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Undicesimo: sopportare

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Pensavo questa mattina (la mattina penso, ogni tanto, poco dopo avere fatto colazione, alle cose più impensabili come la vita, i miei figli, i miei genitori e al mio fratello sparpagliato in giro; poi torno a scrivere e mi normalizzo), insomma questa mattina pensavo a quanto possa essere lecita la cattiveria. Se esiste una cattiveria buona giustificata dal rancore, dall’odio personale (e pure quello impersonale) e dalla convulsione delle ferite ancora aperte. Me lo chiedevo fin da piccolo, quando incontravo qualcuno (se ne incontrano, eh) che mi raccontava che per ammaestrare i cani ogni tanto serve un buon calcio ben assestato, o quelli che ritengono il dolore un passaggio curativo da propinare in fase educativa.

Me lo chiedo stamattina, e non ho dormito male e nemmeno mangiato pesante ieri sera, perché sto passando gli ultimi mesi a scavalcare situazioni che richiederanno una soluzione lunga, di quelle cose che solo il tempo riesce a spiegare con il tempo, e in molti mi dicono che sia normale. Nella vita, mi dicono, ci sono fasi in cui c’è da subire stando zitti, senza reagire, essere saggi.

E mentre mi impegno a subire con eleganza mi pare che intorno tutto si sbricioli un po’ come il sapone che s’indurisce incollandosi sul lavandino e ripenso a quella frase di Giovanni Soriano nel suo libro “Maldetti. Pensieri in soluzione acida” che dice “dietro un’apparente cattiveria può nascondersi, a volte, una persona davvero malvagia“.

Ci insegnano fin da bambini a sopportare, ad essere sempre più bravi a sopportare qualsiasi cosa e alla fine questo ‘sopportare qualsiasi cosa’ è la cosa più spaventosa, forse.