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Al Sisi? «Interlocutore appassionato alla ricerca di verità». Parola di un vergognosissimo Alfano

«Siamo convinti che il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi sia un interlocutore appassionato nella ricerca della verità».

E poi: «Confidiamo che le parole di al Sisi spingano ancora di più l’apparato egiziano nella ricerca della verità».

E infine: «Stiamo seguendo anche il canale della collaborazione con l’università di Cambridge, e quello diplomatico, avendo parlato io stesso di recente con il mio omologo britannico Boris Johnson».

Il vero dramma della famiglia Regeni, dopo la perdita del loro figlio Giulio, è quello di essere cittadini in un Italia in cui il servilismo al potente è condizione necessaria per garantirsi un posto al sole. Un Paese in cui gli eventuali cointeressi economici sono il discrimine principale per decidere chi è buono e chi è cattivo. Un Paese in cui la verità è una parola da pronunciare con tono stentoreo nei discorsi ufficiali per poi ripiegarla e metterla nel cassetto delle bomboniere da propaganda. Un Paese che si ostina a trattare l’Egitto come se le prepotenze e i soprusi, oltre alla congenita perdita progressiva di democrazia, siano qualcosa che non è affar nostro, da lasciare agli egiziani. Un Paese che permette a un capo di governo a forma di sultano di irriderci nel panorama internazionale con favolette da scuola elementare.

E noi, continuamente, servi. Proni. Sdraiati di fronte all’evidenza come se fosse solo un fastidio passeggero. E così succede che anche un Alfano qualsiasi possa impunemente rilasciare dichiarazioni del genere. O meglio, a pensarci bene: così succede che anche questo Alfano qui possa permettersi di fare il ministro.

Buon venerdì.

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La dignità dell’errore. E delle scuse

Filippo Chiarello aveva 38 anni, due bambini piccoli e un intervento da fare alla colecisti in laparoscopia. Nell’ospedale Santa Sofia di Palermo ci è entrato con l’idea di doverne uscire in pochi giorni, pronto ad affrontare una di quelle operazioni che di questi tempi sono routine. E invece è morto. E fino a qui sembrerebbe l’ennesima storia di malasanità pronta a finire sui giornali (locali, perché la sanità è sempre argomento molto poco pop) e ad aprire una sequela giudiziaria tra cartelle cliniche, scarichi di responsabilità e assicurazioni trincerate in difesa.

Invece qui le porte della sala operatoria si sono aperte davanti alla faccia addolorata di un medico che si è dichiarato colpevole di un errore: «Ho spalancato le porte della sala operatoria, ho allargato le braccia e ho detto che era colpa mia. Mi sono sentito morire dentro, sulle facce dei parenti ho visto la disperazione – racconta il medico che ha fatto l’intervento – e mi assumo la responsabilità ma ci tengo a far sapere che non ero distratto, ero concentrato. La verità è che può capitare e i rischi degli interventi in laparoscopia sono dietro l’angolo».

 

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Noi non possiamo essere imparziali.

“Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere”

(Gaetano Salvemini)

Ma siamo sicuri che fosse santa?

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Un articolo che vale la pena leggere, di Krithika Varagur:

Il quattro settembre di quest’anno Madre Teresa diventerà Santa Teresa. Cosa tutt’altro che sorprendente; era stata beatificata nel 2003, e la beatificazione è una specie di strada a senso unico per la canonizzazione. Ma questa è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Lei una santa non lo fu.

Canonizzare Madre Teresa significherebbe chiudere la questione di quella problematica eredità che si è lasciata alle spalle, che include le conversioni forzate, i discutibili rapporti intrattenuti coi dittatori, la sua mala gestione, a onor del vero, delle cure mediche di qualità davvero pessima. Cosa peggiore di tutte, lei incarnava la classica figura dell’uomo bianco che porta la propria carità nel terzo mondo – che poi è il senso stesso di quella che è stata la sua immagine pubblica, nonché fonte d’incommensurabili traumi per la psiche collettiva postcoloniale dell’India e della sua diaspora.

