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E noi non riusciamo a tornare a quella miracolosa sintonia

Io non so se sia capitato a voi ma ve lo racconto lo stesso, anche se è fuori dai canoni del giornalismo, non è nemmeno letteratura, e figurati che schifo buttare in rete una cosa così oscenamente personale. Ma la scrivo perché ci farebbe bene a tutti di questi tempi cadere in burroni di umanità. Almeno per guardarci negli occhi, senza veli, indipendentemente dalle fazioni, come in quei giorni in cui hai perso male male, che ti dici allo specchio cazzo che botta che ho preso o quelli in cui ti è capitato di sbucciarti il gomito su una stella e ti vengono le vertigini mentre ti congratuli con te stesso.

Qualche mese fa è stato male mio padre. È naturale, se ci penso a mente fredda: i figli hanno l’onere di vedere i padri mentre si consumano, con le nocche che si fanno nodose come radici e la faccia che gli tira sempre all’in giù. È stato talmente male che i medici mi facevano capire che sarebbe finita. È naturale anche questo. A raccontarlo sembra così banale eppure è così straziante che quando capita ti dici fanculo che sia normalerivendico il diritto e il dovere di affondare.

Pensavo, ci pensavo stamattina, che in quei giorni, forse sono state ore, a me sono sembrati secoli, ho avuto la sensazione che mi si fossero allargati i pori, si fosse aperta un’altra arteria del cuore, che avessi guadagnato una decina di diottrie, che io abbia avuto un coraggio che non si è più ripetuto, che tutti gli altri mi sembrassero magnificamente (ma anche terribilmente) bisognosi di essere capiti. Nella sala d’aspetto ho scambiato parole con famiglie di cui mi appariva tutto il mappamondo di dolori e di relazioni, ho scoperto una gentilezza che credevo annichilita dagli inciampi della vita, da questa cretina predisposizione a voler diventare impermeabili per difendersi e invece ne usciamo tutti solo imbruttiti.

In quei giorni ho pronunciato con mia madre parole che oggi non riuscirei nemmeno a balbettare. Sono quei momenti in cui ci prendiamo la briga di diventare flusso senza questa assurda paura di sembrare nudi. Ogni tanto penso che non ci ameremo mai più, noi della nostra famiglia, come ci siamo amati in quei momenti lì.

E invece penso che noi avremmo bisogno di questo coraggio. Basterebbe avere una classe dirigente (nel senso largo, quello dove anche un fratello maggiore è classe dirigente) capace di prendersi il rischio dell’empatia e della sincerità, anche quando rischia di apparire patetica, per rendere migliore questa parte di mondo. Qualcuno così eroico da avere l’ardire di chiedere scusa, qualcuno che ci spieghi perché la pensa così senza usare le formulette studiate dai suoi aridi e goffi esperti di comunicazione. È la mancanza di autenticità che li fotte tutti, questi miserabili piazzisti da due soldi.

E mi dico per fortuna faccio lo scrittore. Per fortuna non mi prenderei mai il rischio di scrivere un editoriale così. E invece stamattina l’ho scritto. E mio padre sta meglio. E noi non riusciamo a tornare a quella miracolosa sintonia.

Buon mercoledì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/09/12/e-noi-non-riusciamo-a-tornare-a-quella-miracolosa-sintonia/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La sinistra deve tornare a parlare in maniera chiara e netta

Ivano (come altri) è riuscito a creare più comunità lui in qualche minuto di decine di dirigenti in decine di anni riuscendo a essere chiaro, comprensibile e autentico. Come è possibile che a certi dirigenti di sinistra non venga il dubbio che il successo di queste dichiarazioni estemporanee sia inversamente proporzionale alla continua e bolsa riproposizione di classi dirigenti che hanno già fallito?
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«Non si parla più della malattia di mia madre, perché la malattia sono io»

(Se volete leggervi uno dei migliori pezzi scritti di questi tempi ecco Paul B. Preciado)

Torno nella città dove sono nato per fare compagnia a mia madre, costretta a restare qualche giorno in ospedale dopo un’operazione. Questa città della Castiglia, dove corpi umani vagano avvolti da pellicce di animali che non hanno mai vissuto in questa regione e in cui le finestre delle case sono decorate con bandiere spagnole, mi spaventa.

Mi dico che la pelle degli stranieri finisce con l’essere trasformata in cappotti, e che la pelle di quelli che sono nati qui si trasforma da un giorno all’altro in una bandiera. Passiamo i giorni e le notti nella camera 314. L’ospedale è stato ristrutturato di recente, ma mia madre ripete che questa stanza le ricorda quella in cui mi ha partorito. A me, proprio perché non mi ricorda niente, questa stanza di ospedale sembra più accogliente della mia casa natale, più sicura delle strade dello shopping, più festiva delle piazze con le chiese.

La mattina, dopo la visita di routine del dottore, esco a prendere un caffè. In questo ospedale, situato in una zona deserta, non c’è una caffetteria. Cammino lungo il fiume Arlanzón fino al bar più vicino, in un freddo luminoso che i castigliani chiamano “sole con le unghie”. Respiro un’aria gelida, pulita, come un getto di vapore compresso che punta l’angoscia che nascondo nel petto.

La sedia assegnata
Essere il figlio trans di una famiglia cattolica spagnola di destra non è facile. Il cielo castigliano è chiaro come quello di Atene, ma in Grecia è di un blu cobalto. Qui è d’acciaio. Ogni mattina esco fuori e desidero non tornare più. Disertare la famiglia come si diserta la guerra. Ma non lo faccio. Torno in ospedale a occupare la sedia da parente stretto che mi è stata assegnata. A cosa serve che la ragione avanzi se il cuore resta indietro, diceva Baltasar Gracián.

