Amministrazione Comunale, la chiesa è madre e nessuna madre pregherebbe mai contro i propri figli.
Qualunque sia il loro, legittimo, orientamento sessuale.
Perché, come ha scritto meglio di come potremmo fare noi, padre Alex Zanotelli, quando ha raccontato la propria esperienza missionaria nella discarica di Corogocho, la Chiesa è la madre di tutti, soprattutto di quelli che vengono discriminati, come purtroppo è accaduto, e ancora accade, per la comunità LGBT.
A nostro modestissimo parere e con la più grande umiltà, ci pare che altre siano le minacce che incombono sulla famiglia per le quali, sì, sarebbe necessario chiedere l’intervento della Divina Misericordia.
Perché non pregare contro i femminicidi, le violenze domestiche, le spose bambine?
Perché non celebrare una messa in suffragio per le anime dei disperati che giacciono in fondo al Mediterraneo?
Perché non pregare per le tante vittime innocenti di abusi?
Ecco, senza voler fare polemica, ma con il cuore gonfio di tristezza, tanti altri sono i motivi per cui raccogliere una comunità in preghiera.
Certo non contro chi non ha peccato alcuno se non quello di avere il coraggio di amare.
E chi ama non commette mai peccato, perché l’amore, di qualunque colore sia, innalza sempre l’animo umano ed è una minaccia solo per chi questa cosa non la comprende”.

Che bella quando prende posizione, la politica.

Come dice la scrittrice Francesca Cavallo: «iniziative come questa non devono passare sotto silenzio, per il bene di tutti quegli adolescenti che leggono di un’iniziativa come questa e pensano di essere sbagliati. Io sarei potuta essere tra loro».

Buon giovedì.

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L’Italia riparte. Per un’altra (finta) inaugurazione.

Tomaso Montanari ripercorre la (triste) storia del Museo di Taranto:

»Così ieri Renzi era a Taranto, ad inaugurare il Museo Archeologico Nazionale: uno dei venti supermusei che Franceschini sostiene di aver miracolato imponendo loro le mani dell’autonomia.

«Museo archeologico, risanamento Ilva, le scuole del quartiere Tamburi, Arsenale, il porto, le bonifiche. Impegni concreti e scadenze rispettate. A Taranto i problemi non mancano ma il Governo c’è. E fa terribilmente sul serio», ha twittato il Presidente del Consiglio. E ancora: «Taranto. Dopo anni di promesse non rispettate, #finalmente ci siamo».

Peccato che le cose non stiano proprio così. Chissà se Franceschini ha detto a Renzi che il Marta è uno scatolone vuoto. Appena dieci giorni fa, una supplichevole circolare della Direzione generale del Mibact per l’Organizzazione faceva sapere a tutti che «con nota del 5 luglio il direttore del Museo Archeologico Nazionale di Taranto ha rappresentato la grave carenza di personale», chiedendo se ci fossero volontari disposti a «prestare servizio temporaneamente a Taranto». Cioè a tappare i buchi del Museo: aprendone di identici nelle loro sedi, tutte afflitte da una disastrosa mancanza di personale (esattamente come quando erano ministri Bondi o Ornaghi, anche se ora non lo dice più quasi nessuno).

[…]

Ma la ciliegina sulla torta arriva dall’ultima riga della direttrice: mancano anche «8 unità di personale di accoglienza, fruizione e vigilanza poiché il personale ora in dotazione è del tutto insufficiente a garantire l’apertura al pubblico del percorso espositico del II piano del museo di prossima inaugurazione, che si terrà nel mese di luglio alla presenza del ministro onorevole Dario Franceschini e probabilmente del presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi». Meraviglioso: le sale inaugurate ieri da Renzi, richiuderanno dunque subito per mancanza di personale.»

Diosssina: Taranto è in provincia di Brescia

brescia-675A Taranto è tutto transennato. A Brescia, nei parchi alla diossina ci giocano i bambini. Tra il quartiere Tamburi di Taranto – a ridosso dell’Ilva – e il sito inquinato nazionale “Caffaro” di Brescia, gravemente contaminati dai cancerogeni Pcb e diossine, la sproporzione è tutta nei dati e nelle decisioni prese dalle autorità per proteggere la popolazione.