Nel 2013 una ricerca condotta dall’Università di Ottawa ha sfatato il “mito dell’altruismo e della generosità” che avvolge Madre Teresa, raggiungendo la conclusione che la sua santificata immagine non regge al confronto coi fatti, e rappresenta sostanzialmente il compimento di una vigorosa campagna mediatica organizzata da una Chiesa Cattolica in sofferenza.

Nonostante tutte le sue 517 missioni, che al momento della sua morte erano state organizzate in cento diversi paesi del mondo, la ricerca ha scoperto che praticamente nessuno di coloro che vi si era recato alla ricerca d’assistenza medica ne aveva poi effettivamente ricevuta. Le condizioni che vi si potevano osservare erano non igieniche, “perfino inappropriate”, l’alimentazione inadeguata, e gli antidolorifici assenti – non certo per mancanza di fondi, nei quali l’ordine di Madre Teresa, famoso in tutto il mondo, in realtà sguazzava – ma in nome di quella che gli autori della ricerca definiscono la sua “peculiare concezione della sofferenza e della morte”.

“C’è qualcosa di meraviglioso nel vedere i poveri accettare la propria sorte, sopportandola come se si trattasse della Passione di Cristo. Il mondo ha parecchio da guadagnare dalla loro sofferenza”: lo dichiarò Madre Teresa a un Christopher Hitchens tutt’altro che entusiasta.

Pure tenendoci all’interno della concezione cristiana della benedetta mansuetudine, che razza di logica perversa sottende a questo punto di vista? Non sorprendentemente, tenendo conto della cornice in cui si svolgeva la sua opera, la risposta sta nel colonialismo razzista. Per tutti quei cento paesi, Madre Teresa appartiene all’India, ed è l’India ad aver concepito la Beata Teresa di Calcutta. Fu lì che lei acquisì l’immagine che lo storico Vijay Prakash ha definito della “donna bianca nelle colonie per antonomasia, impegnata per la salvezza di quei corpi scuri dalle loro tentazioni e dai loro fallimenti”.

La sua immagine è interamente racchiusa nella logica coloniale: quella del salvatore bianco che getta una luce sugli uomini dalla pelle ambrata più poveri del pianeta. Madre Teresa fu una martire – non per i poveri dell’India e del Sud globale – ma per quel senso di colpa bianco e borghese. (Come nota Prakash, svolgeva esattamente questa funzione al posto di, e non certo insieme a, una “autentica sfida a quelle forze che la povertà la producono e la coltivano”). E tutti quei suddetti uomini dalla pelle ambrata, poi, come li avrebbe aiutati? In modo quanto meno discutibile, ammesso che l’abbia mai fatto. Il suo persistente “secondo fine” era quello di convertire al cristianesimo alcuni fra gli individui più vulnerabili del Paese, come del resto ha dichiarato l’anno scorso il capo di una Ong induista . Esistono perfino alcune testimonianze secondo le quali lei e le sue suore avrebbero provato a battezzare persone in punto di morte.

Tutto questo accanirsi nei confronti della suora e del suo ordine potrebbe apparire meschino, se non fosse per quella che è stata l’incessante campagna condotta dalla chiesa per renderla qualcosa di più di ciò che fu. Una campagna che partì quando lei era ancora in vita, all’epoca in cui il giornalista antiabortista inglese Malcolm Muggeridge si accollò la croce di curare l’immagine pubblica di Madre Teresa, prima con un documentario agiografico del 1969, poi con un libro pubblicato nel 1971. Fu lui ad avviare il movimento d’opinione per andare a collocarla nel “regno del mito” più che in quello della storia.

La sua beatificazione postuma è stata intrapresa col furore di chi non vuole essere beccato. Papa Giovanni Paolo II esonerò il suo processo di beatificazione da quello che sarebbe stato un normale periodo d’attesa quinquennale e infatti esso cominciò ad appena un anno dalla sua morte. Si sarebbe propensi a supporre che una donna disposta a ricorrere a metodi tanto straordinari dovesse essere al di sopra di ogni sospetto. E tuttavia nel corso della sua vita Madre Teresa s’intrattenne con famigerati despoti del calibro di Jean-Claude Duvalier di Haiti (dal quale accettò la Legione d’Onore nel 1981) e l’albanese Enver Hoxha.