In ospedale, da mezzogiorno alle otto di sera, si alternano le visite. Questa camera si trasforma in una scena di teatro pubblico in cui io e mia madre lottiamo, non sempre con successo, per ristabilire i ruoli. Quando deve presentarmi, mia madre dice: “Lui è Paul, mio figlio”. La risposta è sempre la stessa: “Pensavo che avessi solo una figlia”. A quel punto mia madre dice, alzando gli occhi al cielo e cercando di immaginare una scappatoia a questa impasse retorica: “Sì, avevo solo una figlia e ora ho un figlio”. Uno dei visitatori deduce: “Ah, è il marito di tua figlia? Non sapevo che fosse sposata, congratulazioni…”.

Mia madre capisce di aver commesso un errore strategico e si affanna come chi cerca di riavvolgere freneticamente il filo di un aquilone volato già troppo in alto: “No, no, non è sposata, è mia figlia…”. Poi tace per un istante, durante il quale smetto di guardarla. “Mia figlia ora è mio figlio”. La sua voce disegna una cupola di Brunelleschi che si innalza per dire “figlia” e precipita per dire “figlio”.

Non è facile essere la madre di un trans in una città dove avere un figlio queer è peggio che avere un figlio morto. Allora, gli occhi del visitatore schizzano in tutte le direzioni, prima di rispondere con un piccolo sospiro.

Non è facile essere la madre di un trans vivendo in una comunità di sostenitori dell’Opus Dei

A volte sorrido: mi sento come un Louis de Funès in un film di fantascienza. Altre volte sono sopraffatto dallo stupore. Non si parla più della malattia di mia madre, perché la malattia sono io. Non è facile essere il figlio di una famiglia cattolica convinta che Dio non sbaglia mai.

Azioni e pensieri rasserenanti
Decidere di cambiare qualcosa significa contraddire Dio. Mia madre ha rinnegato la dottrina della chiesa. Dice che una madre è più importante di Dio. Continua ad andare a messa la domenica, ma ci va per fare i conti con l’aldilà, e la chiesa non deve immischiarsi. Lo dice a bassa voce, sa di essere blasfema. Non è facile essere la madre di un trans vivendo in una comunità di sostenitori dell’Opus Dei. Mi sento in debito verso mia madre perché non sono e non posso essere un buon figlio per lei.

Quando le sollevo le gambe per favorire la circolazione del sangue mi dico che sono più bravo come badante che come figlio. Quando aggiorno le app del suo telefono, riorganizzo lo schermo e installo nuove suonerie mi dico che sono meglio come tecnico informatico che come figlio. Mentre le acconcio in capelli in uno chignon e aumento il volume della pettinatura sopra la fronte mi dico che sono meglio come parrucchiere che come figlio. Quando scatto qualche foto per inviarla ai suoi amici che hanno superato gli ottant’anni e non possono venire a farle visita mi dico che sono meglio come fotografo che come figlio.

Sono meglio come garzone che come figlio. Sono meglio come compilatore dei suoi video preferiti di Rocío Jurado su YouTube che come figlio. Sono meglio come lettore del giornale locale che come figlio. Sono meglio come piegatore di vestiti che come figlio. Sono meglio come pulitore del bagno che come figlio. Sono meglio come infermiere notturno che come figlio. Sono meglio come aeratore della stanza che come figlio. Sono meglio come cercatore di chiavi perse in fondo alla borsa che come figlio. Sono meglio come distributore di pillole che come figlio. Sono meglio come fotocopiatore di documenti per la previdenza sociale che come figlio.

E tutte queste cose – curare, acconciare i capelli, riparare computer e telefoni, scaricare video, trovare chiavi, fare fotocopie – mi calmano i pensieri e mi rasserenano.

(Traduzione di Andrea Sparacino, fonte Internazionale)

Dalla “legge che tutti avrebbero dovuto copiare” a quella copiata male (apposta)

Ci avevano promesso di far tornare “il voto ai cittadini”. Destri, sinistri, cinquestelle, tutti d’accordo. Dopo avere scritto una legge incostituzionale (olè) hanno capito che il segreto stava semplicemente nel trovare un nome che sembrasse affidabile. Devono avere pensato a “Mercedes” o “Bmw” ma poi per problemi di marchio registrato si sono accontentati di “tedesco”.

Hanno scritto una legge elettorale che ci viene proposto come modello di rappresentatività e governabilità e invece non lo è. Rubo la spiegazione che mi ha dato, in una ricca conversazione ieri sera, il professore Andrea Pertici:

Saranno i partiti a scegliere gli eletti. Tutti i seggi sono attribuiti con sistema proporzionale sulla base sostanzialmente di una doppia lista bloccata: quella della circoscrizione (che al Senato è la Regione) e quella data dall’insieme dei candidati nei collegi uninominali della stessa circoscrizione (al Senato, Regione). Collegi uninominali dove non vince il candidato più votato ma semmai quello del partito più votato. E per non rischiare proprio nulla comunque il primo che passerà è il capolista del partito nella circoscrizione, dopo il quale si pescheranno i candidati nei collegi arrivati primi, poi gli altri candidati di lista e infine gli altri candidati dei collegi uninominali che hanno perso. Insomma, quello che conta è il partito. Quello che conta assai meno il nostro voto. Si parte da un modello europeo (questa volta il tedesco, si diceva) ma si finisce sempre con un sistema molto italico.

In pratica io voto il candidato che stimo nel mio collegio ma il mio voto premia prima il capolista bloccato.

 

(continua su Left)