A Taranto, ad esempio, in un giardino con 0,283 microgrammi di Pcb/kg di terra il sindaco ha vietato l’accesso a tutti gli abitanti; a Brescia invece, nei parchi con 0,400 mg/kg di Pcb possono entrare anche i bambini, con alcune limitazioni che hanno scatenato le polemiche dei comitati di genitori e ambientalisti come il “divieto di scavo e asportazione del terreno” considerato improprio e difficile da far rispettare ai più piccoli. Il confronto è ancora più allarmante per le diossine: nel quartiere Tamburi, all’ombra dell’Ilva, sono vietate le aree verdi con 24,12 ngTEQ/kg(tossicità equivalente alla diossina di Seveso); mentre a Brescia l’ordinanza del sindaco, scritta sulla base di un parere della Asl, consente l’accesso nei parchi con 80,8 ngTEQ/kg di diossine, una concentrazione quasi quattro volte superiore.

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Lo denunciano una serie di comitati ambientalisti bresciani insieme a Medicina Democratica e al comitato Sos Scuola, chiedendo al sindaco di Brescia Emilio Del Bono e alle autorità sanitarie “il rispetto della legge”. Al centro della polemica l’ordinanza emessa dal sindaco Pd a pochi giorni dall’insediamento, il 24 luglio 2013, che ha dato il via libera all’accesso in aree con concentrazioni superiori ai limiti di legge per i Pcb e le diossine, zone contaminate che prima erano formalmente interdette con ordinanza “contingibile e urgente” reiterata ogni 6 mesi, anche se il divieto spesso non veniva rispettato dai bresciani, come mostrato dalle telecamere della trasmissione di Riccardo Iacona “Presa Diretta” nel 2013.

Per l’inquinamento dei suoli la legge prevede delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC). Per i siti ad “uso verde pubblico, privato e residenziale” – secondo quanto stabilito dal D. lgs 152/2006 – i livelli massimi di Pcb e diossine sono di 0,06 mg/kge 10 ngTEQ/kg. Soglie superate sia nel caso di Brescia che in quello di Taranto, per cui è necessaria una “analisi di rischio sanitario e ambientale” per “valutare gli effetti sulla salute umana derivanti dall’esposizione prolungata all’azione delle sostanze presenti”. Analisi di rischio che a Taranto ha portato alla chiusura delle aree verdi del quartiere Tamburi con un’ordinanza del giugno 2010 per far fronte a un “rischio sanitario non accettabile in caso di esposizione prolungata nel tempo, a seguito di contatto dermico ed ingestione accidentale”, disposizione peraltro in vigore “fino all’ultimazione dei lavori di bonifica”.

A Brescia invece, dove le concentrazioni soglia sono molto al di sopra di quelle di Taranto (la chimica Caffaro, che ha prodotto i Pcb “cancerogeni certi” per lo Iarc dal 1936 al 1984, ha inquinato terreni e rogge con il veleno “puro”) l’Asl ha deciso – senza analisi di rischio “sito-specifica” – di dividere il sito inquinato in tre aree: blu, gialla e rossa. Nella “zona rossa” l’accesso è “interdetto a qualsiasi uso” (parchi di via Nullo, Passo Gavia, via Parenzo nord, via Sorbana nord, campo Calvesi), in quella gialla è consentito “con limitazioni” (parchi di via Fura, via Livorno, via Parenzo sud, via Ercoliani, via Sorbana sud, via Cacciamali). Ma nell’area gialla, dove giocano anche i bambini, ci sono concentrazioni di Pcb e diossine da due a quattro volte superiori rispetto a quelle di Taranto e oltre ai veleni chimici, a Brescia in quei terreni sono presenti anche metalli pesanti come mercurio, arsenico e rame. “A Taranto la legge che dovrebbe valere su tutto il territorio nazionale è stata applicata, a Brescia no – denunciano i comitati – e a trasgredire in modo così clamoroso sono le istituzioni pubbliche”.

(fonte)

Il clan D’Oronzo-De Vitis-Ricciardi pronto a rinascere

La Polizia di Stato di Taranto sta eseguendo una vasta operazione antimafia, coordinata dalla DDA di Lecce, con l’arresto di decine di persone ritenute responsabili, a vario di titolo, dei reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, omicidio, estorsione, rapina e detenzione di armi. Le indagini, condotte dalla Squadra Mobile, hanno accertato che il gruppo criminale operava su Taranto con forti articolazioni a Verona e Sassari.