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Non bisogna avere paura della verità

L’intervento in via d’Amelio di Nino Di Matteo

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Prendere oggi la parola, in questo luogo e nella stessa ora della strage di ventidue anni fa, è per me un grande onore ed una grande responsabilità alla quale non ho voluto sottrarmi con la precisa consapevolezza che le commemorazioni di oggi avranno un senso solo se sostenute dall’impegno, dalla passione civile, dal coraggio che dobbiamo dimostrare da domani.
Non ho voluto sottrarmi alla profonda emozione che vivo in questo momento perché innanzitutto sento il bisogno di ringraziare, da cittadino, quei cittadini che, come tanti di voi, continuano a dare quotidiana testimonianza di essere innamorati della Giustizia, della Democrazia, della Costituzione, del nostro Paese. Per questo, riconoscendo in Paolo Borsellino l’incarnazione di quei sentimenti di amore e libertà, cercano di conservarne e tramandarne la memoria. Per questo si pongono a scudo di quei sacrosanti valori contro i tanti che anche oggi, anche nelle Istituzioni e nella Politica, continuano a calpestarli ed offenderli con l’arroganza dei prepotenti e degli impuniti.
Voglio ringraziare i tanti cittadini che, nella semplicità e spontaneità delle loro espressioni di solidarietà, hanno saputo riconoscere coloro i quali ancora si battono per la verità, dimostrando di volerli proteggere non solo dalle insidie della violenza mafiosa ma ancor prima dal muro di gomma della indifferenza istituzionale, dal pericolo di quel tipo di delegittimazione ed isolamento che si nutre, oggi come ieri, di silenzi colpevoli, insinuazioni meschine, ostacoli e tranelli costantemente ed abilmente predisposti per arginare  quell’ansia di verità che è rimasta patrimonio di pochi. Quei pochi che ancora non sono annegati nella palude del conformismo, del quieto vivere, dell’opportunismo più bieco sempre più spesso mascherato dalla  invocata  opportunità politica.

