Io non so se ci si possa perdonare di non riuscire a sentire le guerre. Se davvero abbiamo il cuore così stretto e l’intelligenza così strabica da non occuparci di quello che succede in tutti i luoghi così dissimili da noi. Forse il nostro federalismo è una legittimazione di un egoismo che non vogliamo combattere perché ci risulta faticoso o forse perché la borsa delle preoccupazioni è già colma delle sole cose vicine.
Comunque: in Siria c’è la guerra. Guerra vera, guerra per strada senza armi troppo artificiali e con i bambini maciullati per terra. Guerra a morsi ma con troppo poco petrolio per diventare internazionale. Guerra raccontata come sappiamo s-raccontare noi quando vogliamo essere coccolati nella rassicurante idea collettiva delle guerre e della morte.
Francesca Borri, freelance in Siria, prova a chiedere una riflessione sulla narrazione della guerra e, sopratutto, sul ruolo dell’informazione:
Ma siamo reporter di guerra, dopo tutto, o no? Una band of brothers (e sisters). Rischiamo la nostra vita per dare voce ai senza voce. Abbiamo visto cose che la maggior parte delle persone non vedrà mai. Siamo un bel repertorio di storie per quando siete a tavola, gli ospiti cool che ognuno vuole invitare. Ma la sporca verità è che invece di essere uniti, siamo i nostri peggiori nemici; e il motivo per cui un pezzo viene pagato 70 dollari al pezzo non è che non ci sono soldi, perché ci sono sempre soldi per un pezzo sulle fidanzate di Berlusconi. La vera ragione è che se uno chiede 100 dollari, c’è qualcun altro che è pronto a farlo per 70. È la concorrenza più feroce. Come Beatriz, che oggi mi ha segnalato la strada sbagliata così sarebbe stata l’unica a coprire la manifestazione, e mi sono trovata in mezzo ai cecchini per colpa del suo inganno. Solo per coprire una manifestazione, come centinaia di altri.
Ma facciamo finta di essere qui per far sì che nessuno potrà dire “Ma non sapevo che cosa stava accadendo in Siria”. Quando in realtà noi siamo qui solo per ottenere un premio, per ottenere visibilità. Noi stiamo qui a competere l’uno contro l’altro come se ci fosse un Pulitzer alla nostra portata, quando invece non c’è assolutamente nulla. Noi siamo schiacciati tra un regime che ti concede un visto solo se sei contro i ribelli, e i ribelli che, se tu stai dalla parte loro, ti permettono di vedere solo quello che vogliono farti vedere. La verità è che siamo dei falliti. Due anni dopo, i nostri lettori a malapena si ricordano dove è Damasco, e il mondo istintivamente descrive ciò che sta accadendo in Siria come “quel caos”, perché nessuno capisce nulla di Siria — solo sangue, sangue, sangue. Ed è per questo che i siriani non ci possono vedere ora. Perché mostriamo al mondo foto come quella bambino di sette anni con una sigaretta e un kalashnikov. È chiaro che è una foto artefatta, ma è apparsa sui giornali e siti web di tutto il mondo a marzo scorso, e ognuno poteva urlare: “Questi siriani, questi arabi, che barbari!” Quando sono arrivata qui, i siriani mi fermavano e mi dicevano: “Grazie che state mostrando al mondo i crimini del regime”. Oggi un uomo mi ha fermato, e mi ha detto: “Vergognati”.
Se davvero avessi capito qualcosa della guerra, non avrei dovuto dimenticarlo cercando di scrivere di ribelli e lealisti, sunniti e sciiti. Perché davvero l’unica storia da raccontare in guerra è come vivere senza paura. Tutto potrebbe finire in un istante. Se l’avessi saputo, non avrei avuto così paura di amare, di osare, nella mia vita; invece di essere qui, ora, a stringere me stessa in questo angolo buio, rancido, a rimpiangere disperatamente tutto quello che non ho fatto, tutto quello che non ho detto. Voi che domani sarete ancora vivi, che cosa state aspettando? Perché non amate abbastanza? Voi che avete tutto, perché avete così paura?