Gli aggiornamenti – Sono 50 (2 ancora da eseguire) le ordinanze di custodia cautelare in carcere eseguite all’alba dagli agenti della Squadra mobile di Taranto richieste dalla Procura distrettuale antimafia. Vecchi boss condannati per mafia e recentemente scarcerati puntavano nuovamente a mettere le mani sulla città attraverso il racket delle estorsioni e la gestione di attività e cooperative.

Si cercava di ricostituire il clan D’Oronzo-De Vitis-Ricciardi – Secondo gli investigatori si cercava di ricostituire lo storico clan D’Oronzo-De Vitis-Ricciardi che negli anni ’90 imperversò a Taranto, in piena alleanza con il boss Antonio Modeo, detto il “Messicano”, scatenando una sanguinosa guerra di mala da centinaia di morti contro i tre fratelli Gianfranco Riccardo e Claudio Modeo. Facevano leva sulla fama criminale ma volevano aggiornare il loro look ed avere atteggiamenti più civili.

«Erano pronti a scatenare una nuova guerra – commenta il procuratore antimafia Cataldo Motta – e desiderosi di vendicarsi di chi negli anni della reclusione gli ha voltato le spalle e non li ha aiutati sostenendo spese legali ed aiutando i familiari, così come vuole il codice mafioso».

Nel mirino le attività imprenditoriali ed economiche più ricche della città costrette a pagare il pizzo. Nessuna ha denunciato le estorsioni subite.

Fra gli arrestati, anche un imprenditore, Fabrizio Pomes, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa ed intestazione fittizia di beni per aver creato una serie di cooperative che si aggiudicarono la gestione di un centro sportivo del Comune. Il clan aveva ripreso vecchi e nuovi collegamenti, aveva teste di ponte a Verona, gestiva il traffico di droga ed aveva ampia disponibilità di armi. Dall’inchiesta emerge che De Vitis è anche mandante dell’omicidio di Antonio Santagato, ex fedelissimo dei Modeo, ucciso a colpi di pistola dai fratelli Pascalicchio nel maggio del 2013 a Taranto.

Il capo della Polizia Alessandro Pansa ha telefonato al Questore di Taranto complimentandosi con le donne e gli uomini della Polizia impegnati nell’attività investigativa che ha portato all’esecuzione di 52 misure cautelari nei confronti di appartenenti al clan D’Oronzo-De Vitis, ringraziando anche personalmente il procuratore della Dda di Lecce Cataldo Motta. Lo fa sapere l’ufficio stampa della Polizia in una nota.

(link)

Con chi va il Pd

A Taranto?

“Verificare le condizioni per la più ampia convergenza di forze politiche disponibili e per il più qualificato ruolo protagonista del Pd ionico”. È il mandato che la direzione del Partito democratico della provincia di Taranto ha conferito al segretario Walter Musillo in vista delle prossime elezioni provinciali di fine settembre. Che significa? Nei fatti vuol dire che il Pd tarantino, nelle consultazioni per eleggere l’amministrazione di “secondo livello” della provincia ionica, è pronto a sostenere un candidato proveniente anche da Forza Italia.

La notizia è giunta al termine di una riunione del direttivo tarantino in cui è passata a maggioranza la mozione dei democratici che fanno capo al deputato Michele Pelillo. E se ufficialmente l’alleanza con i berlusconiani non è menzionata, ufficiosamente il patto sarebbe già stato sancito con Martino Tamburrano, sindaco forzista di Massafra, piccolo comune alle porte di Taranto. Al Pd, in cambio, andrebbe la vice presidenza. Il Pd quindi ha escluso a priori l’ipotesi di votare Ippazio Stefànoil sindaco ex vendoliano del comune ionico con cui insieme governano da anni la città dei due mari e che si è autocandidato alla guida della Provincia. L’ipotesi Tamburrano, quindi, è più che concreta e ha creato un certo scompiglio negli stessi iscritti al Pd: i dissidenti hanno presentato una mozione per costringere il direttivo a puntare su un candidato democratico, ma senza successo.