Sono qui per dirvi che voi avete il sacrosanto diritto di continuare a chiedere tutta la verità sulla strage di via D’Amelio e noi magistrati  il dovere etico e morale di continuare a cercarla anche nei momenti in cui, come questo che stiamo vivendo,  ci rendiamo conto  di quanto quel cammino costi, sempre più, lacrime e sangue a chi non ha paura di percorrerlo anche quando finisce per incrociare il labirinto del potere.
Per continuare a ricercare la verità è però innanzitutto necessario, con  grande onestà intellettuale, rispettare la verità e non avere mai paura a declamarla anche quando ciò può apparire impopolare o sconveniente.
Paolo Borsellino ci ha insegnato a non avere mai paura della verità. Non dobbiamo avere allora paura  a ricordare  che  affermano il falso i tanti che per ignoranza, superficialità o strumentale interesse ripetono che i processi celebratisi a Caltanissetta sulla strage di via D’Amelio hanno portato ad un nulla di fatto. Ignorano o fingono di ignorare che ventidue persone sono state definitivamente condannate per concorso in strage; ignorano, o fingono di ignorare che proprio quel lavoro di tanti magistrati ha consentito che venissero già allora  alla luce i tanti e concreti elementi che oggi ci portano a ritenere  che quella di via D’Amelio non fu soltanto una strage di mafia e che il movente non era certamente esclusivamente legato ad una vendetta mafiosa nei confronti del Giudice.
Dobbiamo imparare il rispetto della verità ed il coraggio della sua affermazione ad ogni costo.
Non è vero ciò che tutti indistintamente affermano, e falsamente rivendicano, sulla volontà di fare piena luce sulle stragi. La realtà è un’altra. Questo intendimento è rimasto patrimonio di pochi, spesso isolati e malvisti, servitori dello Stato.
Dal progredire delle nostre indagini sappiamo che in molti, anche all’interno delle istituzioni, sanno  ma continuano a preferire il silenzio, certi che quel silenzio, quella vera e propria omertà di Stato, continuerà, esattamente come è avvenuto fino ad ora, a  pagare ,con l’evoluzione di splendide carriere e con posizioni di sempre maggior potere acquisite proprio per il merito di aver taciuto, quando non anche sullo squallido ricatto di chi sa  e utilizza il suo sapere per piegare le Istituzioni alle proprie esigenze.
Dobbiamo sempre avere il coraggio di rispettare la verità e gridare la nostra rabbia perché ancora nel nostro Paese il cammino di liberazione dalla Mafia è rimasto a metà del guado. Incisivo, efficace, giustamente rigoroso nel contrasto ai livelli operativi più bassi (quelli della manovalanza mafiosa); timoroso, incerto, con le armi spuntate nei confronti di quei fenomeni, sempre più gravi e diffusi, di penetrazione mafiosa delle Istituzioni, della Politica e della Economia. Verso quel pericolosissimo dilagare della mentalità mafiosa che inevitabilmente si intreccia con una corruzione diffusa che, solo a parole, si dice di voler combattere, mentre ancora, nei fatti si assicura ai ladri, ai corrotti, agli affamatori del popolo la sostanziale impunità.
Non si può ricordare Paolo Borsellino e restare silenti a fronte di ciò che sta accadendo nel nostro Paese  e che rappresenta l’ennesima mortificazione di quei valori per tutelare i quali il Giudice Borsellino è andato  serenamente incontro al suo destino con la fierezza e la dignità di un uomo dalla schiena dritta. Non si può ricordare Paolo Borsellino ed assistere in silenzio ai tanti tentativi in atto  (dalla riforma già attuata dell’Ordinamento Giudiziario a quelle in cantiere sulla responsabilità civile dei giudici, alla gerarchizzazione delle Procure anche attraverso  sempre più numerose e discutibili prese di posizione del C.S.M.) finalizzate a ridurre l’indipendenza della Magistratura a vuota enunciazione formale con lo scopo di comprimere ed annullare l’autonomia del singolo Pubblico Ministero ed il concetto di potere diffuso  in capo a tutti i rappresentanti di quell’Ufficio. Non si può assistere in silenzio all’ormai evidente tentativo di trasformare il Magistrato Inquirente in un semplice burocrate inesorabilmente sottoposto alla volontà, quando non anche all’arbitrio, del proprio capo; di quei Dirigenti degli Uffici sempre più spesso nominati da un C.S.M. che rischia di essere schiacciato e condizionato nelle sue scelte di autogoverno dalle pretese correntizie e politiche e da indicazioni sempre più stringenti del suo Presidente.
Non si può fingere di commemorare Paolo Borsellino quando nei fatti si sta tradendo il suo pensiero e il suo sentimento; il suo concetto, alto e nobile, dell’autonomia del Magistrato  come garanzia di libertà ed eguaglianza per tutti. Poco prima di essere ucciso il Giudice Borsellino, intervenendo ad un incontro con gli studenti sull’annoso problema dei rapporti mafia-politica, stigmatizzava l’inveterata prassi del ceto politico di ripararsi, per giustificare la mancata attivazione dei necessari meccanismi di responsabilità politica, dietro il comodo paravento dell’attesa  della definitività dell’accertamento giudiziario, nell’attesa quindi del passaggio in giudicato delle sentenze penali.
Oggi, a distanza di ventidue anni da quelle amare riflessioni di Paolo Borsellino, qualcosa è cambiato, ma non certamente in meglio. In una sentenza definitiva della Corte di Cassazione è accertato che un partito politico, divenuto forza di Governo nel 1994, ha poco prima annoverato tra i suoi ideatori e fondatori un soggetto  da molto tempo colluso con gli esponenti di vertice di Cosa Nostra e che da molti anni fungeva da intermediario consapevole dei loro rapporti con l’imprenditore milanese che di quel partito politico divenne, fin da subito, esponente apicale. Oggi questo esponente politico (dopo essere stato a sua volta definitivamente condannato per altri gravi reati) discute, con il Presidente del Consiglio in carica di riformare la legge Elettorale e quella Costituzione alla quale Paolo Borsellino aveva giurato quella fedeltà che ha osservato fino all’ultimo suo respiro. E’ necessario non perdere la capacità di indignarsi e trovare, ciascuno nel suo ruolo  e sempre nell’osservanza delle regole, la forza di reagire. Tutti  abbiamo il dovere di evitare che anche da morto Paolo Borsellino debba subire l’onta di veder calpestato il suo sogno di Giustizia. Quel meraviglioso ideale che condivideva con Giovanni Falcone, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina , Claudio Traina, e tanti altri giusti. Quei giusti la cui memoria non merita inganni, infingimenti, atteggiamenti di pavidità mascherati da prudenza istituzionale. Sono morti perché noi allora non fummo abbastanza vivi, non vigilammo, non ci scandalizzammo all’ingiustizia,ci accontentammo dell’ipocrisia civile, subimmo quel giogo delle mediazioni e degli accomodamenti che anche oggi ammorba l’aria del nostro Paese ed ostacola il lavoro di chi vuole tutta la verità. Noi continueremo a batterci, con umiltà ma altrettanta tenacia e determinazione. Lo faremo nelle aule di Giustizia e, per ciò che ci è consentito, intervenendo nel dibattito pubblico per denunciare i gravi e concreti rischi che incombono sulla indipendenza della Magistratura e, quindi, sul principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Lo faremo mantenendo sempre nel cuore l’esempio dei nostri morti, guidati esclusivamente dalla volontà di applicare i principi della nostra Costituzione e con lo sguardo fisso alla meta della verità, consapevoli che solo la ricerca della verità può legittimarci a commemorare chi è morto dopo aver combattuto la giusta battaglia.

Nino Di Matteo

I tre setacci

Un giorno Socrate fu avvicinato da un uomo che gli disse: “Ascolta, ti devo raccontare qualcosa d’importante sul tuo amico” “Aspetta un po’”, lo interrupe il saggio, “hai passato attraverso i tre setacci ciò che mi vuoi raccontare?”. “Quali setacci?”. “Ascoltami bene: il primo setaccio è quello della verità. Sei convinto che tutto quello che mi vuoi dire sia vero?”. “In effetti no: l’ho solo sentito raccontare da altri”. “Ma allora l’hai almeno passato al secondo setaccio, quello della bontà?” L’uomo arrossì e rispose: “Devo confessarti di no” “E hai pensato al terzo setaccio? Ti sei chiesto a che serva raccontarmi queste cose sul mio amico? Serve a qualcosa?” “Beh, veramente no” “Vedi?” continuò il saggio, “se ciò che mi vuoi raccontare non è vero, nè buono, nè utile, allora sarà meglio che tu lo tenga per te”.

Vogliono la certezza a ogni costo

Gli uomini hanno bisogno di punti d’appoggio, vogliono la certezza a ogni costo, anche a spese della verità. Poiché essa è corroborante, e loro non possono farne a meno anche quando sanno che è menzognera, non ci sarà scrupolo capace di trattenerli dallo sforzo di procurarsela.

(Emil Cioran)

Niente Coppi senza i Carrea

In morte di Andrea Carrea, detto Sandrino forse per affrontare con un diminutivo la solennità del suo corpaccione contaidno, 89 anni, nato a Gavi ma cresciuto a Cassano Spinola, si è ricordato l ultimo gregario storico di Fausto Coppi e quindi di un certo ciclismo. Il penultimo ad andarsene era stato, poco più di un anno fa, Ettore Milano, 86 anni, anche lui di quella provincia di Alessandria che ha dato allo sport italiano campioni enormi di ciclismo e calcio, con una concentrazione di talenti che forse meriterebbe un qualche studio serio: Girardengo, Coppi, Baloncieri, Giovani Ferrari, Rivera

Milano, erre “roulée” alla francese proprio come Rivera e come tanti di quella provincia (idem per Parma), era in corsa il paggio psicologo di Coppi, Carrea era il suo diesel da traino e spinta.

Scelti entrambi, per aiutare il Campionissimo, da Biagio Cavanna detto l orbo di Novi Ligure, il massaggiatore cieco che tastava i muscoli e indovinava le carriere (e a Milano diede pure la figlia in sposa).

I due non avevano vinto mai in prima persona, Fausto vinceva anche per loro che lavoravano per lui portandogli in corsa acqua,panini,conforti vari, tubolari, amicizia. Un giorno al Tour de France del1952 Carrera si trovò, ”a sua insaputa”come uno Scaiola del ciclismo, in maglia gialla.

Un gendarme lo pescò in albergo per portarlo alla vestizione. Carrrea si scusò con Coppi per eccesso di iniziativa, avendo fatto parte di un gruppetto, teoricamente innocuo, di fuggitivi non ripresi.

Il giorno dopo il suo capitano gli prese, come da copione, la maglia gialla scalando l Alped Huez e arrivò da dominatore a Parigi. Un cantante ciclofilo, Donatello, che ha fatto anche Sanremo, ha composto una canzone splendida che è un sogno di bambino e dice: “Un giorno, per un giorno, vorrei essere Carrea”.

Il gregario nel ciclismo non c è più, almeno nel senso classico: libertà di rifornimento continuo dalle ammiraglie, licenza per ogni assistenza tecnica in corsa, severità della giuria quando, specialmente in salita, ci sono troppe spinte per i capisquadra, che facevano chilometri senza dare una pedalata, hanno procurato dignità aduna collaborazione che non è più umiliante e servile, e che consiste soprattutto nel pedalare con accelerazioni giuste al momento giusto, nell aiutare, aprendogli un tunnel nell aria, il capitano quando è il momento di tirare per rimediare aduna sua défaillance o rafforzare una sua iniziativa. Nello sport tutto i gregari sono di tipo nuovo.

Diceva Platini genio del calcio: “Importante non è che io non fumi, è che non fumi Bonini”. Il quale Bonini gli gocava dietro, riempiva il campo del suo gran correre, cercava palloni per servirglieli. Adesso i grandi gregari del calcio, alla Gattuso, guadagnano bene, sono stimati, cercati. Coppi lasciava comunque ai gregari tutti i suoi premi, e così li ha fatti ricchi.

Chi è adesso il gregario? Nell automobilismo il pilota che esegue gli ordini di scuderia, lascia passare il compagno che ha bisogno di punti, fa da “tappo” mettendosi davanti a chi lo insegue, e al limite “criminoso” sbatte fuoripista il concorrente pericoloso.

Nel ciclismo è ormai quello che sa propiziare il sonno al campione nelle dure prove a tappe, sa dargli allegrie o comunque distensione in corsa. Nel mondo dell atletica il gregario si chiama lepre, ed è pagato, nelle corse lunghe,per tenere alto il ritmo nella prima parte, sfiancando gli avversari e propiziando un tempo di finale di eccellenza: poi può ritirarsi. Sta sul mercato, è ingaggiabile anche al momento, per una corsa sola.

Nella scherma magari è quello che tiene per il campione il conteggio delle vittorie regalate in tornei di ridotta importanza o comunque prospettanti al campione stesso una eliminazione ormai sicura, gli fa il calcolo dei crediti e dei debiti così messi insieme nel rapporto con avversari importanti, gli dice quando è tempo di “passar vittoria”.

Il gregario nuovo può anche arrivare a sperimentare su se stesso il prodotto dopante o il prodotto coprente, correndo dei rischi. Ma la sua funzione diventa sempre meno materiale. E si deve ricordare che il prototipo altamente psicologico del gregario che dà serenità, oltre a procurare una buona compagnia negli allenamenti, tiene quattro gambe anzi zampe. E un cavallo: si chiamava Magistris, era un quasi brocco, ma senza di lui vicino, in pista come nella stalla,il favoloso Ribot era nervoso, tirava calci e nitriva di rabbiosa tristezza.